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Un giorno perfetto - Melania Mazzucco



lunedì 06 marzo 2006 leggono Chiara Lambertini e Barbara Maccagni
In una giornata cruciale, quel “giorno perfetto” del titolo, emerge il quotidiano di Emma, vittima di violenza da parte del coniuge separato, le difficoltà, le paure, i sacrifici e i dubbi che deve affrontare ogni giorno, l’impossibilità di separarsi del tutto dal suo aggressore, se si tratta dell’uomo che un tempo ha amato. Nell’intensità di alcune pagine del romanzo uscito l’anno scorso per la Rizzoli, Chiara e Barbara di Amnesty Bologna trovano la rispondenza con quanto ogni giorno emerge dalle denunce reali, dalle testimonianze e dalle documentazioni sul tema della Violenza contro le Donne; la lettura diventerà spunto di discussione, insieme a Roberta Mincione di Amnesty Bologna e la Casadelle Donne per non subire violenza.


La Campagna contro la Violenza sulle Donne, promossa a livello mondiale da Amnesty International, partita nel 2004 e, data la gravità delle violazioni che le donne subiscono in tutto il mondo, prorogata fino al 2010, approfondisce in questa fase le violenze che le donne subiscono nell’ambito della sfera  affettiva. Informazioni sulla Campagna nel sito www.amnesty.it





Melania Mazzucco, Un giorno perfetto, Milano: Rizzoli, 2005



Emma s’infilò nel letto. Strattonò la coperta, che nel corso dei rivolgimenti notturni era scivolata dalla parte della madre e per qualche istante – fissando i numeri fosforescenti della sveglia – sperò che Olimpia le chiedesse cosa era successo. Aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno. Anche se Olimpia non era la persona più indicata. Non prendeva mai le sue parti. Per quanto incredibile potesse sembrare, aveva sempre difeso Antonio. Lo giustificava. Addossava a lei, sua figlia, la colpa di tutto. E per molto tempo, dentro di sé le aveva dato ragione. Era lei la causa del loro fallimento, lei l’errore. Si allungò fra le lenzuola con cautela perché, con la menopausa, la madre aveva cominciato a soffrire di un sonno leggero e faticoso – il che la rendeva estremamente irritabile. Emma rimase immobile, le palpebre serrate. Tentò di imitare gli asceti indiani, i bonzi buddisti, gli adepti di qualche setta spiritualista, capaci di assentarsi dal proprio corpo, dalle angustie del mondo fisico e materiale, con la forza del pensiero. Meditare. Lievitare. Trascendere. Dimenticarsi di Antonio, là fuori, stanotte, come ieri, e l’altro ieri. Dalla dentiera di sua madre nel bicchiere sul comodino, dei bambini che dormivano nel tinello, di questa cosa che odorava di fumo, cucina e polvere. Assentarsi. Volare via, per qualche ora. Ma Emma non era un asceta indiano, non faceva il vuoto dentro di sé, la sua mente era una centrifuga impazzita al centro della quale rimbalzava il pensiero di Antonio, appostato insensatamente giù in strada. La sentenza lo aveva mandato fuori di testa. Questa situazione non poteva durare. Doveva cambiare casa, ma per andare dove? Non guadagnava abbastanza per pagare un affitto. Era in trappola, in quella casa troppo stretta, in quella stanza troppo stretta. Da qualche parte c’era una via d’uscita. Ma lei non riusciva a intravederla. 
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Neanche a Olimpia Antonio era piaciuto. Ma per ragioni assai diverse da quelle del marito. Sai com’era tuo padre a vent’anni? aveva commentato. Bello, permaloso e attaccabrighe. Spiccicato al tuo Antonio. Com’è tuo padre a cinquant’anni lo sai. Perciò vedi un po’ che devi fare. Emma aveva fatto di testa sua. E adesso Olimpia diceva che una volta che il bell’Antonio se l’era preso, doveva tenerselo. Che ci hai guadagnato a lasciarlo? Viviamo accampati peggio degli zingari. Emma si rannicchiò contro il muro per non urtare le ossa fragili della madre. Del resto Olimpia non sapeva niente, perché certi fatti lei si vergognava di raccontarli – vergogna per Antonio e vergogna per sé. Al punto che per molti anni li aveva negati pure a se stessa, preferiva pensare di averli sognati, in un incubo ricorrente da cui si era infine liberata. La sveglia segnava le 5.09. Ormai il sonno se n’era andato.
