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Il mestiere delle parole - Virginia Woolf





lunedì 13 marzo 2006 legge Liliana Rampello
La Virginia Woolf scrittrice è una magnifica leggenda del Novecento, eppure altrettanto grande è la Woolf lettrice.

Con tutti i suoi romanzi (fra i più famosi "Mrs Dalloway", "Al Faro", "Le onde") ha rinnovato struttura e tecnica della rappresentazione, con "Flush", "Orlando" e "Roger Fry" ha reinventato il genere biografico, con i suoi Diari e le migliaia di lettere ha restituito un intero mondo.
Ma ha anche scritto centinaia di pagine sulla lettura, con un suo approccio anarchico alla critica letteraria. E’ proprio lì, tra le sue magnifiche e indimenticabili parole, che possiamo scoprire le sue idee sulla lettura e sulla scrittura. Lì ci ha fatto “il dono di ciò che leggeva”.
Nei testi più esplicitamente politici, "Una stanza tutta per sé" e "Tre ghinee", si è rivelata una grandepensatrice, in cui molte donne hanno trovato le radici del loro femminismo.
Le sue “Ore in biblioteca” sono come le porte della “cattedrale” di emozioni, come lei stessa ha definito la matrice profonda di tutte queste forme.
Ci vengono presentate da Liliana Rampello, autrice del volume "Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella scrittura", Il Saggiatore.
Ascolteremo anche la voce della Woolf, registrata in una conferenza del 20 aprile 1937.

Il mestiere delle parole

(Una conversazione trasmessa alla radio il 20 aprile 1937 e poi ripubblicata a cura di Leonard Woolf in "The Death of the Moth and Other Essays" nel 1942, ed. it. in "Ore in biblioteca e altri saggi", a c. di Paola Splendore, Milano, La tartaruga 1991, pp. 141-148)

