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I fratelli di Mowgli : Rudyard Kipling, Jean-Jacques Rousseau




mercoledì 13 ottobre 2010 legge Elena Massi
I fratelli di Mowgli sono gli animali della giungla sulle colline indiane di Seeonee, ma con questo titolo ci si vuole in realtà riferire alla sola specie 'umana' ed identificarne una categoria: quella che il pensiero pedagogico moderno ha voluto osservare nello stadio infantile a contatto con la natura.
Come il filosofo e pedagogista francese Rousseau, Kipling si cimenta in quest'intento per cercare un ideale di civiltà. Prima che la natura diventi un 'ambiente' da proteggere, l'invito ad educare i bambini fuori dalle mura della città rappresenta l'aspirazione a trovare un equilibrio con i propri istinti di cui chiunque voglia acquisire una cultura non può fare a meno.
In questo modo sia Kipling che Rousseau invitano i lettori a ricercare le regole di una sorta di 'bontà' originaria, che l'evoluzione avrebbe corrotto. La vera forza in questo senso apparterrebbe al bambino, per natura più simile agli animali, piuttosto che all'adulto, incapace di rispettarne lo stato.



Rudyard Kipling, Il libro della giungla, Casale Monferrato, Piemme, 2001.
Erano le sette in punto di una sera molto calda sulle colline di Seeonee, quando Papà lupo si svegliò dal riposo diurno, si grattò, sbadigliò e allungò le zampe una dopo l'altra per sgranchire le estremità addormentate. Mamma Lupo stava distesa col grosso naso grigio posato sui quattro cuccioli che ruzzolavano e guaivano e la luna splendeva all'imboccatura della caverna dove abitavano tutti insieme.
-Augh!- Disse Papà Lupo – è ora di tornare a caccia.
Stava per spiccare un balzo giù dalla collina, quando una piccola ombra con una folta coda attraversò l'apertura e piagnucolò:
-Buona fortuna a te, o Capo dei Lupi; e buona fortuna e forti denti bianchi ai nobili marmocchi, che non dimentichino mai gli affamati a questo mondo.
Era lo sciacallo Tabaqui, il Leccapiatti; i lupi indiani disprezzano Tabaqui perchè va in giro a combinare guai e a raccontare bugie e mangia stracci e pezzi di buoi dai mucchi di immondizia dei villaggi. Hanno anche paura di lui, però, perchè tra tutti gli abitanti della giungla Tabaqui è quello che impazzisce più facilmente: allora dimentica tutte le sue paure e corre per la foresta mordendo tutto quello che gli capita tra i denti. Persino la tigre corre a nascondersi quando il piccolo Tabaqui impazzisce, perchè la pazzia è la disgrazia peggiore che possa colpire una creatura selvatica. Per noi è l'idrofobia, ma loro la chiamano dewanee, la pazzia, e scappano.
-Allora entra a dare un'occhiata – disse Papà Lupo scontroso – ma guarda che non troverai cibo qui.
-Non cibo da lupi, rispose Tabaqui – ma per una creatura vile come me un osso rinsecchito è un vero banchetto. Chi siamo noi Gidur-log (il  Popolo degli Sciacalli) per avere il diritto di scegliere?
Sgattaiolò in fondo alla caverna dove trovò un osso di capriolo con un po' di carne ancora attaccata e si accovacciò a sgranocchiarne allegramente l'estremità.
-Grazie di cuore per questo buon pasto – disse leccandosi i baffi. - Che belli sono i nobili cuccioli! Che occhi grandi hanno! E sono così giovani! Eh già, dovevo saperlo che i piccoli dei re sono uomini fin dal principio.
Ebbene, Tabaqui sapeva meglio di chiunque altro che porta sfortuna fare i complimenti ai cuccioli di fronte a loro ed era contento di vedere il disagio di Mamma e Papà Lupo.
Tabaqui rimase in silenzio, godendosi la cattiva azione appena compiuta, e poi disse in tono maligno:
-Shere Khan il Grosso ha cambiato territorio di caccia.
Mi ha detto che per la prossima luna caccerà tra queste colline.
Shere Khan era la tigre che abitava sul fiume Waingunga, a trenta chilometri di distanza.
-Non ne ha il diritto! - esclamò Papà Lupo con rabbia.
-Secondo la Legge della Giungla non ha il diritto di cambiare territorio senza avvisare per tempo. Spaventerà tutta la selvaggina nel raggio di dieci miglia e io...io devo cacciare per due in questi giorni.
