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Inno a Satana (e reazioni) - Giosue Carducci





lunedì 23 maggio 2011 legge Marco Veglia
Enotrio Romano fu non solo il nome e la maschera più celebre calzata da Carducci sul finire degli anni Sessanta dell'Ottocento (il poeta si firmava anche, nei suoi interventi politici, Anarkos, Anti-Cesare), ma il simbolo di una cultura universitaria progressista che, dal 1868, sarebbe entrata in Consiglio comunale, col risultato di mutare, via via, sino all'apice dell'VIII Centenario dell'Università del 1888, il volto di Bologna. Dal 1860 all'estate del 1868, invece, la situazione fu assai diversa. E, per quanto alcuni docenti progressisti fossero riusciti ad affermare alcune loro posizioni, la città restava assestata su forme di dura conservazione (onde la minaccia di trasferimento a Napoli subita da Carducci nel 1867 e, nella primavera del 1868, la sospensione dall'insegnamento). Bologna, invece, cominciò a mutare e, nell'Università degli anni Ottanta, si formarono le punte più avanzate del socialismo non solo cittadinio: Pascoli, Andrea Costa, Enrico Ferri, Filippo Turati, Bissolati, Prampolini. In quella Bologna liberalsocialista si formò anche Bartolo Nigrisoli, l'unico dei docenti ordinari bolognesi che, nel 1931, non avrebbe firmato il giuramento fascista. Uno sguardo alla vicenda di Enotrio Romano aiuta perciò a cogliere alcune delle forme di resistenza intellettuale che avrebbero condotto all'antifascismo militante.


Inno a Satana

A te, dell’essere
principio immenso,
materia e spirito,
ragione e senso; 4
mentre ne’ calici
il vin scintilla
sì come l’anima
ne la pupilla; 8
mentre sorridono
la terra e il sole
e si ricambiano
d’amor parole, 12
e corre un fremito
d’imene arcano
da’ monti e palpita
fecondo il piano; 16
a te disfrenasi
il verso ardito,
te invoco, o Satana,
re del convito. 20
Via l’aspersorio,
prete, e il tuo metro!
no, prete, Satana
non torna in dietro! 24
Vedi: la ruggine
rode a Michele
il brando mistico;
ed il fedele 28
spennato arcangelo
cade nel vano.
Ghiacciato è il fulmine
a Geova in mano. 32
Meteore pallide,
pianeti spenti,
piovono gli angeli
dai firmamenti. 36
Ne la materia
che mai non dorme,
re dei fenomeni,
re de le forme, 40
sol vive Satana.
Ei tien l’impero
nel lampo tremulo
d’un occhio nero, 44
o ver che languido
sfugga e resista
od acre ed umido
provochi, insista. 48
Brilla de’ grappoli
nel lieto sangue,
per cui la libera
gioia non langue, 52
che la fuggevole
vita ristora,
che il dolor proroga,
che amor ne incora. 56
Tu spiri, o Satana,
nel verso mio,
se dal sen rompemi
sfidando il dio 60
de’ rei pontefici,
de’ re crüenti;
e come fulmine
scuoti le menti. 64
A te, Agramainio,
Adone, Astarte,
e marmi vissero
e tele e carte, 68
quando le ioniche
aure serene
beò la Venere
Anadiomene. 72
A te del Libano
fremean le piante,
de l’alma Cipride
risorto amante: 76
a te ferveano
le danze e i cori,
a te i virginei
candidi amori, 80
tra le odorifere
palme d’Idume,
dove biancheggiano
le ciprie spume. 84
Che val se barbaro
il nazareno
furor de l’agapi
dal rito osceno 88
con sacra fiaccola
i templi t’arse
e i sogni argolici
a terra sparse? 92
Te accolse profugo
tra gli dèi lari
la plebe memore
ne i casolari. 96
Quindi un femineo
sen palpitante
empiendo, fervido
nume ed amante, 100
la strega pallida
d’eterna cura
volgi a soccorrere
l’egra natura. 104
Tu a l’occhio immobile
de l’alchimista,
tu de l’indocile
mago a la vista, 108
del chiostro torpido
oltre i cancelli,
riveli i fulgidi
cieli novelli. 112
A la Tebaide,
te ne le cose
fuggendo, il monaco
triste s’ascose. 116
O dal tuo tramite
alma divisa,
benigno è Satana;
ecco Eloisa. 120
In van ti maceri
ne l’aspro sacco:
il verso ei mormora
di Maro e Flacco 124
tra la davidica
nenia ed il pianto;
e, forme delfiche,
a te da canto, 128
rosee ne l’orrida
compagnia nera,
mena Licoride,
mena Glicera. 132
Ma d’altre imagini
d’età più bella
talor si popola
l’insonne cella. 136
Ei, da le pagine
di Livio, ardenti
tribuni, consoli,
turbe frementi 140
sveglia; e fantastico
d’italo orgoglio
te spinge, o monaco,
su ’l Campidoglio. 144
E voi, che il rabido
rogo non strusse,
voci fatidiche,
Wicleff ed Husse, 148
a l’aura il vigile
grido mandate:
s’innova il secolo,
piena è l’etate. 152
E già già tremano
mitre e corone:
dal chiostro brontola
la ribellione, 156
e pugna e prèdica
sotto la stola
di fra’ Girolamo
Savonarola. 160
Gittò la tonaca
Martin Lutero:
gitta i tuoi vincoli,
uman pensiero, 164
e splendi e folgora
di fiamme cinto;
materia, inalzati;
Satana ha vinto. 168
Un bello e orribile
mostro si sferra,
corre gli oceani,
corre la terra: 172
corusco e fumido
come i vulcani,
i monti supera,
divora i piani; 176
sorvola i baratri;
poi si nasconde
per antri incogniti
per vie profonde; 180
ed esce; e indomito
di lido in lido
come di turbine
manda il suo grido, 184
come di turbine
l’alito spande:
ei passa, o popoli,
Satana il grande. 188
passa benefico
di loco in loco
su l’infrenabile
carro del foco. 192
Salute, o Satana,
o ribellione,
o forza vindice
de la ragione! 196
Sacri a te salgano
gl’incensi e i vóti!
Hai vinto il Geova
de i sacerdoti. 200
(G. Carducci, Opere scelte, I (Poesie), a cura di M. Saccenti, Torino, Utet, 1993, pp. 249-260)



