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L'affaire Moro - Leonardo Sciascia





lunedì 12 dicembre 2011 legge Carlo Varotti
L'affaire Moro uscì a distanza di pochi mesi dal rapimento e la morte di Aldo Moro. Letto da subito come un pamphlet, un''accesa denuncia del ''sistema'democristiano, il libro diede avvio a dibattiti e polemiche: come non poteva non essere di fronte a un fatto che non solo aprì una ferita non rimarginabile nella coscienza del paese, ma che rimane tutt''ora uno dei misteri (quantunque non il solo, ahinoi) più oscuri della nostra storia repubblicana. Ma l''affaire è altro e molto di più. Innanzi tutto una riflessione straordinariamente profonda sul rapporto tra individuo e potere, sulle ragioni del singolo e quelle della società. Lo scrittore pone al centro della sua riflessione la tragedia di un uomo schiacciato tra due ''Ragioni'(quella di Stato e quella dell''eversione) egualmente astratte e dis-umane (il "disconoscimento dell''uomo" – dirà Sciascia qualche mese dopo, è ciò che mi ha indignato e spinto a scrivere il libro). E lo fa con gli strumenti di una letteratura che pretende di essere restituita alla dignità che le compete: una letteratura che può divenire intuizione quasi profetica della verità e ricomporre in un disegno di senso i frammenti esplosi della realtà (e non a caso il libro si apre con una lunga citazione di Pasolini - omaggio al poeta morto tre anni prima - e con un richiamo all''amatissimo Borges). E sono le parole (quelle delle lettere di Moro, dei comunicati delle BR, dei giornali) ad essere dilatate, pesate e anatomizzate. Parole che diventano pesantissime e che svelano sensi possibili: e che sono una luce nel buio. Una povera luce. Ma la sola possibile. 

L. Sciascia, L’’affaire’ Moro.

Cap. 1
Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola. Non ne vedevo, in questa campagna, da almeno 40 anni: e perciò credetti dapprima si trattasse di uno schisto del gesso con cui erano state murate le pietre o di una scaglia di specchio; e che la luce della luna, ricamandosi tra le fronde, ne traesse quei riflessi verdastri. Non potevo subito pensare a un ritorno delle lucciole, dopo tanti anni che erano scomparse. Erano ormai un ricordo: dell’infanzia allora attenta alle piccole cose della natura, che di quelle cose sapeva fare giuoco e gioia. Le lucciole le chiamavamo “cannileddi di picuraro”, così i contadini le chiamavano. Tanto consideravano greve la vita del pecoraio, le notti passate a guardia della mandria, che gli largivano le lucciole come reliquia o memoria di luce nella paurosa oscurità. Paurosa per gli abigeati frequenti. Paurosa perché bambini erano di solito quelli che si lasciavano a guardia delle pecore. Le candeline del pecoraio, dunque. E ogni tanto ne prendevamo qualcuna, la tenevamo delicatamente chiusa nel pugno per poi aprirne a sorpresa, tra i più piccoli di noi, quella fosforescenza smeraldina.

Era proprio una lucciola, nella crepa del muro. Ne ebbi una gioia intensa. E come doppia. E come sdoppiata. La gioia di un tempo ritrovato – l’infanzia, i ricordi, questo stesso luogo ora silenzioso pieno di voci e di giuochi – e di un tempo da trovare, da inventare. Con Pasolini. Per Pasolini. Pasolini ormai fuori del tempo ma non ancora, in questo terribile paese che l’Italia è diventato, mutato in se stesso (…)


Le lucciole. Il palazzo. Pasolini voleva processare il palazzo quasi in nome delle lucciole. Per le lucciole scomparse. “Poiché sono uno scrittore, e scrivo in polemica, o almeno discuto, con altri scrittori, mi si lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di quel fenomeno che è successo in Italia una decina d’anni fa. Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e probabilmente a capirlo anche meglio). Nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta.)

“Quel ‘qualcosa’ che è accaduto una diecina di anni fa lo chiamerò dunque ‘scomparsa delle lucciole’.

“Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili.

“La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi”.

