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Viaggio elettorale (1875) - Francesco De Sanctis



giovedì 16 marzo 2006 legge Federico Enriques
Federico Enriques è candidato per il Centro Sinistra alle prossime elezioni. E’ un lettore, innanzi tutto – oltre che l’editore Zanichelli in persona, e amico dell’Elefante. Alla Bottega è già stato ospite, negli scorsi anni – anche nelle letture all’Ipercoop, insieme alle centinaia di lettori.
Gli abbiamo chiesto di farsi un po’ di propaganda elettorale. Enriques ci ha risposto nel modo più discreto e signorile possibile: proponendo di leggere brani del “Viaggio elettorale” di Francesco De Sanctis, di 130 anni fa.
Una lettura “inattuale”, che in realtà è un libretto magistrale. Così può sembrare “inattuale”, per un candidato di oggi, esprimersi personalmente in una campagna dove il proporzionale non consente di scegliere. Eppure, anche in questo caso, si tratta di un’altra lezione di stile. La motivazione di Enriques è sobria:
“Ci sono tanti libri che si conoscono, ma non si riesce mai a leggerli. Come ci sono tanti luoghi, anche vicini, che non si riescono mai a visitare. La nostra vita è piena di gite al faro non fatte.
Il "viaggio elettorale" di Francesco De Sanctis - resoconto di una breve campagna supplettiva nel gennaio del 1875 - era per me uno di questi: avevo contratto, nei suoi confronti, un debito di lettura in occasione di un viaggio di lavoro a Calitri, profonda provincia di Avellino.
Adesso, candidato al Senato a queste elezioni, ho colto l'occasione.  Tecniche elettorali diverse: allora un uninominale spinto, adesso un proporzionale senza spazio per i candidati. Luoghi e movimenti diversi: allora si andava a cavallo - i contadini a piedi. Ora ci si muove in auto, ma in città la velocità non è cambiata. Soprattutto non sono cambiate né le astuzie della politica né le meschinità degli uomini (le donne non votavano)”.


Brani scelti dal libro di Francesco De Sanctis, Memorie, G.B. Petrini, Torino 1958
(Esiste anche un’edizione del Viaggio elettorale a cura di Gilberto Finzi, Garzanti, Milano 1999, “I grandi libri”)



Pag.54

Volevo risponderti subito; ma era tempo di elezioni, e posi la tua lettera da parte, e dissi: risponderò dopo. E questo dopo è venuto molto tardi per me; le elezioni erano finite; ma la mia elezione continuava. Vidi contestata lamia elezione nel collegio nativo: gittai un occhio fuggitivo su’ verbali e fiutai molte brutture; avevo caro che la Camera annullasse l’elezione perché mi spiaceva dire al mio collegio naturale: rimango deputato di Sansevero. Mi si parlò di un’inchiesta, ed io dissi: No. Questo povero Collegio ha già subite diverse vergogne: ha perfino subito un’inchiesta giudiziaria, risparmiamogli questa nuova vergogna. La Giunta decretò la rinnovazione del ballottaggio; ed io fui lieto, e dissi: ora vado io là. Parecchi di qui paesi non avevo visto da quaranta anni: altri non avevo visto mai; in alcuni ero passato come corriere; non vi avevo lasciato alcun vestigio di me. Gli elettori dicevano: perché De Sanctis non viene? perché non scrive? egli ci disprezza: e permette che il suo nome diventi coperchio di altri nomi e di altri interessi. Ed io dissi: andrò io là, voglio vedere da presso cosa sono questi elettori, e che specie di lavoro vi si è fatto, e se equivoco c’è, voglio togliere io l’equivoco. E per la prima volta ho fatto un viaggio elettorale. Tornai ieri ancora commosso. Nella mente mi si svolgeva tutta una storia pregna di grandi dolori e di grandi gioie, ricca di osservazioni interessanti, avevo imparato più in quei paeselli che in molti libri. E dissi: questo non è più storia mia, è storia di tutti, ci si impara tante cose. È il mondo studiato dal vero e dal vivo e studiato da uno, che sotto i capelli bianchi serba il core giovine e intatto e il senso morale e potente la virtù dell’indignazione. Ecco materia viva di una commedia elettorale. E non ne conosco nessuna ancora.