Il titolo di questa serie di conversazioni è “Le parole mi sfuggono”, e questa in particolare si chiama “Il mestiere delle parole”. Bisogna quindi supporre che chi parla intenda discutere il mestiere delle parole – il mestiere dello scrittore. Ma c’è qualcosa di incongruo, di inadeguato nel termine “mestiere” quando viene applicato alle parole. Il dizionario inglese, a cui sempre ci rivolgiamo in caso di dilemma, conferma i nostri dubbi. Dice che la parola “mestiere” ha due significati: da un lato significa trarre oggetti utili da materiali solidi: per esempio un vaso, una sedia, un tavolo. Dall’altro, la parola “mestiere” significa essere smaliziati, astuti, saper ingannare. Ora, sono poche le cose certe che sappiamo sulle parole, ma quello che possiamo sicuramente dire è che con le parole non si costruisce mai qualcosa di utile; e che le parole sono le uniche cose capaci di dire la verità e solo la verità. Per questo, parlare di mestiere in relazione alle parole significa mettere assieme due concetti incompatibili che, se uniti, potrebbero dar vita soltanto a qualche mostro buono da esibire in un museo sotto una campana di vetro. Allora il titolo di questa conversazione va cambiato all’istante e sostituito con un altro del tipo “Divagando sulle parole”. Perché quando si taglia la testa a un discorso, questo reagisce come una gallina che è stata appena decapitata. Si mette a correre in cerchio finché non stramazza a terra morta – così almeno dicono quelli che hanno ammazzato delle galline. E lo stesso dev’essere il corso, o quantomeno il cerchio di questo discorso decapitato. Prendiamo allora come punto di partenza l’assunto che le parole non servono a niente. Ciò fortunatamente non ha bisogno di molte prove, perché ne siamo tutti consapevoli. Per esempio, quando viaggiamo in metropolitana, quando aspettiamo il treno al binario, lì sospese davanti a noi, su un cartellone illuminato, troviamo le seguenti parole: “Passa per Russel Square”. Guardiamo quelle parole; le ripetiamo; tentiamo d’imprimere nella nostra mente un fatto utile: il prossimo treno passerà per Russel Square. Ce lo ripetiamo tante volte mentre camminiamo avanti e indietro. “Passa per Russel Square”, “Passa per Russel Square”. Ma mentre la pronunciamo, le parole si mescolano e cambiano, e noi ci sorprendiamo a dire: “Passano, passano sempre, dice il mondo … Le foglie appassiscono e cadono; la nebbia riversa il loro peso sulla terra. Arriva l’uomo …” E quando ci ridestiamo, ci troviamo a King’s Cross.
Facciamo un altro esempio. Scritte di fronte a noi nella carrozza del treno ci sono le parole: “E’ vietato sporgersi dal finestrino”. Alla prima lettura il messaggio utile, il messaggio di superficie viene recepito; ma subito dopo, mentre restiamo seduti a guardare quelle parole, esse cambiano, si confondono, e noi cominciamo a dire: “Finestre, sì, finestre, battenti che si aprono sulla spuma di mari impervi, abbandonati in terre immaginarie” (cfr. J. Keats, “Ode all’usignolo”, st. VIII). E prima di capire cosa stiamo per fare, ci sporgiamo dal finestrino. Cerchiamo Ruth in lacrime in mezzo al grano indifferente. E la punizione per averlo fatto è una multa di venti sterline o un collo rotto.
Questo prova, nel caso ce ne fosse bisogno, come le parole abbiano una scarsa vocazione ad essere utili. SE continuiamo a forzarle ad essere utili contro la loro natura, ci accorgeremo a nostre spese come ci inganneranno , come si faranno gioco di noi, come ci burleranno facendoci scoppiare un petardo in testa. Veniamo imbrogliati così spesso dalle parole; ci hanno mostrato così spesso di non voler essere utili; che non è nella loro natura esprimere un semplice messaggio, ma mille possibilità diverse: l’hanno talmente dimostrato che alla fine, per fortuna, stiamo imparando ad accettare questo fatto. Stiamo imparando a inventare un altro linguaggio; un linguaggio perfettamente e meravigliosamente adatto a esprimere concetti utili: un linguaggio fatto di segnali. C’è un solo grande maestro di questo linguaggio a cui siamo tutti debitori: è l’anonimo scrittore – nessuno sa se uomo, donna o spirito disincarnato – che descrive gli alberghi nella guida Michelin. Ci vuol far sapere che un albergo è discreto, che un alto è buono, e che un terzo è il migliore della zona. Come lo fa? Non con le parole; le parole farebbero subito spuntare boscaglie d’arbusti e tavoli da biliardo, uomini e donne, la luna nascente e il lungo frangersi delle onde d’estate: tutte cose molto belle ma che esulano totalmente dalla questione. Egli si affida allora ai segnali, ai simboli architettonici: un timpano, due timpani; tre. Ci dice solo questo e solo questo deve dirci. Il Baedeker porta il linguaggio dei segni anche più lontano, fino al sublime regno dell’arte. Quando vuole indicare che un film è buono, usa una stella; se è molto buono, due stelle, quando si tratta, a suo giudizio, di un lavoro geniale e prodigioso, sulla pagina brillano tre stelle, tutto qui. Analogamente, con una manciata di stelle e crocette si potrebbe ridurre tutta la critica d’arte, tutta la critica letteraria alle dimensioni di una monetina da sei scellini: e certe volte sarebbe davvero