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Un diario-Robert Walser, Jakob von Gunten





lunedì 11 ottobre 2010 legge Grazia Verasani
«Tutti nascono pazzi, qualcuno lo resta», fa dire Beckett a un suo personaggio. Ma se quella di Robert Walser era follia, sfortunati i sani di mente. Creatura di un altro pianeta, inetto a possedere alcun bene materiale, case, oggetti e persino i suoi stessi libri. Legato a niente e nessuno, se non alla natura, inafferrabile come quella umana, compresa la sua. Svuotato del proprio io fino a essere sfondo, maestro di abbozzi, di giocose essenzialità. «È la natura e scrittura lirica di Walser che mi hanno sempre conquistata, quel suo costante personaggio vagabondo che si fa protagonista dei suoi libri, camminatore attento e insieme svagato, dolce e insieme fermamente alle soglie della follia» (M. Corti). «Lo stile di Walser è una musica che se fosse ascoltata da centomila persone, il mondo comincerebbe a migliorare» (Hesse). Avrebbe riso, alzato le spalle, se avesse saputo, lui così refrattario alle vanità, così minimo e breve, svizzero ossuto dal sorriso ebete dei geni incompresi, che dopo la sua morte in tanti lo avrebbero letto.



Robert Walser, Jakob von Gunten. Un diario, Milano, Adelphi, 2007 [1970], pp. 11-12, 42-43, 54-57, 85-88, 90-93, 100-102.
Qui s'impara ben poco, c'è mancanza di insegnanti, e noi ragazzi dell'istituto Benjamenta non riusciremo a nulla, in altre parole, nella nostra vita futura saremo tutti qualcosa di molto piccolo e subordinato. L'insegnamento che ci viene impartito consiste sostanzialmente nell'inculcarci pazienza e ubbidienza: due qualità che promettono poco o nessun successo. Successi interiori, magari sì: ma che vantaggio potremo trarne? A chi dànno da mangiare le conquiste spirituali? A me piacerebbe esser ricco, andare in giro in carrozza e aver denaro da buttare via. Ne ho parlato a Kraus, il mio compagno di scuola, ma lui non ha risposto che con una sprezzante alzata di spalle e non mi ha degnato di una parola. Kraus ha dei princìpi, sta ben saldo in sella, a cavalcioni della sua contentezza, e questo è un cavallo su cui chi vuole andar di galoppo preferisce non salire. Da quando mi trovo qui all'Istituto Benjamenta, sono già riuscito a diventarmi enigmatico. Mi sono sentito anch'io invadere da un senso strano, finora sconosciuto, di contentezza. Sono abbastanza ubbidiente, non al punto di Kraus, che è imbattibile nel precipitarsi a eseguire zelantemente gli ordini. Sotto un solo aspetto noi scolari, Kraus, Schacht, Shilinski, Fuchs, Pietrone, io, eccetera, ci assomigliamo tutti: nel fatto di essere assolutamente poveri e in sottordine. Siamo piccoli, piccoli fino a sentirci spregevoli. Chi ha in tasca un marco da spendere, lo si guarda come un principe privilegiato. Chi, come me, fuma sigarette, desta preoccupazioni per le sue abitudini spenderecce. Andiamo vestiti in uniforme: ebbene, questa circostanza di portare un'uniforme ci umilia e nello stesso tempo ci esalta. Abbiamo l'aspetto di uomini non liberi, e ciò può essere una mortificazione; ma abbiamo anche un aspetto elegante, il che ci preserva dalla profonda vergogna di coloro che se ne vanno attorno in abbigliamenti personalissimi, ma strappati e sudici. A me, per esempio, il vestire l'uniforme riesce assai piacevole, dato che sono stato sempre incerto su come vestirmi. Ma anche questo mio aspetto mi riesce per ora enigmatico. Forse in fondo a me c'è un essere estremamente volgare. O forse, invece, ho sangue azzurro nelle vene. Ma una cosa so di certo: nella mia vita futura sarò un magnifico zero, rotondo come una palla. Da vecchio sarò costretto a servire giovani tangheri presuntuosi e maleducati, oppure farò il mendicante, oppure andrò in malora.