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Dovevano assolutamente rinnovarle in contratto. Era l’unica entrata fissa su cui poteva contare. Gli altri lavori erano troppo precari – ci pagava a stento i libri di scuola di Valentina. Squillò il telefono. Benedisse quel suono stridulo, cacofonico – che le permetteva, però, di incrementare il rendimento. “Salve sono Emma”, cicalò, quasi gioiosamente, “cosa posso fare per lei?”
“Puoi fare molto”, disse l’uomo. Benché la voce provenisse da lontano, disturbata, sopraffatta dalle interferenze del traffico, lo riconobbe subito. “Oh, ti prego, Antonio”, sussurrò, “non devi chiamarmi qui.” “Non sei gentile, ti sto facendo un favore. Ti faccio guadagnare dei soldi.” “Non ho bisogno dei tuoi favori”, sussurrò, sperando che l’assistente di sala non la stesse sorvegliando. “Ma non funziona che più tieni l’utente al telefono più ti pagano, come le mignotte?” rise Antonio, beffardo. “Hai quattro minuti”, esclamò Emma, “che vuoi?” “Quattro minuti?” rise Antonio. “Non mi piaci al punto di soddisfarmi in quattro minuti.” Poi, ovunque fosse, passò un camion dei pompieri o una betoniera, e per un attimo lo perse. Emma si morse le labbra. Non aveva voglia di scherzare, con lui. “Se torni un’altra volta sotto casa di mia madre ti denuncio”, intimò. Il principale obiettivo aziendale – punto 6: AZZERAMENTO TEMPI IMPRODUTTIVI – la ammonì dall’alto della parete. “Sei fuori strada”, disse Antonio. “Oggi cambia tutto. Ti devo parlare.” 
“Ti ho già detto di no” lo interruppe Emma, esasperata. “A che ora stacchi?” disse Antonio, irritato perché voleva ricominciare daccapo, non aveva detto nulla di quello che aveva previsto di dire, o non nel modo in cui avrebbe voluto, e fu tentato di far cadere la linea. Era tutta colpa della sua voce. Lo confondeva. Gli faceva mulinare il sangue. Voleva dirle mi manchi, la casa sta cadendo in pezzi senza di te, io sto cadendo in pezzi, aiutami, Emma, e invece disse: “Sei così impegnata a divertirti che non trovi un’ora per tuo marito?”. “Dio, non ricominciare”, sospirò Emma. Per un attimo, intercettò lo sguardo incuriosito della vicina, che si sporgeva dietro la fragile parete divisoria. I telefoni tacevano. Nel salone del call-center regnava un silenzio da acquario.
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“Vieni a casa, stasera”, insisté Antonio – all’improvviso carezzevole, insinuante. Un Antonio defunto da tempo, e ormai dimenticato. “Ci prepariamo una cenetta, noi due, ti ricordi? Da soli, come prima dei bambini, vedrai che è tutto passato, sto bene adesso.” E mentre Emma indugiava, la cuffia premuta sulle orecchie, chiedendosi se credergli, o se diffidare di lui ancora una volta, perché ancora una volta stava cercando di raggirarla – l’assistente di sala le toccò la spalla. “Questa è l’ora del picco”, la ammonì, “hai due chiamate in coda, risolvi il problema del cliente e chiudi.” Emma annuì. Niente messaggi. Niente rinnovo del contratto. Niente discorsi chiarificatori con Valentina. Antonio passa la notte armato sotto casa e adesso come se nulla fosse vuole infilarsi di nuovo nella sua vita e lei non riesce a impedirglielo. “Devo chiudere, Antonio”, sussurrò, “ti chiamo dopo.” “No, non puoi chiamarmi dopo, l’onorevole ha quasi finito”, protestò Antonio.
