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Templari e la Sindone - Storia di un falso - Andrea Nicolotti





lunedì 05 dicembre 2011 legge Paolo Cova
Ne I Templari e la Sindone. Storia di un Falso Andrea Nicolotti analizza il fenomeno della “sindonologia”, ovvero delle vicende del presunto sudario di Cristo, delle false reliquie e dei Templari. Proprio i Templari a causa della loro fine terribile e delle motivazioni politiche ed economiche ad essa sottese, sono spesso stati utilizzati come una sorta di collante universale per relazionare all’Ordine qualunque fatto misterioso, o comunque di difficile definizione. Infatti, negli studi di alcuni storici che si sono occupati della Sindone di Torino, i Templari sono serviti per spiegare la provenienza dell’icona del Cristo. In particolare Barbara Frale negli ultimi anni, attraverso la controversa lettura di alcuni documenti del processo ai cavalieri del 1307, ha ritenuto di aver trovato la prova definitiva del legame tra il lino e l’Ordine, rendendo a suo parere un po’ meno oscura la storia precedente alla prima ostensione, avvenuta diversi decenni dopo la fine del Tempio. La querelle sorta tra gli storici diventa allora l’occasione per riflettere sulle falsificazioni della storia, sulle letture distorte, per fini religiosi, politici, economici, ecc., dei documenti e delle testimonianze materiali, e in particolare anche delle opere d’arte. 


Andrea Nicolotti, I Templari e la Sindone. Storia di un falso, Roma, ed. Salerno, 2011, pp. 9-10, 59-64, 78-85, 137-139. Prefazione, di Malcolm Barber
Nel Pendolo di Foucault, la sua grande satira dell’industria editoriale, Umberto Eco descrive un gruppo di redattori alla ricerca di nuovi mercati da sfruttare, ora che il marxismo non è più di moda. Dato che uno di loro ha fatto la tesi sui Templari, decidono di costruire dal nulla un fenomeno letterario a partire dai “misteri” di questo ordine di monaci cavalieri, abbattuto così drammaticamente dal re Filippo il Bello nella Francia del primo Trecento. Fregandosi le mani dalla soddisfazione, si preparano a imporre l’argomento a un pubblico credulone.

Il Pendolo di Foucault prendeva di mira un genere di editoria già diffuso. I Templari, specie a motivo della loro orrenda fine, forniscono agli autori il mezzo ideale per inserire la storia dell’Ordine in qualunque cosa, dalle origini delle società massoniche fino al mistero della discendenza di Cristo. In molte di queste fantasie è centrale la pretesa che, a dispetto della loro soppressione, i Templari siano sopravvissuti come società occulta, trasmettendo i propri segreti di generazione in generazione, fino a oggi.

Non è quindi una sorpresa scoprire che i Templari siano utilizzati in modo molto simile in un’altra grande controversia religiosa popolare del nostro tempo, quella sulla provenienza della reliquia medievale conosciuta come la Santa Sindone, il tessuto su cui si suppone siano impressi i lineamenti di Cristo. Il più comune approccio impiegato è quello di “dimostrare” l’autenticità della reliquia in due modi: vengono presentate prove scientifiche per dimostrare l’antichità e l’origine geografica del manufatto oggi fisicamente esistente, mentre i Templari vengono coinvolti per colmare ogni lacuna cronologica durante il XII e XIII secolo, prima dell’improvvisa comparsa della Sindone nella Champagne, in una chiesa edificata da un uomo chiamato Geoffroy de Charny, nella seconda metà del XIV secolo.

Così la Sindone non ha rivelato la sua vera natura fino a quando non sono stati disponibili i mezzi tecnici per sciogliere il mistero. Dio ha un piano prestabilito per scioccare un’epoca presuntuosa, scientifica ed essenzialmente secolare, e costringerla a vedere al di là del suo “progresso”. Il Cielo ha preparato un gioco di prestigio per dimostrare che la religione, dopo tutto, è superiore alla scienza. L’aspetto più sottile sta in questo, che la divinità, onnisciente e fuori dal tempo, non ha messo le carte in tavola fino a quando l’umanità non ha posseduto la tecnologia adatta. Ma questa pseudo-scienza non basta, perché bisogna anche stabilire una falsa cronologia, ed è qui che i Templari entrano in scena. Secondo una versione della storia, i Templari sono venuti in possesso della Sindone in seguito alla IV crociata, nel 1204, e da allora l’hanno usata costruendole intorno un culto segreto. Così si è potuto sostenere che la Sindone è servita da modello per gli idoli a forma di testa che i Templari, nel processo, vennero accusati di adorare. Al momento del loro arresto nel 1307, l’hanno nascosta ai funzionari del re di Francia facendola giungere in possesso della famiglia Charny, un cui preteso parente, un altro Geoffroy de Charny, era all’epoca Precettore templare di Normandia.