-Sua madre non lo ha chiamato Lungri (lo Zoppo) senza un motivo – disse Mamma Lupo dolcemente. - È zoppo da una zampa fin dalla nascita. Ecco perchè ha sempre ucciso solo pecore e buoi. Ora gli abitanti del Waingunga ce l'hanno con lui e lui è venuto qui per fare arrabbiare i nostri contadini. Setacceranno la giungla quando sarà lontano, e noi e i nostri cuccioli dovremo scappare quando l'erba sarà bruciata. Siamo davvero riconoscenti a Shere Khan!
-Devo riferirgli la vostra gratitudine?- chiese Tabaqui.
-Fuori!- abbaiò Papà Lupo. - Vattene a caccia col tuo padrone. Hai fatto abbastanza danni per una sera.
-Vado- disse Tabaqui tranquillo. - Sento già Shere Khan nei cespugli qui sotto. Potevo risparmiarmi di portarvi la notizia.
Papà Lupo si mise in ascolto e udì, nella valle più in basso dove scorreva un torrente, la cantilena roca, rabbiosa e confusa di una tigre che non ha catturato niente e che non si fa scrupolo di farlo sapere a tutta la giungla.
-Che sciocco!- disse Papà Lupo. - Cominciare la nottata con tutto questo rumore! Cosa crede, che i nostri cervi sono come i suoi grassi buoi del Waingunga?
-Shhh! Stanotte non va a caccia di cervi o di buoi – disse Mamma Lupo. - Caccia l'uomo.
Il lamento si era trasformato in una specie di sommesso ronzio che sembrava venire da ogni angolo della regione.
Era il suono che spaventa taglialegna e vagabondi che dormono all'aperto e a volte li fa fuggire direttamente tra le fauci della tigre.
-L'uomo!- esclamò Papà Lupo, scoprendo tutti i denti bianchi. -Puah! Non gli bastano gli insetti e i rospi che ci sono negli stagni? No, lui deve mangiare l'uomo e proprio sul nostro territorio!
La Legge della Giungla, che non ordina mai niente senza una ragione, proibisce a tutti gli animali di mangiare l'uomo, tranne quando si uccide per mostrare ai propri cuccioli come uccidere, e ci si trova a cacciare fuori dal territorio di caccia del proprio branco o tribù.
Il motivo vero è che l'uccisione dell'uomo significa, prima o poi, l'arrivo di uomini bianchi in groppa a elefanti, coi fucili e centinaia di uomini scuri con gong, razzi e torce. E allora sono dolori per tutti gli abitanti della giungla. La ragione, invece, che gli animali si ripetono uno con l'altro è che l'uomo è l'essere vivente più debole e indifeso di tutti ed è poco sportivo prendersela con lui.
Dicono anche (e questo è vero) che i mangiatori di uomini si ammalano e perdono tutti i denti.
Il ronzio crebbe di volume e terminò nel possente «Grrr» della tigre all'attacco. Poi si sentì un guaito, molto poco tigresco.
-Mancato – disse Mamma Lupo. - Che cos'è successo?
Papà Lupo uscì di qualche passo e udì Shere Khan che borbottava e brontolava all'impazzata, mentre ruzzolava nella boscaglia.
-Quello sciocco è stato così furbo da assalire il falò di un boscaiolo e si è bruciato le zampe – sbuffò Papà Lupo. - C'è Tabaqui con lui.
-Qualcosa risale la collina – disse Mamma Lupo tendendo l'orecchio. - Preparati.
I cespugli frusciarono leggermente e Papà Lupo si accucciò sulle zampe, pronto a spiccare un balzo. Poi, se foste stati lì, avreste visto lo spettacolo più incredibile del mondo: un lupo bloccato a mezz'aria.
Si lanciò prima di sapere che cosa attaccasse, e poi cercò di fermarsi. Il risultato fu un salto in aria di circa un metro e mezzo, che lo fece ricadere quasi nel punto esatto dove si trovava prima.
-Un uomo!- abbaiò. -Un cucciolo d'uomo. Guarda!
Proprio davanti a lui, aggrappato a un ramo basso, c'era un bambino nudo e con la pelle scura che riusciva appena a camminare: un batuffolo morbido e paffuto come non si era mai visto in una tana di lupo. Guardò in faccia Papà Lupo e rise.