E ancora: “Nella fase di transizione – ossia ‘durante la scomparsa delle lucciole’ – gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal ’69 a oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere”.

Le lucciole. Il palazzo. Il processo al palazzo. E come se, dentro al palazzo, tre anni dopo la pubblicazione sul “Corriere della sera” di questo articolo di Pasolini, soltanto Aldo Moro continuasse ad aggirarsi: in quelle stanze vuote, in quelle stanze già sgomberate. Già sgomberate per occuparne altre ritenute più sicure: in un nuovo e più vasto palazzo. E più sicure, si intende, per i peggiori. “Il meno implicato di tutti”, dunque. In ritardo e solo: e aveva creduto di essere una guida. In ritardo e solo appunto perché il “meno implicato di tutti”. E appunto perché il “meno implicato di tutti” destinato a più enigmatiche e tragiche correlazioni.




Cap. 3
Uno dei racconti più straordinari che Borges abbia mai scritto è quello che, nelle Ficciones, s''intitola Pierre Menard, autore del "Chisciotte".

Come tutte le cose che sembrano assolutamente fantastiche, di pura astrazione e misteriose, questo racconto parte da un dato reale, da un fatto, da un preciso avvenimento che quello che si usa denominare il mondo occidentale ha, se non conosciuto, respirato. Quest''avvenimento è la pubblicazione, nel 1905, della Vida di don Quiiote y Sancho di Miguel de Unamuno. Da quel momento non fu più possibile leggere il Don Chisciotte come Cervantes l''aveva scritto: l''interpretazione unamuniana, che sembrava trasparente come un cristallo rispetto all''opera di Cervantes, era in effetti uno specchio: di Unamuno, del tempo di Unamumo, del sentimento di Unamuno, della visione del mondo e delle cose spagnole che aveva Unamuno. Da allora si è letto il Don Chisciotte di Unamuno credendo di leggere ancora il Don Chisciotte di Cervantes: e di fatto leggendo quello di Cervantes. Circa mezzo secolo dopo, Borges scriveva di Pierre Menard: uno scrittore francese che, accanto a un''esile opera “visibile”, ne lascia una non compiuta ma eroica, ma impareggiabile - e "invisibile": la composizione non di un "altro" Don Chisciotte ma “del” Don Chisciotte. Del Don Chisciotte di Cervantes. In tutto eguale. E in tutto diverso. “Il raffronto tra la pagina di Cervantes e quella di Menard è senz''altro rivelatore. Il primo, ad esempio, scrisse (Don Chisciotte, parte I, cap. IX): ... la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell''avvenire. Scritta nel secolo XVII, scritta dall''ingenio lego Cervantes, questa enumerazione è un mero elogio retorico della storia. Menard, per contro, scrive: ... la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e norizia del presente, avviso dell''avvenire. La storia, madre della verità; l''idea è meravigliosa. Menard, contemporaneo di William James, non vede nella storia l''indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica, per lui, non è ciò che avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che avvenne”.

Questo racconto, questo apologo, mi si è riacceso nella memoria appena ho finito di dare un sommario ordine alle cronache e ai documenti dell''affaire Moro. Si adeguava all''invincibile impressione che l''affaire Moro fosse già stato scritto, che fosse già compiuta opera letteraria, che vivesse ormai in una sua intoccabile perfezione.

(...)