Ma Emma riagganciò, e per un lungo istante rimase immobile con le cuffie sulle orecchie – ad ascoltare il lancinante segnale della linea libera. Non ho mai tempo per le cose importanti. Che vita è? In che modo sono rimasta intrappolata? Forse tutte queste cose potevano essere diverse, se solo avessi agito diversamente. Ma cosa ho sbagliato, e quando e dove? In che momento è andata persa la speranza degli anni migliori, quando c’erano i vestiti nuovi, la macchina nuova e i soldi in banca – e l’amore? Ero sicura che sarebbe durato. Come ha fatto a scivolare via oltre il desiderio, oltre ogni rimpianto – come ha fatto tutto questo a sparire? Ma come succedono queste cose?
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E Antonio avrebbe tanto voluto crederle, ma non poteva farlo, a volte era così ferito dalle sue risposte sbrigative che la prendeva a schiaffi, la scongiurava di confessare – non c’era niente di male se le piaceva un altro, ma doveva dirglielo, la sincerità era basilare, io ti accetto imperfetta come sei, anche vedere come cambi io lo chiamo vivere. Se confessava lui l’avrebbe perdonata, ma doveva dirgli la verità. Poi, siccome quella verità lei non riusciva a digliela, cominciava a urlare, ma in tono secco e offensivo, perché Emma non intuisse il potere immenso che aveva su di lui, protestando di non meritare i suoi sotterfugi e le sue bugie, perché non aveva mai amata nessuna come amava lei, la sua prima vera donna, voleva vivere per lei, e proteggerla, e fare ogni cosa con lei, e per lei, mentre lei invece lo aveva deluso – oh, era solo una ragazza qualunque, volubile e incostante come tutte le donne, e non lo amava veramente, non era capace. E allora, commossa da un amore così smisurato, Emma lo pregava di credere, di non considerarla come le altre, anche lei non aveva amato nessuno come amava lui. E mentre diceva così l’espressione del suo viso diventava timida, e sottomessa, e quasi straziante, e lo eccitava ancora di più, e lo spingeva a essere ancora più aggressivo. E lei lo perdonava perché aveva paura di essere fraintesa, o disprezzata, o lasciata, e lo abbracciava, e si riconciliavano e quelle liti furibonde finivano in congiungimenti ancora più furibondi, che li lasciavano spossati storditi e felici di amarsi tanto.
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“Non sto con nessuno, Antonio”, gli disse. Si augurò che il prossimo semaforo fosse rosso, perché doveva assolutamente scendere dalla macchina. Aveva sbagliato di accettare di parlargli. Ai bambini agli alimenti ai colloqui con lo psicologo e alle condizioni che i giudici gli avevano imposto per vedere i figli Antonio non riusciva a interessarsi. I suoi pensieri si erano avvitati intorno a lei – ciò che faceva, chi frequentava, come si vestiva. Senza di lei non posso vivere, aveva dichiarato al giudice, durante l’istruttoria. Da quando se n’è andata la mia vita non ho più senso. Non ho voglia di fare niente, mi scordo di mangiare, non dormo, non sono più io, non sono più nessuno. È l’unica donna della mia vita. La conosco meglio di me stesso. Se le concedete la separazione mi suicido. Per dimostrare che parlava sul serio, dopo l’udienza aveva ingoiato una bottiglia di olio lubrificante per le armi. In realtà non voleva morire, nessuno meno di Antonio voleva morire, solo costringerla a tornare. Gli avevano fatto una lavanda gastrica e prescritto la terapia dallo psicologo. Lei non era tornata. E lui aveva cominciato a spiarla. Telefonava anche trenta volte al giorno, al lavoro e a casa. Raramente parlava, spesso si limitava a riattaccare quando sentiva la sua voce. Da qualche tempo, quando non vegliava su Fioravanti, la seguiva. Il suo viso abbronzato, i suoi occhi neri straniti apparivano tra la folla all’improvviso – ai grandi magazzini, al supermercato, sull’autobus, nel vagone della metro. Appariva per un attimo, e poi svaniva, lasciandole una sorda inquietudine, e perfino il timore di avere le allucinazioni. 
