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“Trenta giorni di nave a vapore” testimonianze di emigranti emiliani





lunedì 21 marzo 2011 legge Lorenza Servetti
Quando un emigrante si trasferisce per necessità dalla propria terra d’origine a un paese lontano, quali aspetti del viaggio assumono ai suoi occhi rilievo e importanza? Quali stati d’animo lo accompagnano durante il percorso? E, una volta arrivato a destinazione, quali preoccupazioni ed esigenze vengono da lui avvertite, quali tratti e caratteristiche della nuova realtà acquistano importanza alla luce delle sue aspettative? A questi interrogativi è possibile offrire una risposta esaminando alcune testimonianze dirette di emigranti che partirono dalla nostra regione tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento, e ricostruendo la vicenda umana di quegli uomini nel contesto storico ed economico del tempo. Ci aiuterà nella lettura Lorenza Servetti, attenta studiosa di culture locali, che ha curato una ricerca storica su documenti del tempo.


La “chiamata”
Gabinetto di Prefettura, Archivio di Stato di Bologna
San Paolo, 16 novembre 1890
Caro Enrico, ti pregho di dire ha mio fratello Gaetano quando vol venire verrà presso di me e starrà nel mio neghozio dili pure che vengha liberamente e che venda cavalli e birocci che faccia lunico possibile per venire costì: [Gaetano,] saprai che Pio fà il maccellaio e va molto bene. E ancora Giuseppe è impiegato in una birreria e va bene hanche lui. Vieni pure liberamente e ti attendo che venghi costì e ti assicuro fortuna per questo non mancherò alla mia parola…E per te caro fratello fa in modo di farti vestiti per che costì son molto cari. Dunque mi saluterai mio padre e i miei parenti e tutti quelli che dimandano di me.[…] Dirai ah Manara Giuseppe e familia Andalo Raffaele che se vogliono venire le ho trovato il posto presso al Signor Giovanni Ribero Pedreras. Ricevi un Abbraccio e spero di stringerti la mano.
Tua sorella Morini Rosina
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La stazione di Bologna
Da: “il Resto del Carlino”, 12 novembre 1913
L’inverno sopraggiungente, recando qui di passaggio una dolorosa fioritura di emigranti, rinnovava lo spettacolo triste di miseria nell’atrio della stazione centrale: uomini, vecchi, donne, fanciulli, ammassati in un viluppo di cenci, che il piede di qualche viaggiatore spregiudicato gratifica persino di calci. Gente che ha fame e cerca fortuna fuori dalla patria…..
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L’imbarco a Genova
da: E. De Amicis, Sull’oceano, Milano, Treves, 1889, p. 1.
Resoconto di un viaggio compiuto da De Amicis da Genova a Montevideo insieme a 1600 emigranti nel 1899, diede origine ad un vero e proprio genere letterario ed ebbe larga diffusione anche nel nostro territorio: nel 1890 “il Resto del Carlino” lo pubblicò a dispense.
Il “Galileo”, congiunto alla calata da un piccolo ponte mobile, continuava a insaccar miseria: una processione interminabile di gente che usciva a gruppi dall’edificio di rimpetto, dove un delegato della Questura esaminava i passaporti. La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti[…] passavano portando quasi tutti una seggiola pieghevole sotto il braccio, sacche e valigie d’ogni forma alla mano o sul capo, bracciate di materasse e di coperte, e il biglietto col numero della cuccetta stretto fra le labbra.
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Il viaggio
da: Ferruccio Macola, L'Europa alla conquista dell'America. Un carico di emigranti, Venezia, 1894
Dal ponte di guardia del Washington, dove passavo varie ore della giornata, avevo sotto gli occhi tutto quel formicaio umano, costituito dalla massa degli emigranti, oltre un migliaio, costretti a pigiarsi in un spazio tutt’al più di 200 metri quadrati. […]
Una sera a un tratto mi parve di udire un orribile concerto di strida, di pianti, di urla, di invocazioni, che si imponeva alla petulanza del vento mugghiante e allo scroscio del mare.[…] Scesi nel corridoio. Dio mio! Quale tanfo! C’era da perdere il respiro. Figuratevi cinquecento persone ammassate in uno spazio di altrettanti metri cubi d’aria, con una ventilazione insufficiente in condizioni normali, più insufficiente allora, perché gli oblò a murata del corridoio inferiore erano rasenti alla linea d’acqua, e gli altri col mare agitato non si potevano aprire… Io spero di poter dimostrare che si potrebbe diminuire di ¼ la quantità del carico umano a bordo, senza offendere gli interessi delle società oneste di navigazione. […]
Si fece il giro delle corsie. Che orrore! Ci tenevamo ben stretti alle traversine di legno, perché il suolo imbrattato un po’ qua un po’ là di materie ignobili, rendeva pericoloso qualunque movimento. Non mi sono mai spiegato come tante creature umane potessero vivere là dentro, qualche volta 20, qualche volta 30 e più notti, respirando le esalazioni più pestifere in un’aria umida, vischiosa, corrotta[…].
Le cronache della navigazione sono il più efficace commento alle mie parole, E’ infatti un caso ben strano se i battelli a vapore che portano attraverso l’oceano tante centinaia di disgraziati arrivano a toccare il primo porto di sbarco con un morto soltanto durante il viaggio. Si contano a una, a due, a tre dozzine i caduti che il mare muto e incosciente ingoia; e sono i bambini e gli organismi più fiacchi le vittime della triste moria. “In un solo viaggio – mi diceva il comandante Zanelli – malgrado tutti i nostri sforzi, perdetti 26 bambini”. […].
Ora, qual è la causa prima di questo eccidio? E’ il soverchio ammassamento, che fa dei piroscafi nazionali non trasporti di passeggeri, ma trasporti di carne umana. L’uomo vien considerato merce che va stivata diligentemente, fin nelle ultime frazioni di metro cubo che la stazzatura rende disponibile a bordo; che poi la merce così trasportata presenti qualche avaria, poco importa. […]
Ho sentito io il cav. Avellone dire al console a Rio Janeiro che a bordo del “Re Umberto” della Navigazione Italo-Brasiliana, dopo un’inchiesta d’ufficio ordinata per abusi denunziati, era risultato che gli emigranti potevano disporre per muoversi, sdraiarsi e vivere di un quadrato di 66 cm. di lato: poco più di uno dei nostri giornali spiegato. […]
E’ un reato dal quale non va immune alcuna Società assuntrice di piroscafi in Italia, né alcun armatore privato. Gli uomini d’affari non possono calcolare come elemento nei loro bilanci la pietà per il prossimo. Essi pensano che la legge li favorisce, e che se uno ha degli scrupoli nel servirsene, gli altri, i concorrenti, non ne hanno. Non è adunque ad essi che io faccio colpa, è alla legge che incoraggia la disumana speculazione con una tolleranza ipocrita in contrasto assoluto con lo spirito falsamente umanitario della nostra vita pubblica.


