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Francesco Petrarca, Come i tempi vadano cambiando- Pierangelo Sapegno, Il lungo inverno di Bologna





lunedì 30 maggio 2011 legge Andrea Severi
Che Bologna viva una fase di crisi, o perlomeno di stallo, è fatto difficilmente negabile. Spesso, però, ad un’analisi della crisi si preferisce la retorica della crisi – anche da parte di quell’élite culturale che sarebbe deputata a capire i fenomeni che stanno accadendo – attingendo quando più, quando meno consapevolmente, a topoi letterari consolidati, se non a veri e propri generi letterari (la satira): quel che ne esce è una consolatoria “narrazione”, che permette di adagiarsi sull’antimitologia dell’“autunno”, del “come eravamo”, del “mala tempora currunt”, specularmente opposta alla retorica ottocentesca delle “magnifiche sorti e progressive”, ma ugualmente inefficace a comprendere la direzione della storia. È un vizio di lunga durata per un paese come l’Italia, la cui classe intellettuale ha tentato di rado, e senza successo, di tenere insieme filologia e retorica, antiquaria e storiografia. E forse non è un caso che l’occasione per questa lettura ce la fornisca proprio il padre dell’Umanesimo italiano, Francesco Petrarca, con una pagina nostalgica sulla sua giovinezza da fuorisede a Bologna, la quale reagirà – quanto legittimamente, lo stabiliremo – con una pagina del quotidiano “La Stampa” di qualche mese fa.


Francesco Petrarca, Senile X 2. All’arcivescovo di Genova Guido Sette. Come i tempi vadano cambiando (trad. di Ugo Dotti, Torino, Aragno, 2007)

Già so che mi si vorrà opporre quella sentenza di Orazio il quale, parlando del carattere del vecchio, lo definisce «incontentabile, querulo e lodatore del tempo trascorso nella sua giovinezza». Non nego che sia così; ma se ciò mi può forse essere rinfacciato per altre occasioni, oggi non potrà essere d’ostacolo a questa mia lettera, e per quanto possa essere stato un giorno querulo e lodatore del passato, è un fatto che questa lode di ciò che fu e questo lamento di ciò che è costituiscono la verità. La quale spesso risuona anche in una bocca solita a mentire: non per questo essa perde infatti d’autorità dal momento che fa fede per se stessa. E io dico – e spero che tu sarai d’accordo con me – e lo dico lamentandomi e, se convenisse a un uomo, piangendo: perché mai in anni peggiori trascorriamo meglio la vecchiaia di quanto trascorremmo la giovinezza se non perché, come credo, l’età dell’uomo è come quella dell’albero, di modo che, così come questo riesce a sopportare, fattosi più resistente, i rigori del cielo e le avversità atmosferiche (cosa che non avrebbe potuto in un’età più tenera), quello, invecchiando, impara a resistere alle difficoltà del mondo e alle tempeste della vita? Ma si tratta di un conforto adeguato a noi, non agli altri. Infatti, mentre noi invecchiamo, innumerevoli sono i giovani che crescono, e quando noi crescevamo, altrettanto numerosi erano coloro che invecchiavano, e può essere che agli uni sia serbata una vecchiezza tranquilla e gli altri abbiano trascorso la giovinezza in tempi inquieti. Lasciando quindi il discorso sugli altri veniamo a noi. È infatti certo che se con la vita siamo divenuti più resistenti a sopportare le sventure, siamo divenuti più deboli in molte altre cose e, ciò che nessuno vorrà negare, intolleranti verso tutto. Nulla è infatti più intollerante della vecchiaia: per quanto essa sappia placare e dissimulare i moti dell’animo, pure, come nessun’altra età, ne sente l’impressione profonda, già stanca com’è e provata dalle noie dell’esistenza. È un’opinione che ho fatto mia non sui libri o sulle parole altrui, ma con la mia stessa esperienza; se tu l’approvi, non so. Certo, quanto a quello che mi sono proposto di scriverti, che i tempi vanno mutando in peggio, è la forza del vero più chiara del sole a costringerti ad approvarlo.