-Un cucciolo d'uomo?- chiese Mamma Lupo. - Non ne ho mai visto uno. Portalo qui.
Un lupo abituato a trasportare i suoi piccoli, se necessario riesce a tenere in bocca un uovo senza romperlo. Le mandibole di Papà Lupo si richiusero proprio sulla schiena del bambino, e quando lo depose in mezzo ai cuccioli sulla sua pelle non c'era nemmeno un graffio.
-Che piccolo! Tutto nudo e, che audace!- disse Mamma Lupo teneramente. Il bambino si faceva largo tra i cuccioli per avvicinarsi alla pelliccia calda. -Ahi! Si è messo a succhiare con gli altri. Allora questo sarebbe un cucciolo d'uomo. Dimmi, c'è mai stato un lupo che potesse vantarsi di avere un cucciolo d'uomo tra i suoi piccoli?
-Ho sentito dire che sia successo, ma mai nel nostro Branco o alla mia epoca – disse Papà Lupo. -Non ha nemmeno un pelo e potrei ucciderlo con una zampata. E invece alza gli occhi e non ha paura.
La luce della luna fu oscurata all'imboccatura della caverna, quando Shere Khan infilò la grande testa squadrata e le spalle nell'apertura.
Alle sue spalle Tabaqui squittiva:
-Mio signore, mio signore, è entrato qui!
-Shere Khan ci fa un grande onore – disse Papà Lupo, ma i suoi occhi erano pieni di rabbia. - Cosa desidera Shere Khan?
-La mia preda. Un cucciolo d'uomo è venuto da questa parte – rispose Shere Khan. - I suoi genitori sono scappati. Dallo a me. [...]
I lupi sono un popolo libero – disse Papà Lupo. -Prendono ordini dal Capobranco e non da un qualsiasi mangiatore a strisce di mucche. Il cucciolo d'uomo è nostro. Possiamo anche ucciderlo, se vogliamo.
-Ma che vogliamo e non vogliamo! Che discorsi sono? Per il toro che ho ucciso, devo starmene col muso infilato nella tua tana canina per avere ciò che mi è dovuto? Io sono Shere Khan!
Il ruggito della tigre riempì la caverna come un tuono. Mamma Lupo si liberò dai cuccioli e balzò in avanti, gli occhi, come due lune verdi nel buio, fissi in quelli ardenti di Shere Khan.
-E io sono Raksha (il Demonio!). Il cucciolo d'uomo è mio, Lungri, mio e basta! Non verrà ucciso. Vivrà e correrà col Branco e caccerà col Branco; e alla fine, bada a te, cacciatore di piccoli cuccioli nudi, mangiatore di rospi, uccisore di pesci, caccerà anche te! Adesso vattene, bestia bruciacchiata della giungla, altrimenti, per il cervo che ho ucciso (io non mangio pecore e buoi morti di fame) tornerai da tua madre più zoppo di come sei venuto al mondo! Via! [...]
-Tutti i cani abbaiano nel loro cortile! Vedremo cosa dirà il Branco di questa idea. Il cucciolo d'uomo è mio e finirà tra i miei denti, razza di ladri con la coda pelosa!
Mamma Lupo si buttò ansimante tra i cuccioli e Papà Lupo le disse in tono serio:
-Shere Khan dice la verità. Bisogna mostrare il cucciolo al Branco. Sei sempre decisa a tenerlo, Mamma?
-Tenerlo! - esclamò lei. - É arrivato nudo, di notte, da solo e molto affamato; però non ha avuto paura! Guarda, ha già messo da parte uno dei miei piccoli. E quel macellaio zoppo l'avrebbe ucciso e poi sarebbe scappato sul Waingunga, mentre i contadini della regione avrebbero cacciato in tutte le nostre tane per vendetta! Tenerlo? Certo che voglio tenerlo. Stai fermo, ranocchio. O Mowgli, ti chiamerò Mowgli il Ranocchio, verrà il momento che caccerai Shere Khan come lui ha cacciato te.
-Ma cosa dirà il Branco?- disse Papà Lupo.