Lettera di Quirico Filopanti a Carducci

Bologna, 9 Dicembre 1869.
Caro Enotrio.
………………………………………………………………………
Nel suo insieme il vostro componimento non è poesia; è un’orgia intellettuale.
Esso ha, fra gli altri, un difetto per me capitale: quello di essere antidemocratico.
È antidemocratico nella forma, conciossiaché, mentre la fraseologia del medesimo è appena intelligibile a quelli che hanno avuto una completa educazione di collegio, il popolo non ne comprenderà una decima parte.
È ancora più antidemocratico nella sostanza, poiché si tradisce, non si giova, il popolo, divinizzando il principio del male.
Petruccelli della Gattina ha fatto un romanzo il cui eroe è Giuda Iscariota. Voi, con un ingegno maggiore di quello del Petruccelli, siete caduto in una aberrazione anche più colossale. Se diceste apertamente alle moltitudini che Giuda e Satana sono esseri immaginari, trovereste migliaia di persone sensate che vi approverebbero, ma allorché, pur credendoli immaginari, fingete di prenderli per personaggi reali, siate coerenti alla vostra finzione, e date a quei due odiati nomi il senso che vi attribuiscono le genti; cioè prendendo l’uno per la personificazione del più vile ed abbominevole tradimento, e l’altro come la personificazione di tutto ciò che osteggia la virtù ed il benessere degli uomini. Forse vi siete inteso di inneggiare alla Natura, all’Universo, al Gran Tutto, a Pan, cose o più veramente cosa immensa, buona ed augusta. Ma perché chiamarla col bruttissimo nome di Satana?
Ogni scrittore, più specialmente il poeta, dee prendere la lingua tal quale è, e non fabbricarsene una a ritroso dell’uso e del senso comune. Siete in facoltà, quando parlate nella vostra testa tra voi e voi, di chiamar fuoco ciò che noi chiamiamo acqua, e viceversa; ma questo non vi toglierà di essere fraintesi o scherniti, se vi avventurate a dire ad altrui che il fuoco bagna, e l’acqua asciuga. Così, quando esclamate
Salute, o Satana,
O ribellione,
voi credete senza dubbio di fare uno splendido elogio del vostro protetto; invece rendete un segnalato servigio al sedicente Concilio ecumenico, ed ai nemici di tutte le rivoluzioni, anche giuste e necessarie.
M’aspetto da voi una spiritosa risposta, alla quale io non replicherò, checché diciate; imperciocché desidero di rimanervi amico, a patto soltanto che non pretendiate che io lo sia egualmente di Satanasso.
Voglio rimaner fedele ai due grandi principii che ebbi già la fortuna di proclamare in Campidoglio, e che spero di poter proclamare di nuovo: Dio e Popolo.