desiderabile. Ma questo significa che in un prossimo futuro gli scrittori avranno due lingue a disposizione: una per i fatti e l’altra per la finzione. Quando il biografo dovrà comunicare un fatto utile e necessario, per esempio che nell’anno 1892 Olivier Smith andava all’università e che prese una laura di terzo grado, ce lo dirà con un vuoto “O” in cima al numero cinque. Quando il romanziere sarà costretto a informarci che John suonò il campanello; e che dopo una pausa la porta enne aperta da una cameriera che disse: “La signora Jones non è in casa”, con nostro grande conforto e soddisfazione esprimerà questa orribile frase senza dover usare parole ma segnali – per esempio una H maiuscola sul numero tre. E così ci auguriamo di edere il giorno in cui le nostre biografie e i nostri romanzi saranno agili e vigorosi; e in cui la compagnia ferroviaria che scriverà a parole: “E’ vietato sporgersi dal finestrino” avrà una multa di cinque sterline per uso improprio della lingua.
Le parole, quindi, non sono utili. Indaghiamo adesso sull’altra qualità che esse hanno, una qualità positiva, e cioè il loro potere di dire la verità. Sempre secondo il dizionario esistono almeno tre tipi di verità: la verità divina o del Vangelo; le verità letterarie, e le verità acquisite (che sono generalmente le meno interessanti). Ma considerare ognuna separatamente richiederebbe troppo tempo. Cerchiamo allora di semplificare dicendo che la durata nel tempo è l’unica prova di verità, e dal momento che le parole sopravvivono più a lungo di ogni altra cosa alle alterne vicende della vita, si può concludere che esse sono le più ere. Gli edifici crollano; anche la terra muore. Quello che era ieri un campo di grano oggi è diventato una casa. Ma le parole, se usate appropriatamente, sembrano capaci di vivere in eterno. E allora, potremmo chiederci, quale sarebbe l’uso appropriato delle parole? Come si è detto, non è certo quello di dare messaggi utili, perché un messaggio utile può significare soltanto una cosa. Invece è della natura delle parole significare molte cose. Prendiamo la semplice frase, “Passa per Russell Square”. Essa si è rivelata inutile; perché accanto al suo significato letterale conteneva tanti significati sommersi. La parola “passa” richiama la transitorietà delle cose; il passare del tempo e il mutare della vita umana. La parola “Russell” evoca il fruscio (si noti l’assonanza in inglese dell’onomastico “Russell” con la voce “rustle”, che significa appunto “fruscio”) delle foglie e di una gonna su un pavimento lucidato; ma anche la casa ducale di Bedford, e quindi una buona metà di storia inglese. Infine, la parola “Square” ci fa immediatamente vedere la forma di una piazza vera e propria, assieme a qualche suggestione visiva della rigida spigolosità degli stucchi. Quindi anche la frase più elementare stimola l’immaginazione, la memoria, l’occhio, l’orecchio – e tutto si mescola mentre leggiamo.
E quando tutto si mescola, si mescola al livello inconscio. Dal momento in cui, come abbiamo fatto fin qui, riconosciamo e sottolineiamo le suggestioni ricevute, esse diventano irreali: ci trasformiamo in specialisti, in mercanti di parole, in ricercatori di frasi, e non siamo più dei lettori. Leggendo, dobbiamo permettere ai significati sommersi di restare sommersi, suggeriti, ma non dichiarati, dobbiamo lasciarli scivolare e fluire l’uno sull’altro come canne sul letto di un fiume. Ma le parole di quella frase – “Passa per Russel Square” – sono ovviamente parole molto rudimentali. Non mostrano nessuna traccia dello strano, diabolico potere che possiedono le parole quando non sono battute a macchina ma sgusciano fresche da un cervello umano: il potere cioè di evocare lo stesso scrittore; il suo carattere; il suo aspetto; sua moglie; la sua famiglia; la sua casa – e anche il gatto sul tappetino accanto al focolare. Perché le parole facciano questo, come lo facciano e come evitare che lo facciano, nessuno lo sa. Ma lo fanno a prescindere dalla volontà dello scrittore; e spesso contro la sua stessa volontà. Presumibilmente nessuno scrittore desidera imporre al suo lettore il suo carattere infelice, i propri segreti e vizi privati. Ma sono forse mai esistiti scrittori che, senza diventare macchine da scrivere, siano riusciti ad essere totalmente impersonali? Inevitabilmente finiamo per identificarli con i loro libri. Il potere delle parole è tale da trasformare spesso un brutto libro in un essere umano adorabile, e un buon libro in una persona che riusciremo a stento a sopportare nella nostra stessa stanza. Anche le parole di cento anni fa hanno questo potere; e quando sono nuove ne hanno ne hanno uno così risonante che ci assorda con i messaggi dello scrittore; è lui che vediamo, è lui che udiamo. Questa è una delle ragioni per cui il nostro giudizio sugli autori viventi è così vago e impulsivo. Soltanto dopo la morte dell’autore vengono in qualche misure disinfettate, purificate delle inevitabili imperfezioni di un corpo vivente.
Ora questo potere di suggestione è una delle proprietà più misteriose che hanno le parole. Chiunque abbia mai scritto una frase deve esser cosciente, o almeno in parte cosciente, di questo.