La storia della Sindone occupa questo mondo, galleggiando sul confine tra fatto e invenzione, finché i due diventano impossibili da distinguere. La ricerca storica è ridotta a una serie di indizi lasciati dietro di sé dai nostri antenati, per essere scoperti alla nostra epoca da quelli che sono abbastanza abili da riconoscerli. In un certo senso gli ordini monastici del Medioevo portano la responsabilità di queste mistificazioni, perché è ben noto che reinventavano il loro passato allo scopo di accrescere la propria importanza nella Chiesa. Perfino il minuscolo ordine di San Lazzaro, noto nel regno di Gerusalemme negli anni Trenta del XII secolo come istituzione preposta alla cura dei cavalieri lebbrosi, pretese in seguito di essere stato il primo ordine ospedaliero; mentre, con un coraggio che toglie il fiato, i Carmelitani pretesero di essere il più antico ordine della Chiesa, fondato in epoca apostolica.

I cronisti monastici medievali, gli storici popolari moderni e gli autori di best-seller hanno, da questo punto di vista, qualcosa in comune, anche se gli scopi possono essere in un caso religiosi, in un altro finanziari, o entrambi. Perciò il libro di Andrea Nicolotti è un antidoto essenziale: non solo perché smaschera l’imbroglio sottostante a molte di queste storie inventate, ma anche perché mostra quali sono i metodi impiegati dagli storici veri.[…]



Legno o fustagno?
Fino a ora, però, abbiamo citato le dichiarazioni di cinque dei sei templari processati a Carcassonne: che fino ha fatto il sesto? Sarebbe proprio lui, secondo Frale, a fornire la prova determinante:

Al frate templare Guillaume Bos, ricevuto verso il 1297 nella commenda templare di Perouse presso Narbona, venne mostrato un «idolo» che aveva una forma molto particolare, un’immagine assai diversa dalle altre che erano per lo più reliquiari a bassorilievo. Si trattava di una specie di disegno monocromatico, un’immagine scura sul fondo chiaro di un panno che gli sembrava allo sguardo come tela di cotone («signum fustanium»):

«E immadiatamente fu portato in quello stesso luogo e ostenso dinanzi a lui come una specie di disegno su un panno di tela di cotone. Chiestogli di chi fosse la figura rappresentata lì sopra, rispose che era talmente stupefatto di quanto gli facevano fare che poté vederlo a mala pena, né riuscì a distinguere chi fosse la persona rappresentata in quel disegno: gli sembrava però che fosse fatto come di bianco e di nero, e lo adorò».

L’indicazione della commenda templare è incomprensibile e la descrizione e la traduzione del testo non corrispondono alla realtà. Ecco il passaggio originale (f. 4v):

Post subsequenter fuit sibi hostensa quedam crux parvula et spuit supra eam ter et quolibet semel negavit eam et signum crucis et in continenti fuit ibidem hostensum et aportatum quoddam signum fusteum. Interrogatus cuius erat dictum signum dixit quod adeo erat stupefactus de hiis que faciebant sibi fieri quod vix videbat nec potuit bene perpendere cuius figure erat dictum signum set videtur sibi quod esset album et nigrum et adoravit illum signum.

(‘Poi in seguito gli fu mostrata una piccola croce; sputò sopra di essa per tre volte, e ogni volta rinnegò quella e l’immagine della croce. E immediatamente gli fu mostrata e portata un’immagine di legno. Chiestogli di chi fosse la detta immagine, disse che era a tal punto stupefatto delle cose che gli facevano fare che vedeva a malapena, e non poté valutare di che forma fosse la detta immagine, ma gli sembra che fosse bianca e nera; e adorò quell’immagine’).

Il punto attorno al quale ruota tutta l’interpretazione è che il manoscritto parli di un signum fustanium, cioè di un oggetto di stoffa. Il fustagno era un tessuto misto, risultante dalla tessitura congiunta di lino (l’ordito) e di cotone (la trama). Nascono alcune difficoltà: la Sindone di Torino, prima di tutto, è interamente di lino, quindi non è di fustagno. In secondo luogo, fustanium è un sostantivo, e non un aggettivo: poiché nella frase il sostantivo c’è già (signum), la grammatica imporrebbe un attributo. È infatti chiaramente riconoscibile la parola fusteum (con la nasale soprascritta, come nella parola signum che precede) che è appunto un aggettivo e significa ‘ligneo’, dal sostantivo fustis, cioè ‘legno’, ‘tronco d’albero’, ‘bastone’; d’altra parte sia nel francese medievale, sia nell’occitano che il Templare parlava, fust significa la medesima cosa di fustis.

La lettura non è per nulla difficile, ed è condivisa da tutti coloro che hanno messo gli occhi sul manoscritto; ma la stessa indicazione, a ben vedere, era già stata fornita da parte di quegli studiosi che nel XIX secolo si erano già interessati del nostro processo, a cominciare da François Raynouard. Al di là della lettura errata, l’intera traduzione del testo proposta risulta alterata per accomodare il racconto alla presunta presenza della Sindone: l’oggetto non verrebbe semplicemente mostrato, bensì «ostenso», recuperando una parola italiana desueta che però viene usata ancora oggi per indicare la “ostensione” pubblica della Sindone; il quoddam signum fusteum viene parafrasato in un prolisso «come una specie di disegno su un panno di tela di cotone», dove il quoddam, che compare di continuo nel manoscritto e si presta ad essere tradotto con un semplice articolo determinativo italiano, diventa «come una specie», il signum diventa un «disegno» e il presunto fustanium un «panno di tela di cotone», con l’aggiunta del «su» assente in latino, inserito allo scopo di creare l’impressione che il testo parli di un disegno riportato sopra il telo.