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Mentre zigzagava fra le macchine dirette alla Moschea e ai campi sportivi dell’Acqua Acetosa, faceva stridere i pneumatici e sbucava sotto i trafori di Monte Mario, Antonio insisteva, con gli occhi spiritati che a poco a poco si erano venati di sangue: il nome del suo nuovo tipo, voleva sapere il nome, solo questo, aveva il dovere di dirglielo, erano stati sposati per dodici anni, aveva il diritto di sapere quale uomo si scopasse la madre dei suoi figli, ne aveva il diritto. ”Non c’è nessuno”, ripetè Emma, sforzandosi di restare calma per non innervosirlo, “non voglio più stare con nessuno”, ma siccome Antonio sapeva che non era vero gli pulsavano le vene sulle tempie, e presto sarebbe esploso, e lei era stanca di tutto questo, e aveva giurato a se stessa che non gli avrebbe mai più permesso di toccarla, perché era cambiata,e si era liberata dei sensi di colpa e non si guardava più attraverso i suoi occhi, lo afferrò per il braccio e tentò di sterzare il volante, per costringerlo ad accostare, gridando fermati, fermati, voglio scendere. Antonio non si fermò, accese la sirena che non aveva il diritto di accendere ma tanto la legge sono io, imbucò a tutta velocità il viottolo che costeggiava la Farnesina, piombò sul lungotevere e s’avventò, come volesse schiacciarla, contro la palla arrugginita di Pomodoro. E siccome Emma continuava a strattonarlo per costringerlo a fermarsi, si liberò di lei con una gomitata. Emma si coprì il viso con le mani e se le trovò bagnate di sangue. Antonio frenò bruscamente, mandandola a sbattere contro il parabrezza. I motore si spense. “Scusami, non volevo”, disse – mentre, scavalcando il rialzo di marmo, la Tipo si arenava sul basamento che circonda l’obelisco del Dux, spaventando un consesso di gabbiani – “mi dispiace, amore, scusami.” Si frugò nella tasca della giacca in cerca del fazzoletto, non lo trovò, aprì il cassetto del cruscotto. Emma sentì odore di olio rancido, di lubrificante, vide la Springfield Armony 1911-AI – la sua preferita, l’unica che custodiva nella cassaforte, dietro le Ninfee di Monet.
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Emma si avvicinò allo specchio. Quando trovò l’interruttore della luce, una ghirlanda di lampadine bianche l’ illuminò senza misericordia. Sciupata, pallida, piuttosto malridotta. È terribile pensare che la nostra vita è un romanzo senza intreccio e senza eroi, completamente sconnessa, priva di coerenza, fatta solo di pause e di vuoti, di digressioni insensate. Perché sono salita sulla sua macchina, perché? Stupida idiota cos’altro potevo aspettarmi da Antonio? Strappò un asciugamano di carta del rotolo che si inumidiva sul lavabo. La mia bocca, Dio santo. E non era giusto. Non oggi. Il venerdì pomeriggio andava a assistere il generale Zaliani. Era convalescente da un ictus. Gli leggeva i romanzi di Salgari, che lui aveva divorato da ragazzo. I figli credevano che stesse per morire. Invece il generale trovava la sua voce altamente afrodisiaca e aveva scritto sulla lavagnetta, con l’unico braccio funzionante, che preferiva vivere perché nessuno gli garantiva che avrebbe lasciato entrare in paradiso una donna come Emma Tempesta. A lei piacevano le ore serene che trascorreva in compagnia del generale, nella penombra di un palazzo barocco del contro storico, con quell’uomo piccolo e raggrinzito nel letto, gli occhi trasparenti che traboccavano di una felicità remota e inafferrabile. Aveva dovuto telefonare per dirgli che non poteva andare, oggi. È terribile deludere qualcuno che potrebbe morire domani. Il cesso della stazione dei carabinieri odorava di candeggina. Quando sollevò il cerotto, notò che il suo sangue rappreso aveva lo stesso colore delle lacrime rugginose che incrostavano l’occhio del lavabo. A un esame spassionato, la ferita alla bocca si rivelò più profonda di quanto sperato. Il taglio incideva il labbro inferiore – netto