(da questo punto si può seguire la voce di Virginia Woolf stessa, registrata e disponibile nel sito della BBC:www.bbc.co.uk/bbcfour/audiointerviews/profilepages/woolfv1.shtml )

Le parole, le parole inglesi sono per loro stessa natura piene di echi, di ricordi, di associazioni. Per tanti secoli sono uscite e sono passate per le labbra della gente, nelle nostre case, nelle strade, tra i campi. Il fatto che siano così dense di significato e di ricordi; che abbiano contratto tanti matrimoni famosi è una delle maggiori difficoltà per chi scrive oggi. Ad esempio, la splendida parola “imporporare”: chi può mai usarla senza aggiungere “innumerevoli mari”? (cfr. William Shakespeare, Macbeth, atto II, II scena) Naturalmente in tempi antichi, quando l’inglese era ancora una lingua nuova, gli scrittori potevano inventare parole nuove e provare ad usarle. Oggigiorno è molto facile vedere qualcosa di nuovo o provare una sensazione nuova – ma non possiamo usare parole nuove perché la nostra lingua è antica. Non si può usare una parola nuovissima in una lingua antica per il fatto ovvio e al tempo stesso misterioso che una parola non è una singola entità separata, ma appartiene ad altre parole. Non è ancora una parola finché non entra a far parte di una frase. Le parole appartengono l’una all’altra anche se, naturalmente, solo un grande scrittore sa che la parola “imporporare” appartiene a “innumerevoli mari”. Associare parole nuove a parole vecchie è sempre fatale nella costruzione di una frase. Per usare parole nuove in un modo appropriato bisognerebbe inventare una lingua nuova; e questo, anche se un giorno arriveremo a farlo, al momento non ci compete. Mentre invece ci compete vedere cosa riusciamo a fare con una lingua inglese così com’è. Come si possono organizzare parole antiche in un nuovo ordine in modo da farle sopravvivere, in maniera che producano bellezza e dicano la verità? Questo è il vero problema.
E chi saprà rispondere a questa domanda meriterà ogni alloro che il mondo possa offrire. Pensate cosa significherebbe saper insegnare, e quindi saper imparare l’arte dello scrivere. In questo modo ogni libro, ogni quotidiano direbbe la verità, e sarebbe capace di riprodurre la bellezza. Ma sembra che ci siano degli ostacoli su questa strada, e non pochi impacci nell’insegnare parole. Perché, anche se in questo momento almeno un centinaio di professori stanno tenendo conferenze sulla letteratura del passato, e almeno un centinaio di critici recensiscono letteratura contemporanea, e centinaia e centinaia di giovani, uomini e donne, stanno superando gli esami di letteratura inglese col massimo dei voti, credere che questo basti a farci scrivere meglio, oppure a farci leggere e scrivere meglio di quanto si facesse quattrocento anni fa, quando non c’era nessuno che facesse conferenze, né critiche, né lezioni? Nella nostra tradizioni, la letteratura georgiana ha forse migliorato quella elisabettiana? E allora con chi dobbiamo prendercela? Non certo con i professori, e nemmeno con i recensori; né con gli scrittori; ma solo con le parole. Sono le parole le vere colpevoli. Sono fra le cose più indisciplinate, più libere, più irresponsabili e più riluttanti a lasciarsi insegnare. Certo, possiamo sempre prenderle, suddividerle e metterle in ordine alfabetico nei dizionari. Ma le parole non vivono nei dizionari; vivono nella mente. Se ne volete una prova, pensate a quante volte, nei momenti di maggior emozione, vi capita di non trovarne nessuna quando più ne avreste bisogno. Eppure il dizionario esiste; è lì, a vostra disposizione, ci sono mezzo milione di