L’unica parola latina che può prestarsi a interpretazione non univoca è signum: io ho tradotto ‘immagine’, evitando di specificare se si trattasse di un disegno, di un dipinto, di una statua, di un bassorilievo o di una scultura: tutti questi significati, infatti, sono compatibili con signum. Non è neppure specificato se questo signum rappresentasse una figura umana o meno; lo possiamo solamente ipotizzare guardando al contesto delle confessioni degli altri Templari. Certamente tradurre signum con ‘disegno’ è una forzatura; la cosa diviene ancor più lapalissiana nel momento in cui si ristabilisce correttamente il testo, il quale parlava di un signum fusteum che certamente non può essere interpretato come un ‘disegno di legno’! Particolaremente infelice è anche la scelta di rendere la singola parola fustanium – inesistente, peraltro – con ben tre parole italiane: «panno di tela di cotone» (ma la Sindone, come già detto, è di lino!). Anche tutto ciò che segue va nella stessa direzione. La traduzione «chiestogli di chi fosse la figura rappresentata lì sopra» è forzata, perché il «lì sopra» non c’è, ed è stato aggiunto solo per far pensare a un disegno su un lenzuolo; il latino dice semplicemente «cuius erat dictum signum», cioè ‘di chi era la detta immagine’. (Notiamo, a margine, che se davvero l’immagine fosse stata di Cristo, secondo un’iconografia comunissima e universalmente riconoscibile, saremo ancora una volta di fronte al fatto incomprensibile di un Templare incapace di riconoscerla). E ancora, anche il «chi fosse la persona rappresentata in quel disegno» è una parafrasi tendenziosa di «cuius figure erat dictum signum», cioè ‘di che forma era il detto signum’ (oppure ‘che aspetto avesse’, ‘chi rappresentasse’), ove non si vede il motivo per cui figura dovrebbe essere reso con «persona», o addirittura «persona rappresentata» in un disegno che non c’è.

Anche la sintesi previa che Barbara Frale riporta appena prima di dare la sua traduzione del testo non ha nulla a che fare con ciò che il testo realmente dice: non esiste alcuna «specie di disegno monocromatico», nessuna «immagine scura sul fondo chiaro di un panno». Il Templare ha parlato di un’immagine bianca e nera, senza menzionare tele o “sfondi”. Si trattava forse di un’immagine come quella descritta da Egidio, Precettore della magione di San Gimignano, che parla di una testa dai colori infernali, con una «faccia quasi umana e bianca, capelli neri e crespi o riccioluti».

Sia la traduzione sia l’interpretazione del passo, quindi, sono state alterate per creare nel lettore la falsa impressione che il Templare stesse parlando di un’immagine di uomo riportata su un telo; non si è solamente di fronte a un errore di lettura, già di per sé significativo, ma di una manipolazione dell’intero documento. Il tutto è ancora più aggravato dal fatto che Frale non ha riportato da nessuna parte il testo originale latino (che avrebbe occupato non più di sei o sette righe) rendendo così impossibile per il lettore il controllo della traduzione. Dal momento che si tratta di una trascrizione di un testo inedito, il minimo che si potesse pretendere dal libro, la cui unica novità è proprio la scoperta di questa testimonianza, era che essa venisse riportata, perlomeno in nota. Sarebbe stato ancor meglio riprodurre, tra le tante fotografie allegate, anche quella del manoscritto, per permettere a chiunque un riscontro. Al lettore, per di più, non si fornisce nemmeno in nota l’indicazione archivistica del manoscritto; essa giace confinata nella nota successiva, che però riguarda un altro passo. Al suo posto, c’è il rimando a un dizionario di latino, per giunta completamente sbagliato. Se il caso non avesse voluto che proprio quella pagina del manoscritto fosse stata fotografata e stampata in un catalogo francese di una mostra, e che tale fotografia capitasse sotto gli occhi di qualcuno che era a conoscenza della questione, molto probabilmente nessuno si sarebbe accorto di nulla per chissà quanto tempo.

Una volta creata la falsa illusione che il Templare parlasse di un pezzo di stoffa su cui è raffigurata l’immagine di una persona, l’autrice passa a ricondurre al medesimo significato anche altri documenti processuali:

Lo stesso tipo di oggetto vide Jean Taylafer, ascoltato a Parigi durante la lunga inchiesta del 1309-1311: era anch’esso una specie di disegno dalla forma molto indefinita, fatto di una tinta che gli sembrava rossastra, e poté distinguere soltanto l’immagine di un volto che aveva le dimensioni naturali di una testa umana. Nemmeno lui riuscì a capire se fosse un dipinto oppure no, però anche in questo caso era un’immagine fatta di un colore solo.

Però il testo dice tutt’altro:

Requisitus, respondit quod in die recepcionis sue fuit positum quoddam capud in altari capelle in qua fuit receptus, et fuit sibi dictum quod debebat adhorare dictum capud. Requisitus, si dictum capud erat aureum, argenteum, vel eneum, vel ligneum, vel de osse aut de quo alio erat, respondit se nescire, quia non multum se appropinquabat, apparebat tamen effigies ymaginis faciei humanae. Requisitus cuius coloris erat, respondit quod quasi coloris rubei. Requisitus, si erat pictum vel non, dixit se non avertisse. Requisitus, de grossitudine et quantitate dicti capitis, respondit quod erat quasi grossitudinis capitis humani.