[...]
Spesso vado fuori, per la strada, e lì mi sembra di vivere in una favola che ha del tumultuoso. Quanto spingere di folla, che strepito, che fracasso. Quanto gridare, scalpicciare, sussurrare, ronzare. E tutto ammucchiato in un tal groppo! Rasente alle ruote dei veicoli camminano bimbi, ragazze, uomini, donne ben vestite; nella folla si scorgono vecchi, storpi, gente con la testa fasciata. E sempre nuove schiere di persone, di vetture. Le carrozze del tram elettrico sembrano scatole piene zeppe di figure. Gli omnibus passano arrancando come grossi goffi scarafaggi. Ci sono poi delle vetture che si direbbero delle torri panoramiche ambulanti. Sui sedili in alto sta seduta gente che passa sopra la testa di tutto ciò che cammina, salta o corre in basso. Nuove folle si aprono un varco tra quelle presenti: si va, si viene, si appare e si scompare, tutto in un momento. Cavalli scalpitano, meravigliosi cappelli ornati di piume adocchiano da carrozze padronali scoperte che corrono via veloci. L'intera Europa manda qui i suoi esemplari d'umanità. La distinzione cammina a fianco con la bassezza e la cattiveria, la gente va non si sa dove e poi torna indietro, ed è tutt'altra gente, e da dove venga non si sa. Uno pensa di poterlo un po' indovinare, e si rallegra della fatica che gli costerà il decifrarlo. E al disopra di ogni cosa risplende il sole. Fa luccicare il naso di uno, la punta dei piedi di un altro. Dagli orli delle gonne fanno capolino, scintillanti e conturbanti, i merletti. Nelle carrozze, in grembo a vecchie signore distinte, vanno a spasso i cagnolini. Tutt'attorno vi esplodono seni, seni femminili compressi in vesti, in corsetti. E poi sono di nuovo gli stupidi sigari, nelle tante spaccature di bocche maschili. E s'immaginano strade impreviste, invisibili nuovi paraggi, ugualmente brulicanti di gente. Tra le sei e le otto di sera è il momento in cui il brulichio  si fa più grazioso e più fitto. È l'ora della passeggiata della migliore società. Che cosa si è, realmente, dentro questa fiumana, dentro questa corrente variopinta di uomini, che non conosce fine? A volte tutti questi visi in movimento sfumano in un bagliore rossiccio, colorati dai fuochi del sole del tramonto. E quando il sole è grigio e piove? Allora tutte queste figure, e io con loro, camminano veloci, come figure di sogno, sotto la volta scura, in cerca di qualcosa e, si direbbe, senza mai trovar nulla di bello e di giusto. Ciascuno cerca qualcosa, qui, ciascuno sogna ricchezze e fortune favolose. Si va in fretta. No, si dominano, ma la fretta, il desiderio, il tormento e l'inquietudine risplendono sfavillanti negli occhi cupidi. Poi è di nuovo tutto un immergersi nel caldo sole di mezzogiorno. Tutto sembra addormentato, anche le carrozze, i cavalli, le ruote, i rumori. E la gente guarda come se non capisse. Le case, alte che sembran crollare, si direbbe che sognino. Ragazze passano rapide, molti portano pacchi. Verrebbe voglia di gettarsi al collo di qualcuno. Arrivo all'istituto, e Kraus è lì seduto e mi canzona. Io gli dico che sarebbe ben giusto conoscere un po' il mondo. «Conoscere il mondo?» fa lui, come assorto in profondi pensieri. E sorride con aria di disprezzo.
[...]