La Legge della Giungla stabilisce chiaramente che ogni lupo, quando si sposa, può uscire dal Branco cui appartiene, se vuole; ma non appena i suoi cuccioli sono cresciuti abbastanza da stare in piedi, deve portarli al Consiglio del Branco, che di solito si riunisce una volta al mese con la luna piena, per permettere agli altri lupi di riconoscerli.-
Dopo questo esame i lupacchiotti sono liberi di correre dove vogliono e, finchè non hanno ucciso il primo cervo, nessun lupo adulto del Branco può essere giustificato se ne uccide uno. La punizione è la morte immediata; e, se ci pensate un attimo, capirete che deve essere così.
Papà Lupo aspettò che i suoi cuccioli sapessero correre un pochino e poi, la sera della riunione del Branco, lì portò alla Roccia del consiglio insieme a Mowgli e Mamma Lupo. La Roccia era la cima di una collina coperta di pietre e massi dove potevano trovare posto un centinaio di lupi.
Akela, il grande Lupo Solitario grigio, che guidava l'intero Branco con forza e astuzia, era sdraiato sulla roccia e sotto di lui erano accovacciati una quarantina di lupi di tutte le dimensioni [...]
Dalla sua roccia Akela gridava:
-Conoscete la Legge, la conoscete. Guardate bene, o Lupi!
E le madri ansiose ripetevano l'esortazione:
-Guardate, guardate bene, o Lupi!
Alla fine (Mamma Lupo sentì rizzarsi il pelo sulla nuca) Papà Lupo spinse "Mowgli il Ranocchio" nel centro, dove lui ridendo si mise a giocare con dei sassolini che brillavano lucidi al chiaro di luna.
Senza sollevare il muso dalle zampe, Akela continuò il suo grido monotono:
-Guardate bene!
Un ruggito soffocato si alzò da dietro le rocce: la voce di Shere Khan che diceva:
-Il cucciolo è mio. Datelo a me. Che ci fa il Popolo Libero con un cucciolo d'uomo?
Senza piegare nemmeno le orecchie Akela disse soltanto:
-Guardate bene, o Lupi! Che ci fa il Popolo Libero con ordini che non vengono dal Popolo Libero? Guardate bene!
Si alzò un coro di cupi brontolii e un giovane lupo di quattro anni girò ad Akela la domanda di Shere Khan:
-Che ci fa il Popolo Libero con un cucciolo d'uomo?
La Legge della Giungla, infatti, stabilisce che, affinchè un cucciolo sia accettato dal Branco, almeno due membri del Branco che non siano suo padre e sua madre parlino in suo favore.
-Chi parla a favore di questo cucciolo? - chiese Akela
-Chi parla nel Popolo Libero?
Non ci fu risposta e Mamma Lupo si preparò per quello che sapeva sarebbe stato il suo ultimo combattimento, se ce ne fosse stato bisogno.
Poi, l'unica altra creatura ammessa al Consiglio del Branco, Baloo, il pacifico orso bruno che insegna la Legge della Giungla ai lupacchiotti, il vecchio Baloo che può andare e venire dove gli pare perchè mangia solo noci di cocco, radici e miele, si alzò sulle zampe posteriori e brontolò.
-Il cucciolo d'uomo, il cucciolo d'uomo? - disse. -Io parlo in favore del cucciolo d'uomo. Un cucciolo d'uomo non è malvagio. Io non so parlare, ma dico la verità. Lasciamolo correre col Branco, vivere con gli altri. Gli insegnerò io stesso.
-Ne serve un altro – disse Akela. - Baloo ha parlato ed è il nostro insegnante dei cuccioli. Chi parla oltre a lui?
Un'ombra nera balzò nel centro. Era Bagheera, la Pantera Nera, completamente nera come l'inchiostro, ma con le macchie della pantera che apparivano, a seconda della luce, come il disegno di una seta damascata. Tutti conoscevano Bagheera e facevano in modo di non trovarsi sulla sua strada, perchè era astuta come Tabaqui, audace come il bisonte e feroce come l'elefante ferito. Però aveva la voce dolce come il miele selvatico che gocciola da un albero e la pelliccia più soffice di una piuma.
-O Akela, e voi del Popolo Libero, -disse facendo le fusa -  io non ho il diritto di parlare nella vostra assemblea; ma la Legge della Giungla dice che, quando non si tratti un'uccisione, se c'è un dubbio a proposito di un nuovo cucciolo, la sua vita può essere comprata a un certo prezzo. Ma la Legge non dice chi possa o non possa pagare questo prezzo, giusto?
-Brava! Brava! - dissero i giovani lupi, sempre affamati.
-Ascoltate Bagheera. Il cucciolo può essere comprato a un dato prezzo. È la Legge.