(‘Interrogato, rispose che nel giorno della sua accoglienza fu posta una testa sull’altare della cappella nella quale fu accolto, e gli fu detto che doveva adorare quella testa. Interrogato se quella testa fosse d’oro, d’argento, di bronzo, di legno, d’osso o di che altro fosse, rispose che non lo sapeva perché non si era avvicinato molto, ma che sembrava l’effigie di un’immagine di volto umano. Interrogato di che colore fosse, rispose che era per così dire di colore rosso. Interrogato se fosse pitturata o meno, disse che non se ne era reso conto. Interrogato sulla grandezza e la dimensione di quella testa, rispose che era all’incirca della grandezza di una testa umana’).

Dove sarebbe «lo stesso tipo di oggetto» del presunto disegno su stoffa di Guillaume Bos? Quale sarebbe la «specie di disegno»? La parafrasi è totalmente ingannevole. Jean Taylafer sta parlando di un oggetto tridimensionale, dalla forma e dimensione di una testa umana; non sa di che materiale fosse fatto (oro, argento, bronzo, legno, osso o che altro?), ma gli pare fosse rossiccio (per natura, o magari perché pitturato). Il Templare non riuscì «a capire se fosse un dipinto oppure no», nel senso che non poteva distinguere la natura dell’immagine (cioè come si fosse formata l’impronta della Sindone), ma solo che non sapeva se l’immagine era verniciata o al naturale. Come si può dire che «anche in questo caso era un’immagine fatta di un colore solo», come se di casi simili ve ne fossero anche altri? L’immagine descritta da Guillaume Bos, lo abbiamo già visto, era «bianca e nera», non certo di un colore solo, né tantomeno rossiccia (e che men che meno «nuda»).

[…]



Il pannello di Templecombe
In una legnaia del villaggio inglese di Templecombe, nella contea di Somerset, un giorno imprecisato verso la fine della seconda guerra mondiale la signora Molly Drew si recò come al solito a prendere del materiale per il fuoco. Il legname era stipato in una dépendance sul retro di un cottage: una camera priva di finestre, oggi demolita, alla quale si accedeva scendendo un gradino e attraverso un’unica porta. Alzati per caso gli occhi, ella notò che da un buco dell’intonaco del soffitto si scorgeva l’immagine di un volto dipinto su un pannello di legno. Questo il suo racconto:

Il cottage era quello di mezzo fra i tre in High Street, Templecombe. La dipendenza era sul retro della casa, addossata ad essa. Occorre scendere per entrarvi. Il pavimento era di sola terra. Credo che potesse contenere circa dieci persone [….]. Ero stata nella rimessa molte volte prima, ma quel giorno guardai all’insù, e vidi parte di un volto che guardava verso il basso […]. Poi, tirando giù altro intonaco, potei vedere tutto il volto. Era coperto di uno spesso strato di intonaco e legato strettamente al soffitto con del filo metallico (…). Era molto sporco e coperto di ragnatele. Una cosa devo sottolineare: a quel tempo i colori erano molto vividi, con rossi e blu intensi; molto più colorato di come è adesso.

Levato dal soffitto, il pannello venne (maldestramente) ripulito, incorniciato ed esposto, dalla Pasqua del 1956, nella chiesa parrocchiale di St. Mary. Esso misura 144x83, ha uno spessore di 5 centimetri ed è costituito di quattro assi giustapposte (ne manca una, quella superiore, che oggi è stata rimpiazzata). A partire dal 1978 questo pannello ha attirato l’attenzione crescente di migliaia di persone, da quando Ian Wilson, seguendo le orme di Vivien Godfrey-White, lo volle mettere in relazione con l’Ordine dei Templari e lo descrisse come una delle tante copie del volto della Sindone di Torino. Anche in questo caso Malcolm Barber ebbe ragione nel far notare l’incongruenza tra una pretesa segretezza che i Templari avrebbero mantenuto riguardo al possesso della Sindone, e la facilità con cui essa sarebbe stata non solo mostrata ai frati, ma anche riprodotta su pannelli e sigilli, persino in regioni lontane dal quartier generale dell’Ordine. Ma ciò non fu sufficiente. A partire dal 1987 il sindonologo australiano Rex Morgan rincarò la dose: la Sindone vera e propria sarebbe stata in Inghilterra, conservata proprio in una scatola di legno di cui sarebbe sopravvissuto solo il coperchio, cioè l’attuale pannello. La preziosa reliquia sarebbe stata inviata in Inghilterra dai Templari per salvarla dalla persecuzione di Filippo il Bello; il cavaliere Geoffroy de Charny, durante la sua seconda prigionia inglese, sarebbe venuto a conoscenza della presenza della Sindone in quel luogo e si sarebbe preso cura del suo recupero e del suo ritorno in Francia, negli anni 1355-1357; il contenitore che l’aveva conservata fino a quel momento sarebbe così rimasto in Inghilterra, vuoto.