parole tutte in ordine alfabetico. Ma potete davvero usarle? No, perché le parole non vivono nei dizionari , vivono nella mente. Consultate il dizionario. Lì, senza alcun dubbio, si trovano drammi più splendidi di Antonio e Cleopatra; poesie più belle dell’Ode all’usignolo; romanzi al cui confronto Orgoglio e pregiudizio e David Copperfield non sono altro che rozzi esercizi da dilettante. La questione è solo quella di trovare le parole giuste e di metterle nell’ordine giusto. Ma non possiamo farlo perché esse non vivono nei dizionari, ma nella mente. E come vivono nella mente? Nei modi più strani e svariati, non molto diversamente dagli esseri umani; vagando qua e là, innamorandosi e accoppiandosi. E’ indubbio che siano molto meno limitate di noi dalle convenzioni e dai cerimoniali. Parole regali possono permettersi di accoppiarsi con le più comuni. Parole inglesi sposano parole francesi, tedesche, indiane, e di colore se gli salta in mente di farlo. Di fatto, quanto meno indaghiamo nel passato della nostra cara madrelingua inglese, tanto meglio sarà per la reputazione di quella Signora. Perché è diventata una di quelle donne che passano di continuo da una persona all’altra.
Per questo, imporre regole a tali impenitenti vagabonde è del tutto inutile. Le poche regole di grammatica e di ortografia esistenti sono le uniche restrizioni che potremmo imporre loro. Al massimo possiamo dire di loro – man mano che le spiamo dal profondo limite della caverna scura e male illuminata in cui vivono – che sembrano preferire la gente che sente e pensa prima di usarle, ma non deve essere gente che sente e pensa a loro, ma a qualcosa di diverso. Perché sono molto sensibili, e si sentono facilmente a disagio. Non amano che si discuta della loro purezza o della loro impurità. Se fondate un’Associazione a favore dell’Inglese Puro, esse mostreranno il loro disappunto fondandone un’altra a sostegno dell’Inglese Impuro – da cui deriva l’innaturale violenza di molti discorsi moderni; che altro non vuole essere se non una protesta contro i puritani. Le parole sono anche molto democratiche; pensano che una parola sia buona come un’altra; che le parole rozze valgano quanto quelle educate; che quelle incolte siano uguali a quelle colte; non esistono classi o titoli di merito nella loro società: E non amano essere sollevate in punta di penna ed esaminate una per una. Restano sempre unite in frasi, in paragrafi, e a volte per intere pagine di fila. Odiano essere utili; odiano dover fare soldi; odiano andare in giro a tenere conferenze. In breve, odiano qualsiasi cosa che imponga loro un unico significato, o che le immobilizzi in un’unica posa, perché cambiare fa parte della nostra natura.
E forse è proprio questa la loro caratteristica più sorprendente: il loro bisogno di cambiare. perché la verità che cercano di affermare ha tante facce; e proprio perché loro stesse sono molto sfaccettate riescono a comunicarla, illuminando ora un volto, ora un altro. Per questo possono significare una cosa per una persona e un’altra cosa per un’altra; per questo risultano incomprensibili a una generazione, e del tutto scontate per quella successiva. Ed è proprio grazie a questa loro complessità che esse sopravvivono. Allora, forse uno dei motivi per cui oggi non abbiamo grandi poeti, grandi romanzieri, o grandi critici è che neghiamo alle parole la loro libertà. Le inchiodiamo ad un unico significato, al loro significato utile; a quello che ci fa perdere un treno e che ci fa superare gli esami. E quando le parole vengono inchiodate a un unico significato, ripiegano le loro ali e muoiono.