-Sapendo di non avere il diritto di parola, chiedo il vostro permesso.
-Parla, dunque – gridarono una ventina di voci.
-Uccidere un cucciolo nudo è una vergogna. E poi, potrebbe essere una preda migliore da grande. Baloo ha parlato in suo favore. Alle parole di Baloo io aggiungo un toro, e grasso, ucciso da poco, a meno di un chilometro da qui, se voi accetterete il cucciolo d'uomo secondo la Legge. Vi sembra difficile?
Si levò un coro di voci assordanti:
-Che importa? Morirà con le prime piogge invernali. Sarà bruciato dal sole. Che male può farci un ranocchio nudo? Lasciamolo correre  col Branco. Dov'è il toro, Bagheera? Accettiamo.
E poi si udì la voce profonda di Akela, che esortava:
-Guardate bene, guardare bene, o Lupi!
Mowgli continuava  a studiare assorto i sassolini e non si accorse dei lupi che uno a uno gli si avvicinarono per guardarlo. Alla fine tutti scesero dalla collina per andare dove si trovava il toro morto, lasciando solo Akela, Baloo e i lupi di Mowgli. Shere Khan continuava a ruggire nella notte, perchè era molto arrabbiato che Mowgli non fosse stato consegnato a lui.
-Si, ruggisci pure – disse Bagheera sotto i baffi – perchè verrà il momento che questo cosino nudo ti farà ruggire in maniera diversa, o io non conosco più gli uomini.
-Ben fatto – disse Akela. -Gli uomini e i loro cuccioli sono molto saggi. Un giorno potrà esserci d'aiuto.
-É vero, un aiuto nel bisogno, perchè nessuno può sperare di guidare il Branco per sempre – disse Bagheera. [...]
-Portalo via, - disse [Akela] a Papà Lupo – e istruiscilo come si addice a un membro del Popolo Libero.
Fu così che Mowgli entrò nel Branco dei Lupi di Seeonee al prezzo di un toro e grazie al favore di Baloo.
Adesso dovrete accontentarvi di saltare dieci o undici anni e provare a immaginare da soli la vita meravigliosa di Mowgli tra i lupi, perchè a scrivere tutto si riempirebbero molti libri. Crebbe insieme ai cuccioli, anche se loro, naturalmente, diventarono lupi adulti qui prima che lui diventasse un bambino.
Papà Lupo gli insegnò quello che sapeva, e il significato delle cose nella giungla, finchè ogni fruscio nell'erba, ogni alito della calda aria notturna, ogni nota dei gufi sopra la sua testa, ogni graffio delle unghie di un pipistrello che si riposava per un po' appeso a un ramo, e ogni tonfo di pesciolino che saltava i uno stagno gli furono familiari come i rumori dell'ufficio per un uomo d'affari.
Quando non studiava se ne stava sdraiato al sole a dormire, mangiare e dormire, mangiare dormire ancora; se si sentiva sporco o accaldato nuotava negli stagni della foresta e se voleva del miele (Baloo gli insegnò che il miele e le noci erano buoni da mangiare quanto la carne cruda) si arrampicava a prenderlo, come gli aveva insegnato Bagheera. Bagheera si sporgeva da un ramo e lo chiamava:
-Vieni su, Fratellino. All'inizio Mowgli restava appeso come un bradipo, ma poi imparò a lanciarsi tra i rami quasi con la stessa audacia delle scimmie grigie.
Aveva anche il suo posto alla Roccia del Consiglio quando il branco si riuniva, dove scoprì che se  guardava intensamente un lupo, questo era costretto ad abbassare gli occhi, e così si divertiva a farlo per scherzo. A volte toglieva le lunghe spine che si infilzavano nelle zampe dei suoi amici, perchè i lupi soffrono terribilmente a causa delle spine e dei ricci nella pelliccia.
Di notte scendeva dalle colline nella pianura coltivata e osservava incuriosito i contadini nelle loro capanne, ma non si fidava degli uomini, perchè Bagheera gli aveva mostrato una cassa quadrata con una saracinesca, nascosta così bene nella giungla che lui ci era quasi finito  dentro, e gli aveva spiegato che era una trappola.

Jean-Jacques Rousseau, Emilio, Milano, Garzanti, 1997.