[…]
Passammo poi a Bologna, città della quale non credo possa esservi al mondo qualcosa di più piacevole e di più libero. Ricorderai certamente quale fosse l’affluenza degli scolari, quale ordine, la disciplina, la dignità degli insegnanti: si sarebbe creduto che fossero tornati in vita gli antichi giureconsulti! Ora non ce n’è quasi più e al posto di tali e tanti intelletti vi regna sovrana l’ignoranza; e volesse il cielo che vi fosse penetrata come nemica e non come ospite, o almeno come ospite e non come cittadina, o addirittura, ciò che più temo, come regina, tanti a me sembra che tutti, gettate le armi, si siano dati per vinti! E quanta era allora la ricchezza e la fertilità d’ogni cosa, tanto che per ogni dove, con denominazione proverbiale, la città era chiamata «Bologna la grassa». Ricomincia ora, è vero, per le provvidenze e la devozione di questo regnante pontefice [Urbano V], a rivivere e a rinsanguare; ma sino a oggi, se tu l’avessi scrutata non solo in superficie ma nel profondo, non avresti trovato nulla di più magro e di più rinsecchito. Quando tre anni fa andai a far visita a quell’uomo eccellente che era stato da poco inviato a governare Bologna con il titolo di legato «a latere», dopo aver ricevuto accoglienze troppo liete e onorifiche per un ospite così modesto, si mise a parlare con me di varie cose. Quando gli chiesi notizia dello stato degli affari di Bologna, egli, in tono scherzoso come era solito sempre fare nei casi tristi, mi disse: «Questa, amico mio, una volta era Bologna ma oggi è Macerata», facendo un gioco di parole sul nome della città picena. Tu ti accorgi, certo, come con una certa dolce amarezza io mi volga tra i mali dell’oggi e la memoria dei begli anni andati, ché il profilo di quel tempo in cui là mi trovavo insieme a tanti altri studenti mi è rimasto fisso e indelebile nella memoria, così come credo nella tua. Era ormai giunta l’età più appassionata con l’ingresso nella giovinezza e io osavo più di quanto fosse lecito e di quanto fossi solito fare. Andavo con i miei coetanei; nei giorni di festa facevamo passeggiate così lunghe che spesso il sole tramontava mentre ancora ci trovavamo per i campi; si tornava a notte inoltrata e le porte erano ancora aperte; e se per qualche motivo erano state chiuse non c’erano mura attorno alla città: solo un debole steccato ormai smantellato dal tempo cingeva la pacifica Bologna. E che bisogno c’era in tanta pace di mura e fossati? Così, invece di uno solo, c’erano numerosi ingressi e ciascuno entrava per quella parte che più gli piaceva: nulla in ciò di difficile, nulla di sospetto. Perché ci fosse bisogno di mura, di torri, di bastioni, di sentinelle, di vigilanza notturna occorsero dapprima i veleni di una tirannide intestina e poi le insidie e gli assalti dei nemici esterni. E perché mai, ripetendo cose notissime, mi vedo costretto a far indugiare la mia penna su Bologna se non perché tanto viva è in me la memoria di quell’antica Bologna che ogni volta che mi accade di rivederla mi par di sognare e sono come incapace di dar fede ai miei stessi occhi? Oggi infatti già da molti anni la guerra si è sostituita alla pace, la schiavitù alla libertà, la povertà all’abbondanza, il dolore all’allegria, i lamenti ai canti, le bande dei briganti alle danze delle fanciulle sì che, se si fa eccezione per le torri e per le chiese che ancora stanno in piedi e sembrano guardare dalla loro altezza la miseria cittadina, questa città, che ha avuto a lungo il nome di «Bononia», sembra tutto quello che si vuole tranne, appunto, «Bononia».

Pierangelo Sapegno, Il lungo inverno di Bologna, «La Stampa», sabato 20 novembre 2010, pp. 12-13 (con richiamo in prima pagina)
Nella luce sbiadita di questo pomeriggio strano, quando Davide Zoggia arriva da Roma con la sua valigia piena, inviato da Bersani per cercare di mettere ordine nel caos del partito democratico bolognese, il patròn del Bologna Calcio, Sergio Porcedda, sta scappando via da Casteldebole, come in un’immagine simbolo della caduta di questa città, dentro a una Multipla color prugna, inseguito dalle urla e dagli insulti di 30 tifosi. Fa segno con l’indice di star zitti, mentre l’auto procede lentamente scortata da due macchine della Digos. Ha appena ripetuto come se niente fosse «sistemerò tutto e pagherò tutti». Ha un bel po’ di cose da sistemare. Paolo Alberti, leader della curva Bulgarelli, ringhia con gli occhi fuori dalle orbite che «se si presenta contro il Chievo, ci pensiamo noi». Uno dei calciatori, Britos, giura che «una cosa del genere non l’avevo mai vista in tutta la mia carriera». Loro, i giocatori, non prendono gli stipendi da giugno. Il Bologna, invece, prenderà una bella penalizzazione, se non fallirà addirittura. La procura, dal canto suo, ha aperto un procedimento per truffa: e lui sarebbe la vittima.
La storia è quasi incredibile, ma niente è ormai impossibile da queste parti: quando comprò la squadra, il patròn si affidò a un intermediario finanziario che si accompagnava a due tipi che dicevano d’essere dei funzionari della Bnl. Promisero di far tutto loro e di anticipare i soldi. Naturalmente non sborsarono una lira. L’intermediario, però, aveva dei precedenti per truffa, falso e ricettazione. I funzionari, invece, non si sa se alla Bnl li avevano mai visti.