Ognuna di queste affermazioni si presta a pesanti obiezioni. Come già detto, è altamente improbabile che i Templari di Francia, durante l’improvviso arresto organizzato da Filippo il Bello, abbiano avuto modo di organizzare il salvataggio di reliquie e addirittura di fuggire con esse in Inghilterra. In secondo luogo, Geoffroy de Charny fu prigioniero per la prima volta nel 1342 a Goodrich nello Herefordshire, a 140 km. da Templecombe; la seconda prigionia, invece, la trascorse in parte a Calais (dal 31 dicembre 1349 al febbraio 1350), poi a Londra: è assurdo pensare che egli abbia avuto modo e libertà, da prigioniero, di raggiungere Templecombe che non è assolutamente sulla strada tra Calais e Londra, e dista quasi 200 km. da quest’ultima. Dopo il pagamento del suo riscatto, egli tornò subito in patria, e nel giugno 1351 si trovava già ad Ardes, nel centro della Francia. E certamente non poté prendersi cura del ritorno in Francia della Sindone negli anni 1355-1357, dal momento che fu ucciso in battaglia il 19 settembre 1356!

La domanda che va posta, però, è molto più radicale: su quali elementi Wilson e Morgan, seguiti da decine di sindonologi, possono affermare che il pannello dipinto fosse opera dei Templari, e che fosse addirittura una copia del volto della Sindone?

A Templecombe, prima del 1185, era stata stabilita una precettoria templare. Nel gennaio del 1308 i suoi abitanti furono arrestati e i loro possedimenti censiti, valutati e affidati in custodia; nel 1332 la precettoria e tutti i beni dei Templari passarono agli Ospitalieri, i quali li mantennero fino al 1540, quando Enrico VIII incamerò i beni degli Ordini religiosi cattolici. I sindonologi si sono preoccupati innanzitutto di affermare, ma senza alcuna prova, che il dipinto proveniva proprio dall’edificio che fu di proprietà dei Templari. Sappiamo con certezza che il pannello fu trovato da Molly Drew in una legnaia collocata sul retro di una casa moderna, al numero 3 di West Court, lungo la High Street di Templecombe. Pierluigi Baima Bollone nel 1985 ha dichiarato che questa legnaia era «la casa di quello che fu un Precettore templare»; nel 1990, però, ha mutato parere, e l’ha definita «abitazione di un cappellano templare». Per Marco Tosatti era più genericamente la «dimora di un cavaliere templare»; la «sede dei cavalieri del Tempio», dice Andrea Tornielli. Infine Barbara Frale, la quale più volte asserisce che il pannello fu ritrovato non in una casa, ma addirittura «nella chiesa» della magione templare. Chi dice il vero?

Nessuno. In quel luogo non vi è una chiesa templare, né mai vi fu, e la zona della città in cui sorgeva la legnaia non ha mai fatto parte dell’antica precettoria templare. I resti degli edifici dell’Ordine, infatti, si trovano più in periferia, a sud-est, nei pressi di una casa del XVII secolo chiamata Manor House – la residenza, cioè, del signore locale. Nel 1995 furono eseguiti scavi archeologici proprio in quella zona, per stabilire con precisione i confini della precettoria. In quell’occasione vennero identificati i resti del muro di cinta rettangolare (130x70 m.) che racchiudeva l’intera area templare (9100 m.²), proprio nei pressi della Manor House. Nella parte meridionale di quell’area sorgeva la cappella templare della precettoria, ora demolita: era ancora in uso all’inizio del XVIII secolo. Tutta quest’area si trova lungo l’attuale Combe Hill, e la chiesa, in particolare, sorgeva sul retro della Manor House. West Court 3, dove fu trovato il pannello, dista circa 300 metri dalla chiesa, ed è completamente esterna al recinto della precettoria.

In sostanza, si afferma come un dato di fatto che il dipinto è stato trovato nella chiesa dei Templari o in una loro abitazione, mentre la chiesa stava da tutt’altra parte e non esiste più da secoli, e il luogo del ritrovamento non ha nulla a che fare con la precettoria. Se persino Wilson in passato parlò del ritrovamento del pannello «a non più di un centinaio di metri» dal sito templare (eccedendo in difetto, in verità), che cosa ha spinto i suoi seguaci a inventarsi le altre collocazioni? Quali sarebbero gli elementi che permettono ai sindonologi di fare del nostro pannello un oggetto templare? Forse credono che qualunque oggetto rinvenuto in una regione nelle cui vicinanze vi furono dei Templari fosse un oggetto appartenuto a loro? Altrettanto poco credibile è l’ipotesi che il pannello sia stato fissato al soffitto con filo metallico dai Templari in fuga e sia rimasto nascosto fino al ventesimo secolo. Nessuno ha mai messo le mani sul soffitto di una legnaia per seicento anni? Nel medioevo si faceva largo uso del filo metallico?