come una coltellata. Al Pronto Soccorso le avevano dato tre punti, un cerotto e un volgarissimo referto – che però forse poteva servire da prova. Il certificato dell’Azienda Sanitaria Locale attestava che Emma Tempesta presentava un trauma contusivo con lieve tumefazione in regione zigometrica sinistra escoriazioni abrasive alla base del collo ferita da taglio di 3,5 centimetri di lunghezza labbro inferiore , per cui veniva giudicata per ferita lacero-contusa ed ecchimosi varie guaribile in otto (8) giorni salvo complicazioni. Quanto alle cause, il referto si limitava ad annotare: riferisce percosse. Nient’altro. Emma gettò il cerotto bagnò una salvietta sotto l’acqua, tamponò la bocca a lungo, perché forse il freddo le avrebbe impedito di gonfiarsi ancora. Forse, con uno strato generoso di rossetto, i punti non si sarebbero notati. Se Kevin l’avesse baciata, le avrebbe fatto male. Si ridipinse le labbra, accuratamente. Non doveva accorgersi di niente. Non lui, non Valentina, non sua madre. Nessuno. Antonio voleva ucciderla. Non sapeva cosa lo avesse fermato. Stranamente, non aveva paura, anzi, aveva sentito dentro di sé una incredibile forza. Aveva smesso di avere paura della morte il giorno in cui era nata Valentina – scoprendo che quando non ci sarebbe stata più, sua figlia avrebbe continuato a vivere. Ormai esisteva un’altra creatura con cui guardava il mondo, un’altra voce per dire le cose, un’altra mente per interpretarle. La mia vita, pensò, non è più solo la mia: è la nostra. Si spolverò le guance col fard. Al contatto col pennello, sentì un dolore lancinante. Proseguì, sospirando, finché le parve che il livido fosse scomparso. Non riusciva a levarsi dagli occhi la pistola nel cruscotto. E si disse che lei non aveva il diritto di morire. Lo aveva giurato a Kevin, stamattina. Aveva il diritto di denunciare Antonio e di proteggersi. La mia vita non è più solo la mia: è la nostra.
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Quando si sedette di fronte al maresciallo, notò che l’unica cosa nuova – sgargiante sulla parete – era un poster che reclamizzava il corpo dei carabinieri. Un ragazzo e una ragazza in divisa, molto fotogenici, sorridevano sotto la scritta UNISCITI ANCHE TU ALLE FORZE ARMATE. “Di che si tratta?” le chiesero. Emma rispose, sicura. “Voglio denunciare mio marito”.
“Da quanto c’è stata la sentenza di separazione è diventato sempre più aggressivo”, disse, sforzandosi di adottare un tono neutro, convincente e distaccato. La tastiera del computer cominciò a ticchettare. E tutta la sua determinazione l’abbandonò. Si sentì confusa, con la testa completamente vuota. Perché c’è solo un modo giusto per fare le cose, e centomila modi sbagliati. “Oggi ha perso il controllo e ha cercato di uccidermi”, disse, e intanto pensava a cosa stava facendo. Antonio. Antonio mio. Se lo denuncio, lo rovino. Lo sospenderanno. Il lavoro è tutto quello che gli resta. Se dico la verità gli tolgo l’unica possibilità di risollevarsi. E questi uomini, mi crederanno? Investigheranno nella sua vita, e nella mia, e la mia non gli piacerà, è così disordinata e sconnessa. Ma se alla fine, nonostante tutto, lo condannano gli toglieranno anche i bambini. Ho diritto di farlo? I bambini hanno bisogno di lui. Che razza di madre sarei se gli togliessi anche questo. Gli ho tolto tutto. Li ho costretti a seguirmi. Ho sacrificato il loro futuro al mio disamore, e, sì, anche alla mia allegria – la voglia di vivere che lui non è riuscito a togliermi. Non è già abbastanza? Antonio non mi ha uccisa, dopotutto. E a loro non ha mai fatto del male. Nemmeno Dio quando ha dettato i comandamenti ha ritenuto necessario ricordare agli uomini di onorare i loro figli. È naturale. È ovvio. È me che odia. E lo odio anch’io. Ci lasciamo vivere, è questa la nostra condanna. I due ragazzi del poster la invitavano ad andare avanti. Ad avere fiducia. UNISCITI ANCHE TU ALLE FORZE ARMATE. Ma lei ammutolì.