Ho venduto il mio orologio per potermi comprare del tabacco da sigarette. Senza orologio posso vivere, senza tabacco no: scandaloso, ma non c'è rimedio. Bisogna che in qualche modo riesca a trovare un po' di soldi, altrimenti tra poco non avrò più biancheria pulita. Avere dei colletti puliti è per me una necessità. La felicità di un uomo non dipende da cose di questo genere, eppure ne dipende. Felicità? No, ma bisogna essere in ordine. La pulizia è già di per sé una felicità. Sto parlando a vanvera. Come odio tutti questi termini calzanti. Oggi la signorina ha pianto. Tutt'a un tratto, nel bel mezzo della lezione, le sono sgorgate le lagrime dagli occhi. È un fatto che mi commuove stranamente. Ad ogni modo, voglio tener gli occhi ben aperti. Per me è un divertimento stare in ascolto di qualcosa che non si vuol far sentire. Sto attento, e così la vita diventa bella, perché se non si è costretti a stare attenti, si può dire che non ci sia neanche vita. È chiaro: la signorina Benjamenta ha qualche dispiacere, e deve trattarsi di un dispiacere grave, dato che la nostra maestra, di solito, sa dominarsi assai bene. Ho bisogno di soldi. D'altronde, adesso ho scritto il mio curriculum. Eccolo:
Curriculum
Il sottoscritto Jakob von Gunten, figlio di bennati genitori, nato il giorno tale, cresciuto nel tale e tal luogo, è entrato come allievo nell'Istituto Benjamenta per impadronirsi delle poche nozioni necessarie ad essere assunto in un servizio qualsiasi. Il medesimo non nutre alcuna speranza nei confronti della vita. Si augura di essere trattato con severità, così da poter apprendere che cosa significa dover fare appello a tutte le proprie forze. Jakob von Gunten non fa grandi promesse, ma si propone di condursi in maniera lodevole e retta. I von Gunten sono un'antica schiatta. Nei tempi andati essi furono guerrieri, ma, calmatasi la smania bellicosa, oggi sono alti consiglieri e commercianti; e l'ultimo rampollo della casata, oggetto del presente rapporto, ha deciso di ripudiare apertamente ogni tradizione di fierezza. Egli vuole che sia la vita a educarlo, non già dei princìpi ereditari o comunque aristocratici. Senza dubbio è orgoglioso, poiché gli è impossibile rinnegare la sua innata natura, ma ha dell'orgoglio un concetto interamente nuovo, rispondente in certo senso all'epoca in cui vive. Spera di essere moderno e, almeno in parte, adatto a render servizio e di non apparire totalmente sciocco e disutile, ma è una bugia, non lo spera soltanto, lo afferma e lo sa. Il suo umore è caparbio, in lui si agitano ancora un po' gli spiriti indomiti dei suoi antenati; ma egli chiede di essere rimproverato se dà prova di caparbietà, e se ciò non servisse, di essere punito, poiché crede che allora servirà. Comunque, si dovrà ben sapere come trattarlo. Il sottoscritto ritiene di potersi tirar d'impaccio in ogni occasione, e gli è indifferente che cosa gli sarà ordinato di fare; è fermamente convinto che ogni lavoro eseguito con diligenza sarà per lui un maggior onore che non il restarsene seduto, ozioso e pavido, accanto alla stufa di casa. Un von Gunten non sta seduto accanto alla stufa. Se gli avi del qui rispettosamente sottoscritto hanno cinto la spada cavalleresca, il loro discendente non fa che attenersi alla tradizione allorché ardentissimamente brama di rendersi utile in qualche modo. La sua modestia non ha limiti, una volta che si stimoli il suo valore, e il suo zelo nel servire uguaglia la sua ambizione, che gli comanda di disprezzare l'ingombrante e pernicioso senso dell'onore. Il ripetuto sottoscritto ha picchiato a tutto spiano il rispettabile dottor Merz, suo insegnante privato di storia, commettendo una scelleratezza di cui si duole. Oggi è suo desiderio di poter infrangere l'orgoglio e l'albagia forse ancora non del tutto spenti in lui, contro l'incrollabile scoglio di un duro lavoro. È parco di parole e non riferirà mai le confidenze che gli vengono fatte. Non crede né al regno dei cieli né all'inferno. La soddisfazione di chi lo assumerà sarà per lui il paradiso, il suo triste contrario l'inferno distruttore; ma egli è certo che si sarà contenti di lui e delle sue prestazioni. Tale ferma certezza gli dà il coraggio di essere quello che è.