Passiamo alla datazione del pannello, stabilita con l’esame del radiocarbonio. Frale ci assicura che esso è stato datato ««anni 1275-1300», o «al 1280 circa», il che – per lo meno in via ipotetica – potrebbe essere compatibile con la presenza dei Templari a Templecombe prima del loro arresto del 1308. Per Emanuela Marinelli e Orazio Petrosillo, invece, la tavola è stata «datata fra il XII e il XIV secolo». Il lettore è ormai abituato a simili confusioni, e forse non proverà ulteriore stupore venendo a scoprire che anche queste informazioni, già di per sé contraddittorie fra loro, sono tutte false. Due campioni del legno del pannello sono stati radiodatati nel 1987 presso il laboratorio ad acceleratore dell’Università di Oxford; ma il risultato della datazione – al 95% di fiducia – fu l’intervallo 1280-1440. Ciò significa semplicemente che il XII secolo di Marinelli-Petrosillo non esiste, che l’intervallo 1275-1300 di Frale è completamente errato e a maggior ragione lo è il «1280 circa» - dato, quest’ultimo, che Baima Bollone ha subito ripetuto nel suo ultimo libro. I sindonologi, insomma, tacciono riguardo ai secoli XIV e XV, e non a caso: dei 160 anni di intervallo proposti dalla radio datazione, infatti, solo i primi 27 coincidono con la presenza templare a Templecombe, mentre il valore centrale cade intorno al 1360, quando la precettoria era in mano agli Ospitalieri da trent’anni e la Sindone veniva già esposta in Francia. Va poi tenuto in conto il fatto che l’esame del C14 serve a datare il legno, non il dipinto, che può essere stato eseguito anche molti anni dopo, sul legno stagionato. Il fatto che il pannello sia di legno grezzo e fessurato, con fori per i chiodi e segni dell’antica presenza di perni, farebbe pensare che esso sia stato originariamente destinato ad altro uso che non fosse quello pittorico: un’anta, una porta, una staccionata, un coperchio. Qualcuno lo può aver utilizzato per dipingere, per un motivo qualsiasi, in un momento successivo. Se lo abbia fatto a Templecombe o altrove, è impossibile saperlo.

L’ultimo e più debole argomento avanzato dai sindonologi è quello iconografico: essi giurano che il pannello raffigura il volto di Cristo, e per di più in una forma che, assicurano Emanuela Marinelli e Ilaria Ramelli, è «inequivocabilmente» somigliante alla Sindone. Massimo Centini ci segnala persino l’esito di un importante esame scientifico: «Alan Whanger, del Duke University Medical Center di Durham, dopo aver sovrapposto il volto dell’uomo della Sindone al ritratto di Templecombe, ha individuato ben 125 punti di congruenza tra le due immagini». Addirittura 125 punti, su un volto solo? Identificati con quale criterio? Senza avvalermi di chissà quale tecnica, io vi percepisco molte significative divergenze: l’uomo della Sindone ha gli occhi chiusi, quello del pannello aperti; il primo è ferito e ha il viso e i capelli cosparsi di sangue, mentre il secondo non mostra alcun segno di sofferenza; il primo ha una grossa lesione sanguinante in mezzo alla fronte (quella che i sindonologi considerano un tratto tipico di una presunta iconografia sindonica bizantina), mentre l’altro non ce l’ha; il cadavere della Sindone ha la bocca chiusa, la testa del pannello ce l’ha spalancata; il primo ha grossi baffi sotto il naso e immediatamente sotto il labbro inferiore, il secondo ha baffi assottigliati e spioventi. Insomma, mi sembrano due disegni privi di qualunque particolare somiglianza. A meno che non si voglia sostenere che qualsiasi dipinto di un uomo con barba, baffi e capelli lunghi sia una copia della Sindone.

Dove stanno allora questi 125 punti di coincidenza? La punta del naso del primo ritratto combacia con la punta del naso del secondo? Forse avremmo preso questo dato un po’ meno sul serio, se qualcuno ci avesse detto che Alan Whanger, oltre che essere uno psichiatra di Durham, è anche un sindonologo; che assieme alla moglie ha scritto un libro sulla Sindone; che ha preso parte alla realizzazione di un documentario sulla Sindone, pubblicato da un’associazione creazionista americana; che è avvezzo a individuare quantità strabilianti di punti di congruenza tra la Sindone e oggetti vari (ne ha segnalati 145 e 188 con due monete romane, e addirittura 250 con l’icona del Pantocrator di Santa Caterina sul Sinai); e infine che, esaminando certe fotografie della Sindone, ha creduto di identificare su di essa la traccia di svariati strumenti della passione di Cristo: un chiodo della croce, la lancia romana, una spugna su un bastone, una corona di spine, due flagelli, un grande martello, un paio di pinze e due filatteri, naturalmente tutti risalenti al I secolo!

Barbara Frale (anch’essa sulle fotografie della Sindone ha visto iscrizioni del I secolo!) scrive a proposito del pannello di Templecombe:


Si tratta del volto di Cristo raffigurato secondo un’iconografia particolare di origine bizantina, diffusa in Oriente ma rara in Europa, che lo ritrae senza aureola e con il volto isolato dal corpo e inquadrato entro un cerchio oppure una cornice di forma geometrica varia. Lo stesso tipo di immagine si ritrova anche sul verso dei sigilli dei precettori del Tempio di Germania e deriva dall’iconografia del santo mandylion.