Tutte le cose sono create buone da Dio, tutte degenerano tra le mani dell'uomo. Egli costringe un terreno a nutrire i prodotti di un altro, un albero a portare frutti non suoi; mescola e confonde i climi, gli elementi, le stagioni; mutila il cane, il cavallo, lo schiavo, tutto sconvolge, tutto sfigura, ama la deformità, le anomalie; nulla accetta come natura lo ha fatto, neppure il suo simile: pretende ammaestrarlo per sè come cavallo da giostra, dargli una sagoma di suo gusto, come ad albero di giardino.
Pure, se così non fosse, tutto sarebbe ancora peggiore: la nostra specie non ammette di essere formata a metà. La situazione è ormai tale che un uomo, abbandonato a se stesso fin dalla nascita in mezzo ai suoi simili, sarebbe il più deforme di tutti. I pregiudizi, l'autorità, la necessità, l'esempio, tutte le istituzioni sociali in cui ci troviamo sommersi, soffocherebbero in lui la natura senza nulla sostituirle. In un uomo siffatto essa avrebbe vita stentata, quasi arboscello cresciuto per caso in mezzo a una strada e che i passanti fanno ben presto perire urtandolo da ogni parte, piegandolo in ogni senso. [...]
Le piante si coltivano, gli uomini si educano. Se l'uomo venisse al mondo grande e robusto, statura e forza gli sarebbero inutili, finchè non avesse imparato a servirsene; gli riuscirebbero anzi dannose, impedendo agli altri di prendersi cura di lui; abbandonato a se stesso, morirebbe prima ancora di aver conosciuto i propri bisogni. È consuetudine commiserare la condizione dell'infanzia: non si comprende che la specie umana sarebbe perita, se l'uomo non avesse cominciato a vivere come un fanciullo.
Nasciamo deboli e abbiamo bisogno di forza; nasciamo sprovvisti di tutto e abbiamo bisogno di assistenza; nasciamo stupidi e abbiamo bisogno di giudizio. Tutto ciò che alla nascita non possediamo e che sarà necessario da adulti ce lo fornisce l'educazione.
L'educazione ci viene impartita o dalla natura o dagli uomini o dalle cose. Quella della natura consiste nello sviluppo interno delle nostre facoltà e dei nostri organi; quella degli uomini ci insegna a fare un certo uso di facoltà e organi così sviluppati; l'acquisto di una nostra personale esperienza mediante gli oggetti da cui riceviamo impressioni è l'educazione delle cose.
Ognuno di noi è dunque formato da tre specie di maestri. Il discepolo in cui i loro diversi insegnamenti si contraddicono riceve una cattiva educazione e non sarà mai in armonia con se stesso; ma se tali insegnamenti vertono tutti sugli stessi punti e tendono agli stessi fini, allora il discepolo raggiunge la sua meta e vive in modo coerente. Egli solamente è educato bene.
Ma delle tre diverse forme di educazione quella della natura è del tutto indipendente da noi  quella delle cose non dipende da noi che in parte. Solo l'educazione degli uomini è davvero in nostro potere; e anche questo potere è piuttosto teorico, poichè chi mai può sperare di controllare interamente discorsi ed azioni di tutti coloro che vivono intorno a un fanciullo?
Nella misura dunque in cui l'educazione è un'arte, appare quasi impossibile che abbia successo, poichè l'armonico concorrere dei fattori a ciò necessari non dipende da nessuno. Tutto quel che si può fare, usando ogni possibile premura, è avvicinarsi più o meno alla meta, ma per raggiungerla ci vuole fortuna.
E qual è questa meta? È la stessa della natura, come abbiamo dimostrato poc'anzi. Poichè il concorso delle tre forme di educazione è necessario al loro perfetto compimento, occorre armonizzare con quella che non dipende da noi anche le altre due. Ma forse la parola natura ha un senso troppo vago: cerchiamo di determinarlo.
La natura, sentiamo ripetere, non è che l'abitudine. Che significa ciò? Non vi sono forse abitudini che si contraggono per costrizione e che, tuttavia, non giungono mai a soffocare la natura? Si pensi, ad esempio, all'abitudine contratta da certe piante di cui si ostacola la crescita in senso verticale. Lasciata libera la pianta, conserva l'inclinazione che fu costretta ad assumere; ma non per questo la linfa ha mutato la sua direzione iniziale e, se la pianta vegeta ancora, il suo prolungamento torna verticale. Lo stesso accade per le inclinazioni degli uomini. Finchè restiamo nello stesso stato, possiamo conservare quelle provocate dall'abitudine e che sono per noi le meno naturali; ma non appena la situazione cambia, l'abitudine viene meno e la natura riprende il sopravvento. L'educazione certamente non è altro che un'abitudine. Ma non vi sono forse persone che dimenticano e perdono la propria educazione, mentre altri la conservano? Donde ha origine questa differenza? Se si deve limitare la definizione di natura alle abitudini conformi alla natura stessa, tanto vale fare a meno di questa vuota perifrasi.