Lettera di Carlo Mascagni, di Portonovo di Medicina, 1893, trascritta nel libro di famiglia di Raffaele Noè.
7 aprile 1893. Carissimo amico Noè Raffaele, alle ore 5 del 3 marzo dando un ad’io a l’Italia mettemmo il piè nel bastimento chiamato Europpa, la notte seguente entrammo nel mare del Golfo Leone e lo trovammo in minacciosa burasca e per 36 ore nessuno di noi poteva mangiare. La sera del giorno 5 circa alle ore 9 la burasca forte minaciosa e con le furiose onde maritime cadono 25 letti che cistavano uomini a riposare e questi restarono molti in temoritti.
Passato il sudetto mare la burasca anoi cessò e la mattina del giorno 6 arivammo alla città di Barcellona gran porto di Spagna. Colà stiamo fermi 9 ore che gli era degli amigranti e altro da caricare nel nostro bordo che a una lunghezza di m. 120 e una larghezza di m. 12.25 a quattro piani d’altezza.
Il porto che noi abiamo fatto è una primaria cità grandissima di Spagna bella posta in collina con grande fortezza e tiene al porto una altissima collona e sopra essa ci stava la statua di Cristoforo Colombo scopritore della Merica che in una mano tiene un’ancora e nell’altra accenna il camino dell’America.
Non misserebbe mai creduto che fossero così trattati bene i passeggieri in mare nel mangiare, vitto che non recca danno a nessuno, carne sempre fresca, perché nel bordo ci tiene buovi e il macelaio e anche nel dormire un letino per ciascheduno. Siam poi disseparati il sesso maschille dal feminille soltanto la notte. (…)
Il giorno 17 passammo di sotto a la linea del sole chiamata Aquatore ed in questo tratto soffrimmo molto caldo. Doppo di aver fatto il detto posto vi fun camino di 12 giorni e 12 notti senza più potere vedere terra, altro che cielo e aqua ma felicissimo mare e rivammo il giorno 23 al porto di Rio Anerio e colà stamo fermi 2 giorni, in questo tempo siam stati a godersi in detta città con dei compagni (…)
Doppo entrammo in un altro vapore brasiliano il quale era chiamato Rio Grande ma entro di questo fummo tratati male. Seguimmo il nostro cammino e doppo a 27 ore di mare arivamo alla cità porto di Santos e qui fummo acompagnati da un agente della società amigrazzione in un locale di allogiamento che si stava bene abastanza. Qui fu una fermata di 2 giorni e il giorno 28 poi arivamo nella cità di S. Paolo al palazzo di ammigrazzione ove stamo fermi 5 giorni... Il giorno 2 aprile poi partiti noi da S. Paolo e da 14 ore ferovia giungemmo a Riberao Preto alla fazenda Albertina il quale è il nostro posto che restiamo. Ma i prezzi dei lavori non si può ancor dire, perché non abbiamo ancora cominciato a lavorare.
Siamo tutti in salute come speriamo di tutti voialtri, vi saluto caramente e mi firmo il vostro cordial amico Carlo Mascagni


Sonetto tratto da una raccolta di poesie firmata “Guido”, pubblicata a Buenos Aires ai primi del Novecento
Viaggio in terza classeSe offeso tu m’avessi nell’onore
o spogliato, rubandomi il borsello,
se, di mia figlia infame seduttore,
ridotta tu l’avessi nel bordello,
se morso tu m’avessi insino al core
col dente dell’ingiuria o col libello,
se detto tu m’avessi traditore
de’ miei figlioli o del mio patrio ostello,
se per tua colpa la comune voce
me becco idiota unanime chiamasse,
se tu avessi mio padre posto in croce,
vorrei che il giusto Iddio ti condannasse,
a far sopra un vapor della “Veloce”
un mese di vïaggio in terza classe!