Occorre davvero molta buona volontà per sostenere che il volto di Templecombe è dello stesso tipo dei volti di Cristo dei sigilli: questo rappresenta il solo volto, senza collo, di un uomo privo di ferite, mentre in quelli il Cristo è coronato di spine, con le spalle e la veste in bella vista. L’iconografia del pannello, in verità, non ha nessun elemento esclusivo tipico della pittura bizantina. Ella, invece, vi vede somiglianze con qualunque cosa abbia a che fare con la Sindone o il mandylion: per lei la tavola di Templecombe

riproduce addirittura la forma della teca-reliquiario di Costantinopoli così come ci risulta in tante raffigurazioni, prima tra tutte la splendida miniatura sul codice Rossiano greco 251 della Biblioteca Apostolica Vaticana (secolo XII): il Volto appare inserito dentro una specie di custodia rettangolare che ha proprio le dimensioni di un asciugamano, più largo che lungo, e questa custodia ha un’apertura al centro che lascia vedere soltanto il Volto di Cristo isolato dal collo e dal resto del corpo. Nell’icona di Templecombe la forma di questo riquadro che scopre le fattezze umane di Gesú e le isola dalla copertura è un elegante motivo geometrico a quadrifoglio molto amato in Oriente, e usato nei reliquiari bizantini già dal IX secolo.

In verità tra i due oggetti non c’è nessuna somiglianza. Il codice contiene un disegno delle due reliquie costantinopolitane di cui abbiamo già parlato, il mandylion e il keramion, che secondo la tradizione si sono formate per miracolosa impressione dell’immagine di Cristo. Sulla miniatura non esiste nessuna “teca” o “custodia” con apertura al centro (questa è, manco a dirlo, un’invenzione dei sindonologi che serve a far quadrare la Sindone con il mandylion): ci sono solo un asciugamano bianco, con frange di stoffa su due lati, e una lastra di terracotta rossa, ovviamente senza frange. Al centro dei rettangoli, intorno al viso del Cristo, non c’è nessuna apertura: c’è il nimbo, l’aureola dorata con il segno rosso dei tre bracci della croce. E questo nimbo è tondo, nulla a che vedere con il quadrifoglio a losanghe di Templecombe. Così infatti descrive il disegno Maria Raffaella Menna: «Il mandylion è reso come un tessuto bianco damascato, ornato da frange e decorato da un motivo a rombi, tracciato in colore rosso; il keramion è di colore rosso, con il medesimo motivo a rombi tracciato in bianco».

Nulla di particolare, dunque, nell’immagine di Templecombe, e nemmeno nella sua cornice. Quello che Frale chiama «motivo geometrico a quadrifoglio molto amato in Oriente e usato nei reliquiari bizantini», Baima Bollone lo ritiene di largo utilizzo tra i Templari; ma di quella cornice a forma di losanga lobata, anche circondata da motivi floreali, Gian Marco Rinaldi ha raccolto una serie di esempi occidentali che non hanno alcuna relazione né con i Templari, né con la Sindone, né con il mandylion: da Andrea Pisano a Lorenzo Ghiberti e Piero della Francesca, da Firenze a Padova fino a Gurk, in Francia e in Inghilterra, su formelle, affreschi e miniature, l’arte occidentale del XIII e XIV secolo non è certo ignara di cornici a losanga lobata uguali a quella del pannello. C’è ancora un particolare da sottolineare: quando il pannello fu restaurato nel 1986 da Anna Hulbert, risultò che l’immagine troneggiava su uno sfondo originariamente blu, su cui si stagliavano delle stelle. Un cielo stellato sullo sfondo, dunque, che cosa c’entra con la Sindone? Ci si potrà anche sbizzarrire con la fantasia, ma davvero è difficile spiegarlo.

Ma se il volto di Templecombe è privo di segni di riconoscimento, che cosa ci autorizza a pensare che esso sia il viso di Gesù, e non un altro viso qualsiasi? Nulla, in effetti. Helen Nicholson ritiene che il pannello raffiguri Giovanni Battista:

La testa di san Giovanni Battista apparve ovunque nell’iconografia degli Ospitalieri in Britanni, per esempio nel dipinto medioevale di una testa barbata ora nella Chiesa di Templecombe a Somerset; Templecombe divenne una comanderia ospitali era dopo la dissoluzione dell’Ordine del Tempio.

Dello stesso parere è Jonathan Riley-Smith, secondo cui il pannello risale “chiaramente” al periodo in cui i Templari avevano già abbandonato Templecombe in mano agli Ospitalieri; «la testa è quella del loro patrono, san Giovanni Battista, su un piatto da portata». Quest’interpretazione avrebbe una sua logica: spiega la mancanza dei segni identificativi del Cristo, è riconducibile a un’iconografia già nota e diffusa, e combacia assai più verosimilmente con il periodo di tempo stabilito dalla radio datazione (1280-1440, quando dal 1332 in avanti la precettoria di Templecombe era ospitali era). La cornice esterna al volto non sarebbe una semplice decorazione, ma il vassoio sul quale fu posta la testa mozzata del Battista (Vangelo di Marco, 6 28). Lo sfondo di cielo stellato, a questo punto, mi fa subito ricordare lo sfondo dei sigilli ospitalieri dei Maestri inglesi, che ho già descritto, sui quali figurava una corona di stelle. Si tratta di ipotesi da verificare. Non si può neppure escludere che si tratti di una delle varie tipologie di ritratto della Veronica, o di un volto qualsiasi, dipinto per esercizio da un pittore qualunque sul primo pannello in disuso che gli venne a portata di mano.