                                                                       Jakob von Gunten
Ho consegnato il curriculum al signor direttore. Lo ha letto da capo a fondo, direi anche due volte, e sembra che gli sia piaciuto, perché sulle sue labbra è apparso come il guizzo di un sorriso. Oh, di certo l'ho ben osservato, il mio uomo! Ha sorriso leggermente: questo è un dato di fatto. Dunque, finalmente, un segno di qualcosa di umano. Però, che capriole bisogna fare per ottenere un sia pur fuggevolissimo moto di simpatia da parte di persone a cui si sarebbe pronti a baciar le mani! Apposta, apposta ho scritto la storia della mia vita in modo così arrogante: «To', leggi. Come? Non ti vien voglia di sbattermelo in faccia?». Questi erano i miei pensieri. E lui ha sorriso così astutamente, così finemente, quell'astuto e fine signor direttore, quell'uomo che purtroppo, purtroppo, venero sopra ogni cosa. E io me ne sono accorto. È una scaramuccia d'avanguardia vinta. Oggi devo assolutamente commettere qualche altra mancanza; morirei di gioia, altrimenti, morirei dal ridere. Ma la signorina direttrice piange? Come mai? Perché mi sento così stranamente felice? Sono ammattito?
[...]
Ora capisco anche perché Kraus non possiede alcun dono esteriore, nessuna attrattiva fisica, perché la natura lo ha così compresso e sfigurato a guisa di nano. Essa vuole qualcosa, si propone di ricavare qualcosa da lui, oppure se lo è proposto fin dall'inizio. Questo essere, forse, per lei era troppo puro: perciò l'ha gettato in un corpo poco appariscente, meschino, laido, per preservarlo dal danno dei successi esterni. Forse, invece, non è stato affatto così, e la natura è stata irosa, cattiva, nel momento in cui creò Kraus. Ma come deve rincrescerle adesso di averlo trattato da matrigna! E, chissà, può magari darsi che invece si rallegri del capolavoro sgradevole che ha generato, e realmente avrebbe motivo di rallegrarsene, perché questo sgraziato Kraus è più bello di tutti i più belli e aggraziati uomini. Non emana da lui lo splendore dei doni fisici, ma quello di un cuore buono e incorrotto, e i suoi modi ruvidi e schietti, nonostante la legnosità che li distingue, sono quanto di più bello la società può offrire in fatto di gesti e di movenze. No, Kraus non avrà mai successo, né tra le donne, che lo trovano arido e brutto, né in genere nella vita mondana, che gli passerà accanto senza badargli. Senza badargli? Sì, a Kraus nessuno baderà mai, e proprio quest'esistenza priva di ogni considerazione che egli condurrà in futuro costituisce il segno mirabile di un progetto che reca l'impronta del Creatore. Col dare al mondo un Kraus, Dio pone il mondo in certo senso dinanzi a un enigma oscuro, insolubile. Un enigma che non sarà mai penetrato, perché, vedi caso, non c'è nessuno che si preoccupi di risolverlo; e proprio per questo enigma Kraus è così stupendo e profondo: perché la sua soluzione non attira nessuno, perché non ci sarà neppure un uomo sulla terra che possa supporre l'esistenza, dietro a codesto Kraus anonimo e insignificante, di una qualunque missione, di un qualunque enigma, di un senso più squisito. Kraus è un'autentica opera divina, un nulla, un servo. Tutti lo giudicheranno incolto, buono appena appena per i lavori più faticosi, e, strano a dirsi, non sarà un giudizio sbagliato, ma anzi perfettamente giusto, perché è la verità: Kraus, la modestia personificata, la corona, la reggia dell'umiltà, vuole precisamente eseguire dei lavori meschini; lo può e lo vuole. Non ha altro pensiero che aiutare, ubbidire, servire, e ognuno se ne accorgerà subito e lo sfrutterà, e in questo sfruttarlo c'è una tal luce di aurea, divina giustizia, risplendente di bontà e di chiarore! Sì, Kraus è un'immagine d'individualità retta, perfettamente