Ma il richiamo all''apologo di Borges vuole essere meno superficiale, meno parodistico. Perché l''impressione che l''affaire Moro sia già stato scritto, che viva in una sfera di intoccabile perfezione letteraria, che non si possa che fedelmente riscriverlo, e però, riscrivendolo, mutar tutto senza nulla mutare? le ragioni sono tante; e non tutte decifrabili. E'da dire, intanto, che, come il Don Chisciotte, l''affaire Moro si svolge irrealmente in una realissima temperie storica e ambientale. Allo stesso modo che don Chisciotte dai libri della cavalleria errante, Moro e la sua vicenda sembrano generati da una certa letteratura. Ho ricordato Pasolini. Posso anche - non rallegrandomene ma nemmeno rinnegandoli - ricordare due miei racconti, almeno due: Il contesto e Todo modo. Nella Storia della Democrazia cristiana di Giorgio Galli, pubblicata qualche mese prima dell’affaire, si legge: “probabilmente una parte di questo personale dirigente (della Democrazia cristiana), sino agli anni Cinquanta espresso dagli organi tipici della cultura e della formazione cattolica, comprende, a partire dagli anni Sessanta, un numero crescente di individui di diversa formazione, e forse persino non credenti (ma sempre praticanti). Comunque, l’ideologia ufficiale che cementa il blocco di potere nel quale la Democrazia cristiana si viene sempre più trasformando, è una introeiezione dei concetti e dei valori dello schema ‘eusebiano’. Al culmine del processo degenerativo di questa sorta di filosofia della prassi conservatrice, Leonardo Sciascia ed Elio Petri sintetizzeranno, nel film Todo modo, la parabola di personaggi dei quali i relatori sulla socialità, già a questo congresso di Napoli (1952), sono in qualche modo emblematici”. Una sintesi, una tirata di somma: ma nel vuoto di riflessione, di critica e persino di buon senso in cui la politica italiana si è svolta, le sintesi non potevano apparire che anticipazioni, che profezie; se non addirittura istigazioni. Lasciata insomma alla letteratura la verità, la verità – quanto dura e tragica apparve nello spazio quotidiano e non fu più possibile ignorarla o travisarla – sembrò generata dalla letteratura. Dagli uomini politici del potere, o al potere vicini, gli uomini di lettere (preferibile “uomini di lettere” – di Voltaire e del suo tempo – a “intellettuali”, termine di generica e imprecisa massificazione) ne furono accusati: e con una certa buonafede, con una certa innocenza, considerando che gli stessi uomini di lettere avrebbero ad un certo punto avuto l’allucinazione di aver generato la realtà.




Cap. 4
Nel farsi di ogni avvenimento che poi grandemente si configura c’è un concorso di minuti avvenimenti, tanto minuti da essere a volte impercettibili, che in un moto di attrazione e di aggregazione corrono verso un centro oscuro, verso un vuoto campo magnetico in cui prendono forma: e sono, insieme, il grande avvenimento appunto. In questa forma, nella forma che insieme assumono, nessun minuto avvenimento è accidentale, incidentale, fortuito: le parti, sia pure molecolari, trovano necessità – e quindi spiegazione – nel tutto: e il tutto nelle parti.

Uno di questi piccoli avvenimenti è nell’affaire Moro l’espressione “il grande statista” che a un certo punto sostituisce il nome Moro o espressioni come “il Presidente della Democrazia cristiana”, il “leader”, il “grande leader” (…) . L’espressione era quella che ci voleva, quella che si cercava affinché ogni riferimento a Moro contenesse – sottaciuto ma effettuale – un confronto tra quel che era stato e quel che più non era. Era stato un “grande statista”; e ora altro non era che un uomo (parole sue, nella prima lettera dalla “prigione del popolo”: e saranno, fin oltre la conclusione della vicenda, le più citate) “sotto un dominio pieno e incontrollato”.




Cap. 13
Subito dopo il comunicato numero sette, lo stesso giorno 20, arriva alla redazione milanese de La Repubblica una fotografia di Moro. A certificazione di quella che in burocrazia si dice “esistenza in vita”, gli hanno messo in mano La Repubblica del giorno precedente. Moro vi appare non deperito. E con la stanchezza di sempre.

L’indomani Zaccagnini riceve una nuova lettera di Moro. Vi è svolta la tesi, abbastanza lucida e sufficientemente condivisibile, che il “rispetto cieco della ragion di stato” nel non voler riscattare la sua vita, reintroduca di fatto la pena di morte nell’ordinamento costituzionale italiano.

(dalla lettera del 20 aprile) Di questi problemi, terribili ed angosciosi, non credo vi possiate liberare, anche di fronte alla storia, con la facilità, con l’indifferenza, con il cinismo che avete manifestato sinora nel corso di questi quaranta giorni di mie terribili sofferenze.