[…]



Conclusioni
Al termine di questa lunga disamina, ci si ritrova al punto di partenza: della Sindone oggi conservata a Torino non è emersa alcuna notizia storica anteriore alla seconda metà del XIV secolo, né in Francia, né a Costantinopoli, né altrove. Esistono diversi riferimenti all’esistenza di reliquie di panni funerari di Gesú in epoca medioevale; ma sono troppo generici e contraddittori e non permettono di delineare, nel sovrapporsi di un’ingente quantità di false reliquie in concorrenza tra loro, un filo conduttore che dall’Oriente giunga sino alla Francia del Trecento. Il risultato dell’analisi storica, nel complesso, è stato estremamente deludente: di tutto il castello argomentativo delle pubblicazioni che sono state prese in esame, nemmeno una pietra ha resistito al vaglio dell’esame critico. Approssimazioni, errori, anacronismi, fonti fasulle, dimostrazioni fallaci e «cascate di deduzioni tutte avventurose» si accompagnano a vere e proprie contraffazioni dei testi. L’intento sembra solo essere quello di affastellare documenti e presunte prove che possano rendere credibile, quasi innegabile, l’esistenza della Sindone fin dall’antichità. In questa sede mi sono occupato solamente delle fonti medioevali, ma posso assicurare che la gran parte della storiografia sindonologica, anche quella che interessa i secoli precedenti, ha caratteristiche simili. Questo libro, di conseguenza, ha assunto i connotati di un deciso colpo di spugna. Non ho proposto alcuna teoria alternativa, per un tema su cui in realtà c’è poco da scrivere: non sempre l’indagine storica permette di compiere qualche passo in avanti, e talvolta costringe ad arretrare per far pulizia delle incrostazioni del passato.

La Chiesa cattolica, con prudenza, ha ufficialmente scelto di non denominare più la Sindone come “reliquia”, recuperando il valore del concetto di “icona”, storicamente meno impegnativo ma dal punto di vista teologico tutt’altro che trascurabile. Eppure in molti perdura la tentazione di usare le argomentazioni sull’autenticità o sulla falsità del lenzuolo come fondamento di apologie o negazioni dell’evento della risurrezione del Cristo. Il meccanismo, però, è illusorio: un’eventuale dimostrazione inoppugnabile che la Sindone sia un falso medievale, o che davvero abbia avvolto il corpo di Gesú di Nazaret, non servirebbe comunque allo scopo. Nel primo caso, non se ne ricaverebbe alcun appiglio per negare un evento che non avrebbe nulla a che vedere con la Sindone stessa; nell’altro caso, un cristiano non potrebbe certo fondare la propria fede su un pezzo di stoffa.

Il problema, in verità, è molto più ampio. L’interesse che un oggetto così “misterioso” attira su di sé spiega solo in parte la grande fortuna di questi numerosi studi dilettanteschi, imprecisi e partigiani che si alimentano e si sostengono a vicenda. Appare ormai evidente che la tradizionale e coscienziosa ricerca storica è in ogni ambito vittima di un crescente processo di marginalizzazione: al giudizio dello specialista si preferisce l’accattivante baccano degli pseudoricercatori i quali, imitando il linguaggio degli storici senza conoscerne o condividerne la metodologia, non esitano a ricorrere a qualunque tipo di forzatura per sostenere le proprie tesi. Questa deriva pseudoscientifica – di cui gli studi sulla Sindone sono solo un esempio paradigmatico – talora assume il carattere di vera e propria operazione propagandistica, ideologica, politica o commerciale. È un’operazione che, con il sostegno magari inconsapevole ma certo irresponsabile degli strumenti di comunicazione, sfrutta la difficoltà di giudizio da parte dei non addetti ai lavori e dà origine a una resistente cultura diffusa e condivisa fondata sull’inattendibile.

Purtroppo negli ultimi tempi anche qualche storico di mestiere sta incoraggiando e partecipando alla diffusione di questo genere di storiografia, fino a poco tempo fa sostanzialmente estranea al vero dibattito scientifico. Sembra quasi che si avverta il desiderio di sdoganare un nuovo metodo di scrittura della storia caratterizzato da sfrenata libertà di congettura, confusione tra ipotesi e certezza, abbandono dei criteri logici di prova, trascuratezza nell’uso delle fonti e incauto ricorso a letteratura di seconda o terza mano. Se è facile costruire seducenti teorie su fondamenta inconsistenti, risulta assai più laborioso individuarle e scardinarle; ma è proprio questo, a mio parere, un compito nel quale gli storici sono chiamati a investire energie maggiori, nelle loro vesti di «professionisti della smentita». Il controllo, la verifica puntigliosa, l’insistenza sul metodo e la sensibilizzazione riguardo al tema della corretta divulgazione sono sforzi impegnativi e talvolta frustranti, ma certo necessari e per certi versi anche forieri di soddisfazioni.

Diversamente, il rischio sempre più reale è che tosto o tardi il rigore del metodo storico si veda costretto a cedere irrimediabilmente il passo – e non solo al di fuori dalla turris eburnea dell’Accademia – all’incedere superbo di un falso imbellettato.