Pp.59-60

Fu spedito un corriere a Rocchetta di Sant’Antonio, la porta del mio collegio da quel lato. Doveva annunziare il mio arrivo, e consegnare una mia lettera al sindaco.
Chi fosse il sindaco, non sapevo. Ma, conoscendo le piccole gelosie de’ paesi è stato sempre mio costume indirizzarmi ai sindaci, come quelli che rappresentano tutta la cittadinanza.
Scriveva al sindaco:
<>.
Alcuni non credettero vera la lettera. Nelle lotte elettorali tra gli altri bei costumi ci è falsar telegrammi e lettere. È proprio sua questa lettera? E mentre disputavano fu annunziata la mia carrozza. Allora si posero a cavallo tutti, e mi vennero incontro.
Alla voltata mi fu mostrato quello spettacolo. Gridavano: Viva! Mi salutavano con le mani, impazienti di stringer la mia. E la faccia mi raggiò, come se l’anima fosse scesa lì.
Fra molta folla giunsi alla casa comunale, e mi feci presentare gli elettori ad uno a uno. Strinsi la mano a parecchi, e tra gli altri Ippolito e Piccoli, che passavano per miei avversarii.
Poi dissi così:
Saluto con viva commozione Rocchetta, la porta del mio collegio nativo. Il luogo dove son nato è Morra Irpino; ma la mia patria politica si stende da Rocchetta insino ad Aquilonia.io vengo a rivendicare la patria mia. Dopo un oblio di quattordici anni, voi miei concittadini, travagliati da lungo ed ostinato lavoro di parecchi candidati, avete all’ultima ora improvvisata la mia candidatura, ed avete intorno al mio nome inalberata la bandiera della moralità. Siate benedetti! E possa questa bandiera esser principio di vita nuova! Voi mi avete dato una maggioranza notevole. Eppure quell’elezione gettò il lutto nell’anima mia. Io vi avevo telegrafato. <>. La domenica venne , la vittoria ci fu, e mi parve una sconfitta, non mi sapevo dar ragione di tanto accanimento nella lotta, e del gran numero di voti contrarii, e di certe proteste vergognose, che gittavano disonore su questo sfortunato collegio. E in verità vi dico, che se quell’elezione fosse stata convalidata, con core sanguinante, ma deciso, vi avrei abbandonato. Ma benedissi quelle proteste che indussero Giunta e Camera a decretare la rinnovazione del ballottaggio. Era in questione l’onore mio, l’onore dei miei elettori. Ed io dissi: finora sono stato in Napoli spettatore quasi indifferente di quella lotta. Non debbo io fare qualche cosa per questi elettori? Non mi conoscono, sono involti in una rete di menzogne e di equivoci. Io ho pure il debito d’illuminarli, di dire la verità, di togliere ogni scusa agli uomini di mala fede. Ed eccomi qui in mezzo a voi, miei cari concittadini. Ed ecco la verità. Il Collegio è diviso in due parti che lottano accanitamente, comuni contro comuni, cittadini contro cittadini ed io non sono qui che il prestanome delle vostre collere e delle vostre divisioni. È così che volete rendere la patria a Francesco De Sanctis? No, io non potrei mai essere deputato di un partito per schiacciare un altro partito; non posso essere lo scudo degli uni e il flagello degli altri; io voglio essere il deputato di tutti voi, voglio lasciare nella mia patria una memoria benedetta da tutti. Mi volete davvero? Volete che io passi gli ultimi miei anni in mezzo a voi? Stringete le destre, sia il mio nome simbolo delle vostra unione. Ed io sarò vostro per tutta la vita.
La commozione fu grande. Vidi alcuni piangere; altri, avversari ieri, amici oggi, stringersi le mani. Tutti applaudivano. Ed soggiunsi:
-Signor sindaco, ho pranzato a Candela, voi ci farete una cenetta, e voglio fare io il padrone di casa, voglio invitare i signori Ippolito e Piccoli. Mangeremo lo stesso pane, berremo lo stesso vino, faremo un brindisi a Rocchetta unita e prospera.
Benissimo! Benissimo! Tutti batterono le mani. Rocchetta non dimenticherà più quel giorno.
Prese allora la parola l’arciprete Piccoli. Giovine e asciutto di viso, occhi vivi, aveva nella fisionomia una cert’aria di finezza che non ti affida interamente. Rotto agli affari, uso a destreggiarsi, mescolando in lotte locali, rimpicciolito in quel paesello,mi parve che in teatro più vasto sarebbe riuscito un buon diplomatico. Mi disse molte gentilezze, con certi giri di frasi, che volevano dire: vedi, anch’io ho fatto i miei studii.