(…) Possibile che siate tutti d’accordo nel volere la mia morte per una presunta ragione di Stato che qualcuno lividamente vi suggerisce, quasi a soluzione di tutti i mali?

(…) Il Governo è in piedi e questa è la riconoscenza che mi viene tributata, per questa come per tante altre imprese. In allontanamento dai familiari senza addio, la fine solitaria, senza la consolazione di una carezza, del prigioniero politico condannato a morte. Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante della storia d’Italia. Il mio sangue ricadrebbe su voi, sul partito, sul paese.


A lenire la lacerazione della Democrazia Cristiana interviene Paolo VI: qualche ora prima che scada l’ultimatum delle Brigate Rosse e con una lettera che la radio vaticana diffonde e i giornali riproducono in autografo l’indomani. Lettera che sembra di alto sentire cristiano: solo che vi si cela, nell’esortazione agli uomini delle Brigate Rosse a liberare Moro “semplicemente senza condizioni”, una specie di confermazione – e sarebbe da dire tout court cresima- della Democrazia Cristiana in quella sua dichiarata “indefettibile fedeltà allo stato”.

Nella “prigione del popolo”, a Moro non sfugge quel che alla generalità degli italiani, commossi dall’inginocchiarsi del papa davanti ai brigatisti, non appare: che Paolo VI ha più “senso dello stato” di quanto abbia dimostrato di averne il principe Poniatowski, ministro degli Interni dello Stato francese, che in tempi non lontani aveva dichiarato ammissibile il principio di trattare con i terroristi per evitare il sacrificio “della vita umana innocente”. Vale a dire che la pensava esattamente come Moro: né si può dire che lo Stato francese non sia Stato; lo è con tutti i sacramenti, è il casi di dire. I sacramenti che fanno Stato uno Stato; e magari in abbondanza.

E tenterà, Moro, di convincere il papa: “In concreto lo scambio gioca (ed è un punto che umilmente mi permetto sottoporre al S. Padre) non solo a chi è dall’altra parte, ma anche a chi rischia l’uccisione, alla parte non combattente, in sostanza all’uomo comune come me”. E in una delle ultime lettere, meno umilmente, farà notare come nell’atteggiamento della Santa Sede nei riguardi del suo caso ci sia una modifica di precedenti posizioni e un rinnegamento di tutta una tradizione umanitaria. “E’ una cosa orribile, indegna della Santa Sede… Non so se Poletti (il cardinale Poletti) può rettificare questa enormità in contraddizione con altri modi di comportarsi della Santa Sede”: e certamente pensa all’offrirsi del papa, qualche mese prima, come ostaggio ai terroristi tedeschi che minacciavano la strage dei passeggeri di un aereo, a Mogadiscio. Offerta che allora apparve senza senso della realtà: ma veniva dall’unica realtà che un papa può ritrovare e celebrare, nell’assistere inerme e come sconfitto al ribollire della violenza.

Come era prevedibile, l’appello del papa passa come acqua sulle pietre; e la comunicazione della Democrazia Cristiana di aver dato incarico alla Carità di cercare “possibili vie” è considerata dalle Brigate Rosse tutt’altro che chiara e definitiva (comunicato n° 8 del 24 aprile). Ma l’ultimatum viene sospeso. Evidentemente, è la posizione assunta dal Partito Socialista Italiano a fermare le Brigate nell’esecuzione della sentenza. Forse, a questo punto, il governo potrebbe – anche spregiudicatamente, anche cinicamente –giocare ad alimentare il dissenso che cova all’interno delle Brigate Rosse: tra coloro che hanno deciso che Moro deve morire e coloro che lo libererebbero contro un cedimento anche simbolico dello Stato italiano. Non c’è, ripeto, nessun segno certo di un tale dissenso: eppure lo si intuisce, lo si sente, lo si intravede. Forse perché sto cercando di capire anche loro. Di capire gli “uomini delle Brigate Rosse”, come il papa li chiama: anche se non amandoli come il papa dice di amarli. Di capire quelli di loro che stanno a guardia di Moro e che lo processano: in quella difficile, terribile familiarità quotidiana che inevitabilmente si stabilisce. Nello scambiare parole, colloquiali o di accuse e discolpe. Nel consumare insieme i cibi. Nel sonno del prigioniero e nella veglia del carceriere. Nell’occuparsi della salute di quest’uomo condannato a morte. Nel leggere i suoi messaggi e nel rischio corso ogni volta per recapitarli. Tanti piccoli gesti; tante parole che inavvertitamente si dicono, ma che provengono dai più profondi moti dell’animo; un incontrarsi di sguardi nei momenti più disarmati; l’imprevedibile e improvviso scambio di un sorriso; i silenzi –sono tante le cose, tanti i momenti, che giorno dopo giorno – per più di cinquanta –possono insorgere ad affratellare il carceriere e il carcerato, il boia e la vittima. E al punto che il boia non può più essere boia.