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“Come si è procurata, ehm, il livido?”, chiese il maresciallo, per sbloccare la situazione, che si andava impantanando. “È stato lui. Non so com’è successo.”, sussurrò Emma. “È la prima volta che suo marito, la causa, diciamo, lesioni personali?” “No”, disse Emma. Sentì chiaramente la sua voce dire a un medico di turno: Sono caduta mentre stendevo i panni. Sono caduta nella vasca da bagno. Sono scivolata sulle scale, abito al sesto piano, sa? Non c’è l’ascensore. Si ricordò delle notti che Antonio passava nelle astanterie, vicino a lei. Premuroso, apprensivo, ostentando una dedizione commovente e supplicandola di perdonarlo, perché se non l’avesse fatto ne sarebbe morto, si sarebbe impiccato, gettato sul coltello come un samurai. La scongiurava di credere che lei non era soltanto la sua amatissima moglie o la madre dei suoi bambini ma la sua stessa vita, ed Emma sapeva che era sincero. Mentre aspettavano il medico, le baciava la mano, la fronte e i capelli, dicendole che l’amava più di ogni cosa e più della sua vita e mai avrebbe voluto ferirla o farle del male – Emma, amore mio perdonami. Quante volte le aveva ripetuto le stesse frasi, forse le stesse parole? Si ricordò di quell’infermiera del Policlinico, si chiamava Rosa. Aveva finto di crederle e invece le portò col pranzo il volantino di un’associazione che offriva assistenza legale gratuita alle donne maltrattate. Come si permette di pensare che io sia un donna maltrattata? L’aveva aggredita lei, indignata, stracciando il volantino. Io ho un marito meraviglioso, sono una moglie molto felice. Anch’io, rispose Rosa, ma io non cado per le scale. Lei è la seconda volta in un anno che viene al Pronto Soccorso. Ero di turno anche a gennaio. Aveva una frattura al polso, due costole incrinate e una vertebra schiacciata. Stava così male che voleva la morfina. Se avessi potuto, gliela avrei data. Anche se lei non ha bisogno di morfina, ma di un avvocato. Emma non era mai più andata a farsi medicare al Policlinico.
“Ah, bene”, esclamò il maresciallo, anche se forse non avrebbe dovuto dirlo. Però l’esistenza di precedenti aiutava molto. Il caso si presentava delicato. La bionda denunciava un poliziotto – un agente scelto assegnato al servizio scorte. “Sarà molto utile. Quando ha presentato le altre denunce?” “Una, il 13 novembre di tre anni fa”, disse Emma. “Si ricorda la data precisa!” si stupì il maresciallo. “Era il giorno del compleanno di mio marito”, precisò Emma. Era andata via quaranta giorni dopo. Per un anno ogni mercoledì si era giocata i numeri di quella data – 23.12.1998 – al Superenalotto. Non aveva vinto e si era chiesta perfino se questo non fosse un segno del cielo. “Si ricorda anche dove ha presentato la denuncia?” chiese il maresciallo. “Dai carabinieri dell’Esquilino, ma ho ritirato la querela.” Aiutami, salvami, salvaci – gli dicevano i suoi occhi, aggrappati alla sua divisa nera, alla sua faccia paterna e bonaria, alle mostrine sulle spalle. “Ma perché?” sospirò il maresciallo, allargando le braccia. “Cosa possiamo fare per voi se non ci aiutate ad aiutarvi!” “Non potevo farlo condannare”, disse Emma, così piano che il carabiniere al computer nemmeno sentì, “io lo amavo, era mio marito, il padre dei miei bambini.”