(qui termina la registrazione disponibile)

In conclusione, e con più veemenza, come noi stessi, le parole, per vivere a loro agio, hanno bisogno di agire per conto proprio. Senza dubbio a loro fa piacere che noi sentiamo e pensiamo prima di usarle; ma vogliono anche che ci concediamo una pausa; che diventiamo incoscienti. Il nostro inconscio è la loro privacy; la nostra ombra è la loro luce … Quella pausa è stata fatta, quel velo d’oscurità è stato calato per indurre le parole a unirsi in uno di quei matrimoni veloci che si traduco in immagini perfette e producono bellezza eterna. Eppure stasera niente di tutto questo accadrà. Quelle monelle sono adirate; scortesi; disobbedienti; mute. Cosa stanno confabulando? “Il tempo è scaduto! Silenzio!”



Ore in biblioteca


(Saggio pubblicato per la prima volta in Times literary supplement 30 novembre 1916, poi ristampato in Granite and Rainbow 1958, ed. it. in "Ore in biblioteca e altri saggi", a c. di Paola Splendore, Milano, La tartaruga 1991, pp. 17-24, qui le pp. 17-18)
Cominciamo col chiarire la vecchia confusione tra chi ama apprendere e chi invece ama leggere, sottolineando che non esiste alcuna relazione fra i due. Un uomo colto è un tipo sedentario, un entusiasta assorto e solitario che cerca di scoprire attraverso i libri un granello di verità che gli sia particolarmente a cuore. Quando lo prende la passione della lettura, il sapere da lui conquistato vacilla e gli svanisce fra le dita. D’altro canto, un autentico lettore deve tenere a bada sin dall’inizio il suo desiderio di apprendere: se la conoscenza si impone a lui, tanto meglio, ma mettersi alla sua ricerca, magari per leggere secondo un sistema, o per diventare uno specialista e un’autorità in materia, ha forti possibilità di uccidere quella che a noi piace considerare la più nobile passione per la lettura pura e disinteressata.
Detto questo, possiamo facilmente tracciare un ritratto benevolo del topo di biblioteca, senza trattenerci dal ridere un po’ alle sue spalle. Proviamo a immaginare una figura pallida e delicata in vestaglia, persa in rimuginazioni, incapace di alzare un bollitore dal fuoco o di rivolgersi a una signora senza arrossire; uno che non sa le notizie del giorno, per quanto sia informatissimo sui cataloghi delle librerie dell’usato nei cui oscuri paraggi trascorre le ore in cui il sole è alto; è indubbiamente un tipo gradevole, nella sua burbera semplicità, ma per nulla somigliante all’altro, al quale vogliamo rivolgere la nostra attenzione. Perché il vero lettore è giovane nella sua essenza. E’ una persona di intensa curiosità, piena di idee, aperta e comunicativa, per la quale leggere ha più il carattere di un esercizio vigoroso all’aria aperta che non quello di uno studio al chiuso; egli va avanti per la sua strada, si arrampica sempre più in alto, su per le colline, fin che l’aria non diventa troppo sottile anche solo da respirare; leggere, per lui, non è affatto una ricerca da svolgere a tavolino.
Ma, lasciando da parte le definizioni generali, non dovrebbe essere difficile provare con un insieme di fatti che la grande stagione della lettura è quella che va dai 18 ai 24 anni. Anche solo la lista di quello che si legge gonfia di prostrazione il cuore dei più adulti. Non solo per aver letto tanti libri, ma per avere letto proprio quelli.




Come dobbiamo leggere un libro?

(Saggio apparso sulla Yale Review n. di ottobre1926, poi in The Second Common Reader, ed. it. in. Woolf V., "Saggi, prose e racconti", Milano Mondadori, 1998)