monocorde, monosillabica, univoca. Nessuno potrà disconoscere la sua schiettezza, e per questo motivo nessuno lo considererà, ed egli non conoscerà alcun successo. Fantastico, fantastico, tre volte fantastico! Oh, ciò che Dio crea è talmente ricco di grazie, ricco di fascino, talmente carico di incanti e pensieri! Si troverà che sto dicendo delle stravaganze. Ebbene, lo confesso, siamo ancora molto lontani dal massimo della stravaganza. No, né successi né gloria né amori arrideranno mai a Kraus: benissimo, perché i successi hanno come unica, inseparabile compagnia il disordine e qualche ideuzza generale di poco conto. Lo si nota subito: chiunque abbia da far mostra dei suoi successi e riconoscimenti, lo si vede quasi ingrassare, nutrirsi di compiacimento, gonfiarsi per la forza della vanità fino a diventare un pallone irriconoscibile. Dio preservi la brava gente dagli applausi della massa! Anche se non diventano cattivi, perdono la testa e s'infiacchiscono. La gratitudine, sì: quella è tutt'altra cosa. Ma un Kraus non sarà mai neppur ringraziato, e neanche questo è affatto necessario. Ogni dieci anni forse avverrà che qualcuno gli dica: «Grazie, Kraus», e lui farà un sorriso sciocco, atrocemente sciocco. Alla dissolutezza il mio Kraus non ci arriverà mai, perché troverà sempre ostacolo in grandi, aspre difficoltà. Credo di essere io, io, uno dei pochissimi, forse l'unico, o al massimo si tratta di due o tre persone che sapranno ciò che possiedono o hanno posseduto in Kraus. La signorina, quella sì lo sa. Forse anche il signor direttore. Sì, di certo. Il signor Benjamenta è certo abbastanza perspicace per poter apprezzare il valore di Kraus. Oggi bisogna che smetta di scrivere. Mi eccita troppo, mi scombussola. E le lettere mi fiammeggiano e mi ballano davanti agli occhi.
[...]
Giorni fa ho chiesto a Kraus se anche a lui non capiti ogni tanto di risentire qualcosa di simile alla noia. Mi ha guardato con aria di netta riprovazione, ha riflettuto un poco e poi ha detto: «Noia? Non mi sembri molto sveglio, Jakob. E lascia che ti dica che fai delle domande non solo ingenue, ma anche scandalose. Chi può annoiarsi al mondo? Tu, forse. Io no, te lo assicuro. Vedi? Sto studiando il libro a memoria. Ebbene? Ho forse il tempo di annoiarmi? Che domande idiote! Gli aristocratici si annoiano forse, Kraus no; e tu ti annoi, altrimenti non ti passerebbe pel capo quest'idea e non verresti a pormi una simile domanda. Una certa attività la si può avere sempre, rivolta se non all'esterno, almeno all'interno; si può borbottare, Jakob, e di sicuro hai già avuto voglia parecchie volte di canzonarmi perché borbotto; ma dimmi, lo sai che cosa borbotto? Parole, caro Jakob. Io borbotto e ripeto sempre delle parole. E questo mi fa bene, credimi. Girami al largo con la tua noia! La noia la provano quelli che stanno sempre in attesa di qualcosa che venga dall'esterno a stimolarli. Dove c'è cattivo umore, dove si fantastica a vuoto, lì c'è la noia. Vattene, non seccarmi, lasciami studiare, trovati un'occupazione qualunque. Affaticati in qualche modo, e vedrai che non ti annoi più. E, ti prego, evita per l'avvenire queste domande che sconcertano, queste domande sciocche, sciocchissime». Io gli chiesi: «Hai finito, Kraus?» e scoppiai a ridere, ma lui mi degnò solo di un'occhiata compassionevole. No, Kraus non può mai, assolutamente mai annoiarsi: lo sapevo già a sufficienza, solo ho voluto ancora una volta punzecchiarlo. Non è stato bello da parte mia: proprio un'azione priva di senso. Decisamente, devo correggermi. Niente di peggio che questo volermi sempre burlare di Kraus per farlo andare in collera. Ma ci trovo un tal gusto! I suoi rimproveri hanno un che di allegro, le sue prediche fanno talmente pensare al patriarca Abramo!