Pp. 120-121

Il dì appresso, avutasi notizia della vittoria con novantasette voti di maggioranza, fu festa in tutto il collegio.
Si sparò in Andretta e Cairano, si sparò a Lacedonia e Teora, si sparò a Monteverde, e vi rispondevano gli spari de’ pochi amici di Aquilonia. Dove la lotta era stata più viva, la gioia era più impetuosa.
Festa in tutto il collegio, fuori che in Morra. Lutto era nell’anima mia, e lutto era in Morra.
Nel primo ballottaggio avevo avuto in più settantasette voti. Ora erano novantasette. La mia presenza, il mio viaggio valeva dunque venti voti! Metti che il mio avversario aveva avuto più voti che l’altra volta nel mio mandamento. Io dunque mi sentivo umiliato sino in quel mandamento, dove mi promettevo l’unanimità. Aggiungi le proteste d’Andretta, e non ne potei più, traboccò la mia indignazione, e maledissi l’ora e il momentoche mi trovai in questo ballo.
Che gente è questa, dicevo, che non intende cortesie e non convenienza e non sincerità, e spinge la lotta a un punto, dove tutto ciò che in noi è umano deve arrossire? Non voglio sapere di questa gente.
Dunque, per il peccatore deve soffrire il giusto? mi dicevano attorno.
E vedevo giungere nuovi amici d’Andretta, di Cairano, di Teora, di Sant’Andrea, di Conza, mai Morra non fu così popolato. E tutti avevano sul viso quel punto interrogativo:
Dunque, per il peccatore deve soffrire il giusto?
La mia indignazione ebbe i suoi periodi, come una febbre. Giunse alla massima intensità la sera, che la casa era piena di gente. Uscii di stanza, salutai in silenzio, nessuno parlava, gli era come in un mortorio. Finalmente, prese la parola uno di quei signori di Avellino, iti a Teora, e fece un vivo racconto della lotta ivi sostenuta e della gioia che vi scoppiò in ultimo. Di tutto parlò, fuorché di sé e dei suoi amici, a cui bastò l’animo, giunti in Morra il sabato, e non ci trovando alcun conoscente, venutimi tutti incontro, di fare a piedi il cammino sino a Teora per sei lunghe miglia e per vie impossibili.
Pure ero così cieco di collera , che tutto questo non mi commosse, anzi accresceva il mio dispetto, e più parlavano e più montavo. Cosa dissi, e di che dissi, non ricordo più. L’orgoglio offeso delirava in me, i nervi mi tremavano, gli occhi scintillavano, avevo la voce dell’esaltato, l’accento appassionato ed eloquente di quella febbre interiore. Mentre, sentendomi calpestato, ponevo me sul piedistallo, ero ben piccolo.
La serata passò tristemente.

Pp.122-123

Se ci era uomo che non doveva meravigliarsi di ciò che avveniva, ero io quello, dopo tanto studio e così bei ragionamenti. Pure guaivo, e più sfacciatamente la notte, senza testimoni. Me ne rimproveravo, e guaivo e mettevo certi sospirosi, quasi che non avessi più mente, né volontà, e fossi in tutto un animale. O piuttosto la mente ci era per più cruccio, per farmi sentire la sua impotenza, fatta trastullo del corpo. Veduta vana ogni resistenza, mi ci rassegnai, pensando che l’era una malattia come un’altra, e doveva avere il suo corso. Quel cedere al fato mi pareva un atto di volontà, e non era se non prostrazione, stanchezza della malattia. Mi addormentai sopra i miei lamenti, che era già l’alba, e mi svegliai sano e lieto.
Il buon senso aveva ripreso forza, ridevo, mi burlavo, facevo la mia caricatura. Bel filosofo, in verità! Tu hai usurpato questo nome. Ieri sera, innanzi a tanta brava gente, che pure aveva fatto miracoli per te, mettere innanzi il tuo personcino, e non parlare che di te, e fare una voce flebile come un eroe di tragedia, e quelli ti pregavano, e tu più stizzoso e più retroso, e declamavi la tua sventura, come se al mondo non ci fosse che te: oh il ragazzo mal avvezzo! e che avrà detto Morra di te? E mi ricordai che, giovanotto, lo zio per farmi vergogna mi diceva spesso: che direbbe Morra di te?
Uso a studiarmi e a dire la verità, confessai che l’ironia di tutta quella ragazzata era la vanità offesa, e che il vero orgoglio consiste a fare il bene, quando pure non te ne vengano applausi. Così dopo lunghi giri tornai a quel sentimento virile, che nobilitava il mio viaggio, e poiché mi ci son posto, debbo fare atto di devozione, fare il bene del mio collegio nativo, e cercare il premio nello stesso mio atto. Risolsi di ritirarmi a Napoli per la via opposta, passando per Sant’Angiolo de’ Lombardi e Avellino, volendo giudicare da me quanta possibilità c’era di fare un po’ di bene.