Lettera di Carducci a Quirico FilopantiBologna, 10 dicembre 1869
Caro e onorando amico.
L’Inno a Satana è lirico almeno in questo, che è l’espressione subitanea, il getto, direi, di sentimenti tutt’affatto individuali, come mi ruppe dal cuore, proprio dal cuore, in una notte di settembre del 1863.
L’anima mia, dopo anni parecchi di ricerche e di dubbi e di esperimenti penosi, aveva alla fine trovato il suo verbo; e Verbum caro factum est: ella gittò allegra e superba all’aria il suo epinicio, il suo eureka. Avrà abbracciato dell’ombre, può darsi: avrà, invece del grido dell’aquila di Pindaro, fatto il verso del barbagianni; può darsi più che probabilmente anche questo. Ma certo io non intesi fare cosa di parte; non un evangelio né un catechismo né un salmo per chi che sia. Tanto era lontano dal pensiero della propaganda (la quale io lascio di gran cuore ai teologi e ai filosofi sistematici) che stampai l’inno sol due anni appresso, e in poche copie, che regalai a pochi amici o conoscenti. Me lo ristamparono in giornali democratici, massonici, mezzi e mezzi, a Palermo, a Firenze, a Spoleto, senza farmene né pure un cenno avanti. Almeno l’amico Bordoni del «Popolo» me ne ha chiesto il permesso: doveva io dirgli di no? o perché? Dunque, onorato amico, questo riman fermo, che l’inno è roba tutta mia, sangue del mio sangue, anima dell’anima mia, e non un manifesto politico d’occasione. Errò, per via di bene, ma errò, «Il popolo», quando scrisse che Bologna aveva fatta la sua protesta contro il Concilio mandando al Comune l’autore dell’Inno a Satana. Troppo onore per un rimatore: novantanove su cento di quelli che votarono per il Carducci sapevano molto di Enotrio Romano e di Satana!
Del resto, tu non potevi non intendere a qual nume inneggiassi io. Tu l’hai detto: alla Natura. E alla Ragione: aggiunge il redattore del «Popolo». Sì, ho inneggiato a queste due divinità dell’anima mia, dell’anima tua e di tulle le anime generose e buone; a queste due divinità che il solitario e macerante e incivile ascetismo abomina sotto il nome di carne e di mondo; che la teocrazia scomunica sotto il nome di Satana.
Satana per gli ascetici è la bellezza, l’amore, il benessere, la felicità. Quella povera monacella desidera un césto d’indivia? in quel césto v’è Satana. Quel frate si compiace d’un uccellino che canta nella sua cella solinga? in quel canto v’è Satana. Ecco, nella caricatura ridicola della leggenda, quel feroce ascetismo che rinnegò la natura, la famiglia, la repubblica, l’arte, la scienza, il genere umano; che soppresse, a profitto della vita futura, la vita presente; che, per amore dell’anima, flagellò, scorticò, abbrustolò, agghiadò il corpo.
Per i teocratici poi (mette conto ripeterlo?) Satana è il pensiero che vola, Satana è la scienza che esperimenta, Satana il cuore che avvampa, Satana la fronte su cui è scritto – Non mi abbasso. Tutto ciò è satanico. Sataniche le rivoluzioni europee per uscire dal medio evo, che è il paradiso terrestre di quella gente; i comuni italiani, con Arnaldo, con Cola, co ’l Burlamacchi; la riforma germanica che predica e scrive libertà; l’Olanda che la libertà incarna nel fatto; l’Inghilterra che la rivendica e la vendica; la Francia che l’allarga a tutti gli ordini, a tutti i popoli, e ne fa la legge delle età nuove. Tutto ciò è satanico; colla libertà di coscienza e di culto, colla libertà di stampa, co ‘l suffragio universale; s’intende.
E Satana sia. Dice bene il Bordoni e diceva bene David, se non m’inganno: «Nelle loro maledizioni ci esaltiamo, e ci gloriamo nei loro vituperi». Noi siamo satanici.