Che terribile sogno ho fatto qualche giorno fa. Ero diventato un uomo tremendamente cattivo, per quale ragione poi non riuscivo a spiegarmelo. Dalla radice dei capelli alla punta dei piedi ero una specie di bruto, un pezzo di carne umana infagottato, goffo, feroce. Ero grasso, e a quanto pareva tutto mi andava a gonfie vele. Anelli luccicavano alle dita delle mie mani informi; avevo un pancione da cui penzolava sciattamente mezzo quintale di tronfia albagia. Sapevo per certo che potevo comandare e dar la stura ai miei capricci. Accanto a me, su una tavola riccamente imbandita, erano in mostra gli oggetti di un'insaziabile voracità e arsura, bottiglie di vino, di liquori, vivande fredde tra le più prelibate. Non avevo che da stendere la mano, e infatti la stendevo di quando in quando. Sui coltelli e sulle forchette erano rapprese le lagrime di nemici giustiziati, e il tintinnare dei bicchieri si accompagnava al singhiozzo di molti poveretti, ma le tracce di lagrime non mi movevano che al riso e i singhiozzi disperati mi facevano l'effetto di una musica. Mi era necessaria una musica conviviale e l'avevo. Apparentemente ero riuscito a fare eccellenti affari a spese del benessere altrui, e ciò mi rallegrava fin nel profondo delle viscere. Oh, come gioivo al pensiero di aver fatto mancare il terreno sotto i piedi a qualcuno dei miei simili! E io afferrai un campanello e suonai. Entrò un vecchio, scusate, volevo dire strisciò dentro un vecchio: era la saggezza della vita, e si avvicinò carponi ai miei stivali per baciarli. E io permisi a quell'essere avvilito una tale azione. Pensate: questo principio nobile ed egregio fra tutti, l'esperienza, veniva a leccarmi i piedi. È questo che io chiamo ricchezza. E poiché così mi piaceva, suonai di nuovo, spinto da non so più qual prurito di maliziosi diversivi, ed ecco apparire una tenera fanciulletta, un vero bocconcino per uno scostumato della mia fatta. Candore infantile, tale era il suo nome, sogguardando furtivamente la frusta posata accanto a me, cominciò a darmi dei baci che mi ringalluzzivano in misura incredibile. Paura e precoce depravazione trasparivano dai suoi begli occhi di cerbiatta. Quando ne ebbi abbastanza, suonai di nuovo e comparve un bel giovanotto snello ma povero: la serietà della vita. Era uno dei miei lacchè: aggrottando la fronte gli ordinai di farmi entrare quel coso, come diavolo si chiamava, ma sì, la voglia di lavorare. Di lì a poco entrò lo zelo e io mi presi il gusto di assestare a quell'uomo integro, a quel lavoratore dalla magnifica corporatura, una frustata schioccante nel bel mezzo del viso in placida attesa, e giù a ridere a crepapelle; e lui, il fervore stesso, la titanica energia creatrice, lo sopportava di buon grado. Poi invece, con un pigro cenno di magnanimità, lo convitai a un bicchier di vino, e quel povero idiota tracannò il nappo della vergogna. «Va', datti da fare per me» gli dissi, e lui se ne andò. Entrò allora piangendo la virtù, in sembiante femmineo di tale bellezza da sopraffare qualsiasi cuore non del tutto raggelato. Me la presi sulle ginocchia e mi buttai a fare follie con lei. Dopo che l'ebbi depredata del suo tesoro ineffabile, l'ideale, la scacciai con scherno, ed ecco, a un mio fischio, apparire Dio in persona. «Come, anche tu?» gridai, e mi destai grondante di sudore: ma come ero felice che si trattasse solo di un brutto sogno! Dio mio, ancora posso sperare di diventare un giorno qualcosa. Ma davvero, nel sogno tutto sfiora il limite della follia. Che occhi farebbe Kraus, se glielo raccontassi.