L’anno 2001 addì 4 del mese di maggio alle ore 17.10, negli uffici del comando della stazione dei Carabinieri di Roma centro, davanti a me, ufficiale di P.G. Brigadiere Critelli Raffaele, effettivo al suindicato comando, è presente a signora Emma Tempesta, in oggetto meglio generalizzata, la quale denuncia quanto segue. In data 4 maggio 2001, sono stata minacciata e aggredita nell’automobile di mio marito Antonio Buonocore, residente a Roma in via Carlo Alberto 17, dal quale mi sono separata il 9 aprile c.a. – leggeva con voce impersonale il brigadiere che aveva raccolto la denuncia. Lo stesso mi colpiva violentemente al viso, e, afferratomi il collo con entrambe le mani tanto forte da lasciare vistose ecchimosi riproducenti l’impronta delle sue dita, cercava di soffocarmi, ingiuriandomi con epiteti oltraggiosi offensivi e irripetibili come “puttana” e simili, quindi urlando (pressappoco) “questo è il giorno del giudizio” “ti lascio il tempo di una preghiera” “chiedi perdono” e via dicendo, finché perdevo i sensi, quindi tentata di uccidermi, utilizzando un coltello da caccia che deteneva nella tasca della giacca, puntandomelo al collo e provocandomi graffi profondi alla gola e una ferita da taglio nonché tumefazioni al volto causate dai pugni. Il carabiniere si interruppe, la guardò, come a chiederle, va bene? Procedo? Emma annuì, anche se in quelle parole di un abominevole, impersonale squallore, stentava a riconoscere la scena che aveva realmente vissuto. Successivamente, in stato di forte stordimento, mi recavo al Pronto Soccorso dell’Ospedale San Giacomo, ove venire medicata per lesioni meglio specificate nel referto che si allega. Voglio altresì denunciare che da quando l’ho lasciato, Buonocore mi ha privato di fondi onde provvedere al mantenimento dei nostri figli, per il quale sono aiutata da mia madre. Inoltre faccio presente che da mesi Buonocore mi molesta sia telefonicamente sia facendomi oggetto di ripetute minacce ogni volta che ribadivo l’intenzione di non tornare con lui. Per quanto sopra sporgo formale denuncia querela nei confronti di Antonio Buonocore, affinché sia penalmente perseguito per i reati di minaccia, ingiuria, lesioni personale ed eventuali reati ravvisabili in narrativa, chiedendo la punizione dello stesso, nonché mi riservo di costituirmi parte civile. Non ho altro da aggiungere né da modificare a quanto già detto.
“Non ha scritto che chiedo la sospensione di Buonocore dal servizio scorte, e la revoca della licenza di possesso di arma da fuoco”, lo interruppe Emma. “Non pertiene alla querela”, obiettò il carabiniere. “Lo scriva”, ripeté Emma. “Ha sei pistole e tre fucili. Dovete toglierglieli!” Il carabiniere lanciò un’occhiata interrogativa al superiore. Il maresciallo gli fece cenno di lasciarla parlare, ma di non modificare il testo. La stampante entrò in funzione con un ticchettio asmatico. “È il miglior tiratore del poligono della polizia”, proseguì Emma, atona,. “Ho due figli piccoli. Non prendetevi la responsabilità di lasciarli orfani.”
Il carabiniere le porse il foglio. Fatto, letto, confermato e sottoscritto in data e luogo di cui sopra. La denunciante Emma Tempesta. E su di loro scese il silenzio.
[…]



Emma spense la sigaretta nel bicchiere del tè. Fissava il maresciallo come se adesso, seduta stante, potesse uscire, revocare il porto d’armi di Antonio, requisirgli i fucili e le pistole, impedirgli di pedinarla, ossessionarla, aggredirla – e magari arrestarlo. “Quanto tempo ci vorrà?” gli chiese?. Un’ingenua speranza brillava nell’oscurità dei suoi occhi neri. “Il prossimo”, chiamò il brigadiere. Entrò un turista americano derubato della videocamera sul 64. Emma non si muoveva. Il maresciallo pensò che questa donna, per avere una sentenza, nel migliore dei casi avrebbe dovuto aspettare tre, quattro, forse perfino cinque anni. “Adesso vada a casa, signora”, disse ”le faremo sapere.”