E perché no? Satana non è egli un tipo per eccellenza artistico? Pigliamolo nel Testamento vecchio. Egli è il primo ribelle contro il dispotismo accentratore e unitario di Geova nel deserto della creazione. Egli è vinto: ma l’arcangelo Michele, a cui l’ascetismo vestì dal medio evo in poi un magazzino d’armi che non finisce mai, tant’è, m’ha l’aria d’un gendarme; e io sto per il vinto.
Sto per il vinto; e, senza volerlo, inchinava un po’ per il vinto anche l’apologista del supplizio del re d’Inghilterra, anche il segretario del Cromwell, anche Giovanni Milton. Come terribile l’ha egli dipinto, come maestosamente aggrondato! Quando leggo nel Paradiso perduto il concilio di Satana, parmi che da quei versi mi venti su ‘l viso l’aura tempestosa del lungo Parlamento che condannò Carlo I, e l’anima mia ritorna alle notti sublimi della Convenzione francese.
Sto per il vinto; e per il tentatore. Che cosa disse egli in fatti, questo tentator generoso, alla compagna dell’uomo? Le accennava, nell’orto di Geova, in quell’orto chiuso e uniforme, le accennava l’albero mistico che portava il pomo della scienza e della vita, del bene e del male; e – Mangiate, le disse, di questo; e parete siccome iddii. – E che cosa altro, di grazia, dissero agli uomini Pittagora, e Anassagora, Socrate, Platone, Aristotile? Che cosa altro dissero loro il Galileo, il Newton, il Keplero, il Descartes, il Kant?
Di questo ribelle magnanimo, di questo tentator generoso, Moisè, per ossequio alla razza sacerdotale cui apparteneva, Moisè, troppo memore della servitù d’Egitto ove i pantani del Nilo producevano sacerdoti e serpenti, Moisè, dico, ne fece un rettile. Tu sai, onorando amico, se il cattolicismo ha caricato poi di sassi, di fango e di onte questo povero rettile. Rettile? che dico? Ne fece, nelle sue ebre fantasmagorie del medio evo, un mostro, con corna e coda e con tale corredo di deformità che andava crescendo grottescamente nei secoli. Domandane a Dante e al Tasso.
In questo caso, io, oppresso dalla società fin da’ primi anni, mi dichiarai per il ribelle alla monarchia solitaria di Geova, per il tentatore degli schiavi di Geova alla libertà e alla scienza, per l’oppresso dalla gendarmeria di Geova. E, se Ary Scheffer lo aveva tratteggiato sublime di malinconia e involto di fosco splendore, io l’ho cantato raggiante e tonante e folgorante di vita sull’universo. Lo Scheffer lo figurava quando il misticismo pareva voler allegarsi alla libertà: io lo canto, avendo in conspetto il regno della ragione.
Del resto tu, mio onorando amico, grida pure il tuo vecchio e glorioso grido, Dio e Popolo. Con cotesto grido combatterono per la libertà e per l’onore dell’Italia, Roma e Venezia; e io mi scopro il capo dinanzi agli uomini che lo profferiscono, dinanzi agli uomini che contano omai quarant’anni di sacrifizii e di abnegazioni non ascetiche ma romane.
Solo una cosa m’è dispiaciuta nella tua lettera: quel «M’aspetto da voi una spiritosa risposta, alla quale io non replicherò, checché diciate». È vero: nella mia faretra, per dirlo alla pindarica, ormai che sono in vena, io serbo delle frecce, alcune acute come pungiglioni, altre anche avvelenate. Ma queste le riserbo per certi paladini che m’intendo io, quando non me ne ritenga il disprezzo. Tu e dall’ingegno e dalla virtù e dalla vita incontaminata spesa tutta per la libertà e per il bene hai autorità di ammonirmi e di consigliarmi: per te io non ho che ghirlande di fiori, dei fiori nati alle aure più pure dei liberi monti.
Addio. Credi che, a immenso intervallo per l’ingegno, ma a non piccolo intervallo anche per le idee, io sono lungi dalla poesia satanica dello Shelley. Io non sono scettico. Io amo e credo. E ti stringo la mano onorata.
Giosuè Carducci (Enotrio Romano)

(G. Carducci, Confessioni e battaglie, a cura di M. Saccenti, Modena, Mucchi Editore, 2001, pp. 93-97)