In una sua lettera – quella del 29 aprile – Moro ad un certo punto dirà: “La pietà di chi mi recava la lettera (dei familiari, pubblicata da un giornale) ha escluso i contorni che dicevano la mia condanna (da parte della Democrazia Cristiana, nel non voler trattare)”. E direi che è il momento più alto, più cristianamente alto, toccato dalla tragedia.




Cap. 15
Nella sede centrale della Democrazia Cristiana, nella romana piazza del Gesù, viene distribuito ai giornalisti un documento che ho già definito, per come mi parve e mi pare, mostruoso. Una cinquantina di persone, “amici di vecchia data” dell’onorevole Moro, solennemente assicurano che l’uomo che scrive lettere a Zaccagnini, che chiede di essere liberato dal “carcere del popolo” e argomenta sui mezzi per farlo, non è lo stesso uomo di cui sono stati lungamente amici. “Non è l’uomo che conosciamo, con la sua visione spirituale, politica e giuridica che ha ispirato il contributo alla stesura della Costituzione repubblicana”.

Si sa come in Italia, e specialmente tra gli intellettuali, si raccolgono adesioni a manifesti e dichiarazioni di protesta civile: spesso per telefono, sommariamente comunicandone il contenuto. E distrattamente, fidando nella comunanza di idee o di opinioni con colui che la chiede, l’adesione vien data: come a scrollarsi di un fastidio che frequentemente ricorre. E’ possibile dunque che qualcuno, con eguale distrazione, abbia aderito a questa dichiarazione su Moro. Ma non si doveva, non si trattava di una protesta civile, ma piuttosto, di una incivile protestazione.

Tra i firmatari della protestazione, colpisce la presenza di un filologo illustre e di un non meno illustre esegeta di Sant’Agostino, e cardinale per giunta. Come fa il filologo a non accorgersi che il Moro che scrive dal “carcere del popolo” è integralmente e lucidamente il Moro che ha scritto sull’ antigiuridicità del diritto penale, che meno di due mesi prima ha pronunciato in Parlamento quel discorso a difesa dell’onorevole Gui? E come fa l’esegeta di Agostino a non sapere quanto è difficile, addirittura impossibile, conoscere un uomo; quanto arrogante – senza carità – il voler apporre certificazione e giudizio a quel che era e a quel che non è più, a come era e a come non è. “Io ritengo giustissima quella legge dell’amicizia secondo la quale non si deve amare l’amico né più né meno di quanto noi stessi ci amiamo. Ora se anch’io sono sconosciuto a me stesso, non gli faccio davvero torto dicendo che lui è a me sconosciuto; tanto più che, come credo, neppure lui si conosce”. O, travalicando la legge che Agostino accetta, il cardinale ha amato Moro più di se stesso e quindi più di se stesso ha conosciuto il Moro di prima?

Non lo ha conosciuto per nulla. E quel che è peggio, ora rifiuta di avvicinarsi a conoscerlo: ora che come non mai dovrebbe conoscerlo, riconoscerlo, non abbandonarlo, , non lasciarlo “uomo solo” di fronte alla morte, la tremenda morte che gli viene da altri uomini.