Dall’altra parte della città, nella sede del Pd, doveva cominciare l’assemblea per trovare finalmente un candidato unico da presentare alle elezioni del sindaco. Solo che proprio in quel momento, ai tre che già c’erano – Virginio Merola, l’ex segretario Andrea De Maria e l’esterna Amelia Frascaroli, area Vendola – se ne aggiungeva un altro: Ernesto Carbone, direttore dell’associazione Red di Massimo D’Alema, ex collaboratore di Romano Prodi e grande amico di Matteo Renzi, sindaco di Firenze e leader dei rottamatori. Cioè, uno buono per tutte le stagioni.
In città, si sa come stanno già le cose: caduto Flavio Delbono, a Palazzo D’Accursio, c’è un commissario, Anna Maria Cancellieri, e, come dice l’ex assessore alla cultura Roberto Grandi, «Bologna è entrata nella campagna elettorale più lunga di tutti i tempi. Questo ha portato a uno stallo totale delle idee, delle battaglie, dei contenuti, perché ai partiti il silenzio sembra la cosa più vantaggiosa. In questa sospensione noi rischiamo di starci per chissà quanto tempo, mentre le altre città vanno avanti. Noi continuiamo a perdere tempo e a guardarci l’ombelico».
Dall’altra parte, nel centrodestra, non è che le cose vadano meglio, visto che pure loro non hanno trovato ancora un candidato. La scorsa settimana, però, nel Pd, sembravano esserci riusciti, e la cosa più incredibile, come racconta lo scrittore Enrico Brizzi, «è che si stavano mettendo d’accordo sul nome di Giorgio Guazzaloca, cioè sul sindaco che aveva segnato nel ’99 la sconfitta storica del centrosinistra. La Bologna di oggi è cominciata da allora. Poi lui ha rifiutato. Ma questo dà l’idea della situazione in casa Pd: non sanno più dove stanno».
Il quadro è quello che è. «Sfigato», come dice Brizzi, che aveva raccontato un altro posto nel suo libro, «La vita quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco Rossi». Persino un luogo simbolo di quell’epoca, il Roxi Bar, ha appena passato brutti momenti: uno dei tre soci è scappato via con la cassa. Come spiega un po’ amaramente Romano Montroni, animatore della grande libreria Ambasciatori, luogo cult nel centro della città – appena eletta a Berlino fra i sei posti più belli del mondo -, «siamo nella nebbia più totale. E se è vero che la nebbia è parte integrante di questa terra, è pure vero che purtroppo non ci funzionano più le luci».
Così, la capitale che insegnava agli altri come fare, oggi non sa più scorgere nemmeno la sua strada dentro a tutta quella foschia. Adesso la città è commissariata, il Pd in confusione, il Bologna calcio rischia il fallimento, mentre la gloriosa Fortitudo basket è già saltata per aria e ora gioca nei tornei amatoriali, e la squadra di pallavolo, la Zinella, ha fatto la stessa fine. Altra cosa incredibile, aggiunge Brizzi, «è che il fallimento della Fortitudo era identico a quello che sta capitando adesso nel calcio».
Ma oltra a tutto questo, la Fiera di Bologna arranca con 4 milioni di debiti, le ore di cassa integrazione in tutta la provincia hanno superato i 13 milioni, più oltre 3 milioni in deroga, e poi sono più di 16mila le persone a rischio di reddito zero, 5900 i lavoratori che stanno per uscire dalle liste di mobilità, e 10mila quelli ai quali può terminare il periodo di diritto al sussidio di disoccupazione.
Il fatto è che quello che sta succedendo oggi non solo era già successo a Bologna, ma succede un po’ dappertutto, nello sport, nell’economia, nella politica, come se questa città fosse alla fine prigioniera di un destino contrario che la costringe a ripassare i suoi luoghi e la sua storia in una dimensione così ostile da sembrare assurda.
Questa era la capitale della politica, «e ora non sa neppure più cercare un sindaco», come annota perfettamente Ivano Dionigi, il Magnifico Rettore dell’Università, l’unica figura istituzionale eletta democraticamente in città. Il commissario ha lavorato bene, dice, «ma la sua bravura ha sancito l’estinzione della politica a Bologna, una estinzione silenziosa, di cui si fa fatica a parlare. Bologna è entrata in un tunnel fatalista, e la cosa è grave a patologica».
Così è, in questa sera d’autunno, con Porcedda che scappa e il Pd che cerca di evitare l’ultima legnata delle primarie, quasi un giorno simbolo della crisi di Bologna. A Dionigi «fanno venire i brividi, le primarie. Si riempiono di autocandidati, non selezionano i migliori, sono un alibi per l’incapacità di scegliere, spesso un trucco premeditato». La verità è che «c’è un baratro oggi fra la politica e il merito, e per colmarlo servirebbero gesti forti». E poi, che Bologna forse è lo specchio di un paese, così dolente nella sua sconfitta, così melanconica, con queste foglie che cadono e l’autunno che viene.