In primo luogo, voglio mettere in rilievo l’interrogativo alla fine del mio titolo. Anche se io potessi rispondere alla domanda, per quanto mi riguarda, questa risposta servirebbe soltanto a me, e non a voi. Infatti il solo consiglio che si può dare sulla lettura è quello di non seguire nessun consiglio, bensì il proprio istinto; fare uso della propria ragione, trarre le proprie conclusioni. Se siamo d’accordo su questo, allora mi sentirò più libera di esprimere qualche idea e suggerimento, sapendo che non nuoceranno a quell’indipendenza che è la qualità più importante del lettore. Dopo tutto, chi può stabilire delle leggi sui libri? Non c’è dubbio che la battaglia di Waterloo ebbe luogo in un dato giorno; ma si può dire che Amleto sia migliore di Re Lear? Nessuno potrebbe dirlo. Ciascuno deve deciderlo da sé. Riconoscere un’autorità, per quanto grave sia il suo aspetto, sulla nostra biblioteca; lasciarci dire come leggere, che cosa leggere, che valore assegnare a ciò che leggiamo, sarebbe distruggere quello spirito di libertà che è l’essenza di simili santuari. In qualunque altro luogo possiamo essere soggetti a leggi e a convenzioni; ma lì non ce ne sono.
Se mi perdonate tuttavia questo luogo comune, dirò che per godere la libertà bisogna sapere controllarsi. Non dobbiamo scialacquare le nostre forze, disorientati e ignoranti; spruzzare dell’acqua per tutta la casa quando vogliamo innaffiare una sola rosa; dobbiamo piuttosto impiegare quelle forze accuratamente e vigorosamente, nel punto esatto. Questa è forse una delle prime difficoltà in cui ci imbattiamo non appena entrati in una biblioteca. Qual è il “punto esatto”? A prima vista c’è soltanto una confusione, una folla, un mucchio disordinato di libri. Poesie e romanzi, libri di storia e di memorie, vocabolari e diari; libri scritti in tutte le lingue, da uomini e donne di ogni carattere, razza, età, si ammucchiano negli scaffali. E fuori l’asino raglia, le donne chiacchierano presso la fontana, i puledri galoppano per i campi. Da dove cominciare? Come possiamo far ordine in questo affollato caos, per poter trarre da ciò che leggiamo il piacere più profondo e più ampio possibile?
Sarebbe abbastanza semplice dire che poiché i libri si dividono in categorie – romanzi, biografia, poesia – dobbiamo separarli, e prendere di ciascuna categoria ciò che essa può darci. Eppure sono poche le persone che chiedono ai libri ciò che essi ci possono dare. Di solito ci avviciniamo ai libri con confuse e contraddittorie intenzioni; chiediamo al romanzo di essere vero, alla poesia di essere falsa, alla biografia di essere lusinghiera, alla storia di difendere i nostri pregiudizi. Abolire tutti questi preconcetti quando leggiamo, quello sarebbe un ammirevole inizio. Non date ordini al vostro scrittore; cercate di diventare lui stesso. Siate il suo compagno di lavoro e il suo complice.. Se conservate il distacco, e fate le obiezioni e le critiche prima di leggerlo, non siete più in grado di trarre tutto il profitto possibile di ciò che leggete. Ma se aprite al massimo la vostra mente, certi segni e accenni di una sottigliezza quasi impercettibile, fin dalla struttura e dal giro delle prime frasi, vi metteranno in contatto con un essere umano diverso da tutti gli altri. Immergetevi in questa diversità, cercate di conoscerla meglio, e presto scoprirete che il vostro scrittore vi dà, o cerca di darvi, qualcosa di assai più definito. I trentadue capitoli di un romanzo – se consideriamo prima di tutto come dobbiamo leggere un romanzo – sono un tentativo di creare qualcosa di meno congegnata e controllata di un edificio: ma le parole sono più tangibili dei mattoni; leggere è un processo più lungo e complicato di quello di guardare. Forse la maniera più sbrigativa di riuscire a capire gli elementi di ciò che un romanziere fa o vuol fare è, non appunto leggere, bensì scrivere; sperimentare personalmente i pericoli e le difficoltà delle parole. Ricordate dunque qualche evento che vi abbia lasciato una chiara impressione: forse due persone che parlavano all’angolo della strada. Un albero si scuoteva; un lampione elettrico ballava; il tono della conversazione era comico, ma anche tragico; tutta una visione, una intera concezione, sembra racchiudersi in quel momento.
Ma quando cercate di ricostruirlo con parole, scoprite che si spezza in mille impressioni contraddittorie. Alcune devono essere messe a tacere, altre in risalto; e in questo processo è probabile che l’emozione stessa sfugga completamente al vostro controllo.