Cap. 16

… dopo la lettera del 27 aprile – l’ultima diretta alla Democrazia Cristiana e al mondo politico italiano: a meno che non ce ne siano altre tenute segrete – la famiglia affida ai giornali un duro comunicato:


La famiglia di Aldo Moro, dopo tanti giorni di attesa angosciosa, rivolge un pressante appello alla DC affinché essa assuma con coraggio le proprie responsabilità per la liberazione del suo presidente. La famiglia ritiene che l’atteggiamento della DC sia del tutto insufficiente a salvare la vita di Aldo Moro.

Sappia la delegazione democristiana, sappiano gli onorevoli Zaccagnini, Piccoli, Bartolomei, Galloni e Gaspari che con il loro comportamento di immobilità e rifiuto di ogni iniziativa proveniente da diverse parti ratificano la condanna a morte di Aldo Moro. Se questi cinque uomini non vogliono assumersi la responsabilità di dichiararsi disponibili alla trattativa, convochino almeno il Consiglio nazionale della DC, come formalmente richiesto dal suo presidente.

(…)

Per evitare una lunga stagione di dolore e di morte, non serve negare la dura realtà: occorre invece affrontarla con lucido coraggio.


Il governo risponde, due giorni dopo, con una nota, dicono i giornali, “scritta di pugno d’Andreotti”. E sarebbe da portare anche questo all’attenzione dello psicanalista: il fatto che i giornalisti tengano al particolare di Andreotti che scrive “di pugno” il comunicato del governo. E’ un’immagine, di un uomo che scrive una sentenza. Comincia forse da questa focalizzazione di un particolare fisico quell’inconscio processo di deresponsabilizzazione che presto o tardi finirà con l’esplodere (e se presto, primamente segnerà la fine del governo Andreotti).

La nota del governo dice:


L’invito al governo rivolto dalla DC di approfondire il contenuto della soluzione umanitaria adombrata dal PSI, avrà un seguito nella riunione del Comitato interministeriale per la sicurezza che avrà luogo nei prossimi giorni. Si osserva tuttavia fin d’ora che è nota la linea del governo di non ipotizzare la benché minima deroga alle leggi dello Stato e di non dimenticare il dovere morale del rispetto del dolore delle famiglie che piangono le tragiche conseguenze dell’operato criminoso degli eversori.


Se davvero questa nota l’ha scritta Andreotti, e di suo pugno, l’ha scritta più nel linguaggio di Moro che nel proprio. Di solito lui è più chiaro, più banalmente chiaro. Quale coincidenza riconosceremo più tardi in questo fatto? Traduciamo, intanto: “La Democrazia Cristiana chiede al governo democristiano di tener quieto il Partito Socialista, sulla cui quiete è fondata la quiete del governo, mostrando una certa considerazione nei riguardi di una soluzione umanitaria del caso Moro. Il governo intende e sta al gioco: ci sarà una ristretta riunione di ministri assolutamente inutile, poiché il governo ha già deciso di non trattare in nessun modo con le Brigate rosse, per il rispetto che si deve alle famiglie i cui congiunti sono stati uccisi dai brigatisti”.

Ha ragione Moravia: in Italia la famiglia spiega tutto, giustifica tutto, è tutto. Come diceva Lincoln per la democrazia: della famiglia, per la famiglia, alla famiglia. Dunque per sopravanzare alle ragioni della famiglia Moro, per annientarle –poiché in quanto famiglia di ragioni ne ha – non c’è niente di meglio che servirle un certo numero di famiglie già in lutto, e quantomeno le cinque di coloro che facevano scorta all’onorevole Moro. Una ulteriore e più libera traduzione della nota, e più realistica, suonerebbe dunque così: “Il governo, altrimenti impotente, può mostrare la sua forza, e in qualche modo attenuare le critiche e i risentimenti che alla sua impotenza si rivolgono, soltanto lasciando che le Brigate rosse procedano a una soluzione egualitaria del caso Moro. Se poi l’Innominato che le comanda sarà, per le preghiere del Santo Padre, toccato dalla Grazia come l’Innominato del Manzoni, il governo non potrà che dirsi lieto della restituzione alla famiglia dell’onorevole Moro”.