Nasciamo dotati di sensibilità e, fin dalla nascita, riceviamo impressioni diverse dagli oggetti che ci circondano. Non appena acquistiamo, per così dire, coscienza delle nostre sensazioni, abbiamo tendenza a ricercare o a sfuggire gli oggetti che le producono: dapprima, per il solo effetto gradevole o sgradevole delle sensazioni stesse; poi, a seconda della conformità o della estraneità che rileviamo tra noi e quegli oggetti; e infine guidati dal giudizio noi ci facciamo in base all'idea di felicità o di perfezione fornitaci dalla ragione. Queste disposizioni si estendono e si consolidano via via che si sviluppano in noi sensibilità  ed intelletto; ma, tenute a freno dalle abitudini, vengono inoltre variabilmente alterate dalle nostre opinioni. Prima che l'alterazione si produca, tali disposizioni costituiscono in noi quella che io chiamo natura.
Su queste disposizioni primitive dovrebbe dunque fondarsi ogni azione educativa; e ciò sarebbe possibile, se le nostre tre forme di educazione fossero soltanto diverse; ma che fare quando sono addirittura opposte, quando, anzichè educare un uomo per se stesso, si vuole educarlo per gli altri? In tal caso l'armonia diventa impossibile. Di fronte alla necessità di contrastare o la natura o le istituzioni sociali, bisogna decidere se formare un uomo o un cittadino: formare l'uno e l'altro insieme non si può. [...] Per essere qualcosa, per essere se stessi e sempre coerenti a se stessi, bisogna agire come si parla; bisogna essere decisi sul partito da prendere, prenderlo a viso aperto e non stancarsene mai. Aspetto che mi si faccia vedere un così prodigioso individuo, per sapere se sia uomo o cittadino, oppure come faccia ad essere l'uno e l'altro ad un tempo.
Da questi due obbiettivi necessariamente opposti derivano due forme contrarie di istituzioni educative, l'una pubblica e collettiva, l'altra privata e domestica. [...] L'educazione pubblica non esiste più e non può più esistere, perchè dove non è più patria non possono essere più cittadini. Queste due parole, "patria" e "cittadino", debbono essere cancellate dalle lingue moderne. Ed io ne so bene la ragione, ma non voglio dirla, perchè non ha nulla a che fare col mio tema. [...] Resta infine l'educazione domestica o quella della natura, ma che cosa sarà mai per gli altri un uomo educato unicamente per sè? Se fosse possibile fondere in uno solo il duplice scopo che ci si propone, forse, rimuovendo le contraddizioni dell'uomo, si eliminerebbe un grosso ostacolo alla sua felicità. Ma per poter giudicare di lui, bisognerebbe vederlo interamente formato; bisognerebbe averne osservato le inclinazioni, averne seguito i progressi grado per grado; bisognerebbe, in una parola, conoscere l'uomo naturale. Io credo che, leggendo il presente lavoro, si farà qualche passo innanzi in tali ricerche. [...] Nell'ordine sociale, in cui ogni posizione è distinta dalle altre, ciascuno deve essere educato in rapporto a quella che occupa. [...]
Nell'ordine naturale, poichè gli uomini sono tutti eguali, la loro vocazione comune è la condizione umana; e chiunque sia stato ben preparato a tale condizione, non può non assolvere egregiamente i compiti che ne derivano. Che il mio alunno sia destinato alle armi, alla Chiesa o alla toga, poco m'importa. Prima che i genitori scelgano per lui una professione, la natura lo chiama alla vita umana. Ed io intendo insegnargli l'arte di vivere. Uscendo dalle mie mani, lo ammetto, egli non sarà magistrato, nè soldato, nè sacerdote; sarà innanzi tutto uomo: a tutti i doveri propri di un uomo egli sarà in grado di far fronte al pari di qualsiasi altro e, per quanto la fortuna possa fargli mutar condizione, egli si sentirà sempre al suo posto.