[...]
Ancora non ho trovato un posto. Il signor Benjamenta mi dice che si dà d'attorno per cercarmelo. Lo dice in tono brusco di comando, e aggiunge: «Che hai? Sei impaziente? C'è tempo per tutto, aspetta!». Di Kraus si dice tra gli allievi che presto lascerà. Lasciare: buffa, quest'espressione di gergo. Davvero Kraus andrà via? Speriamo che si tratti solo di voci infondate, di storie sensazionali da collegio. Anche tra noi allievi regna qualcosa di simile al pettegolismo dei giornali, l'uso di arraffare notizie dal puro nulla. I mondi, me ne accorgo, sono uguali dappertutto. A proposito, sono tornato a trovare mio fratello Johann, e questi ha avuto l'ardire di portarmi in società. Ho pranzato al tavolo di gente ricca, e non dimenticherò mai come mi sono comportato. Indossavo una marsina usata ma pur sempre imponente; le marsine dànno un'aria di persona anziana e importante. Mi sono atteggiato alla maniera di chi disponga di almeno ventimila marchi di rendita annua. Ho parlato con persone che mi avrebbero voltato le spalle se avessero avuto un'idea del mio vero essere. Delle signore che mi disprezzerebbero totalmente se dicessi loro che sono uno scolaro, mi hanno sorriso e, direi quasi, ammiccato in modo incoraggiante. E ho trovato sbalorditivo il mio appetito. Con quanta facilità ci si serve alle ricche mense di estranei! Vedevo quel che facevano gli altri e facevo bravamente lo stesso. Che brutto. Davvero, quasi mi vergogno di aver mostrato lì, proprio tra quella gente, una faccia esultante di mangione e di beone. Raffinatezza di modi ne ho notata poca. Ho notato invece che mi si giudicava un giovanetto timido, mentre io (ai miei occhi) scoppiavo di sfacciataggine. Johann si comporta bene in società. Ha quella piacevole leggerezza di tratto tipica dell'uomo che vale e sa di valere. Il suo contegno è un diletto per gli occhi che lo osservano. Sto parlando troppo bene di Johann? Oh no. Non sono affatto innamorato di mio fratello, ma mi sforzo di vederlo, di vederlo intero, non a metà. Forse è proprio amore, questo. Niente in contrario. Andammo anche a teatro e fu bellissimo, ma su ciò non voglio diffondermi. Dopo mi sono sfilato quel bell'abito. Oh, è carino andarsene a ronzare in giro nelle vesti di una persona altolocata! Sì, ronzare in giro: proprio così. Si va intorno pigolando e frullando in quei circoli di gente cólta. Alla fine mi sono rimpiattato nell'istituto e ho rimesso il mio vestito di allievo. Sto bene qui, lo sento, ed è probabile che in seguito, quando sarò diventato qualcosa di importante, debba provare una stupida nostalgia per i Benjamenta; ma non diventerò mai e poi mai qualcosa d'importante, e questa certezza anticipata mi fa tremare di strana soddisfazione. Un bel giorno mi toccherà un colpo, uno di quelli che annientano una persona, e allora tutto finirà: finirà questo intrico, questo struggimento, quest'ignoranza, tutto, tutto, gratitudine e ingratitudine, menzogna e miraggi, questo creder di sapere e invece non saper mai niente. Però desidero vivere, non importa come.