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L’arrivo
Da: Lorenza Servetti, Trenta giorni di nave a vapore. Storie di emigrazione dalla Valle dell’Idice, Bologna, Costa, 2010
Negli occhi dei bambini tornati dal Brasile era impressa l’immagine di una terra meravigliosa, di spazi immensi, di frutti squisiti, i mandarini, gli aranci, le banane, che si potevano avere in abbondanza, di chicchi bruni profumati che formavano grandi mucchi. E tale rimase nei loro ricordi, raccontati poi ai figli e ai nipoti, che non si stancavano di riascoltare la “favola del Brasile” e, stupiti, chiedevano: Ma perché non siete rimasti là? Così anch’io nascevo in quel bel posto. Giuseppina e Gemma Cesari, alle sorelle nate dopo il ritorno a Budrio, che non sapevano cosa fossero i mandarini, narravano di alberi fitti a formare vere e proprie siepi, con i frutti copiosi che potevano essere raggiunti anche da loro e di grandi abbuffate, fino a farne, una volta, anche una colica. Lo stesso termine “siepe” adoperava Raffaele Zamboni, arrivato a quattro anni, parlando degli aranci buonissimi; e Maria Piazzi, di ritorno a Budrio nel 1906, cercava ancora le dolci banane che là mangiava tanto spesso e che qua non si conoscevano. Lei, piccolina, veniva messa su un telo ai margini della piantagione in cui sua madre lavorava come raccoglitrice e ogni tanto gliene veniva gettata qualcuna. Invece Stella Minghetti, nel poco tempo che rimase nella fazenda brasiliana dove il padre l’aveva fatta venire con la mamma e le sorelline, fu colpita dai tanti mucchi di chicchi neri mai visti prima. Del caffè, ammassato in vasti granai, anche Paolina Mascagni parlerà con immutato stupore ai suoi figli, a Medicina. Ma per gli adulti l’avventura brasiliana fu qualcosa di diverso; la realtà che si trovarono ad affrontare fu spesso lontana dalle aspettative: condizioni di lavoro e di vita molto faticose e tante difficoltà da superare.

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Lettera dal Brasile di Luigi Franceschi, di Vedrana di Budrio, al suo parroco, 1891
Onorevolo parroco, è ben vero che di mia volontà e a cagione delle lettere che venivano dal Brasile mi sono dipartito dai miei lidi nativi e recato con mia famiglia qui nel Brasile per vedere se posso accumularmi in pochi anni un poco di denaro per poi fare ritorno in patria, ma invece vego che sono circa 2 mesi che sono in questi luoghi stranieri e non spero altro che tormenti che da molte sorte di insetti siamo trucidati e anche per il guadagno che si fa passeranno molti anni che anche a Dio piacendo possa tornare con la mia famiglia in patria, che in questo poco tempo che qui dimoro che con la salute e travagliando non sono buono di darmi fuori con le spese di solo vito.
Chiudo col salutarla e la scongiuro per carità di non abbandonarmi e di avere tutta la premura di levarmi da queste siberie che mia moglie e figli piangono l'abbandono dei nostri lidi, anzi se ci fossero qualche famiglie di Vedrana che fossero disposti per venire in Brazile stiano pure a casa che se no saranno scontenti.
Franceschi Luigi, 11 gennaio 1891, Estaçao d'Ouro Fino, Fazenda do doctor Iderardo

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Testimonianza di Paola Zamboni, nipote di Primo Zamboni, budriese partito per il Brasile nel 1895
Quando i miei nonni decisero di partire per San Paolo del Brasile erano sposati da 14 anni. Primo e Clelia, quando si imbarcarono, non conoscevano né il posto né la persona che li attendeva per lavorare, poter mantenere la famiglia e crescere i loro tre figli. Primo raccontava che, appena sbarcati, gli andò incontro un signore che chiese della famiglia Zamboni. Quando Primo incrociò il suo sguardo, capì subito che quella persona non l’avrebbe deluso, e così fu. Non hanno mai avuto rimpianti per aver lasciato l’Italia, sapendo già che era solo per qualche anno. Primo e Clelia lavoravano 14-15 ore al giorno, aiutati anche dai figli più grandi. Il loro padrone gli regalò un cane di grossa taglia per fare la guardia alla loro casa, però Raffaele, il più piccolo, lo cavalcava come fosse un cavallino. La casa di Primo era isolata dalle altre; intorno a loro c’era una foresta, con qua e là qualche pezzo di terra coltivata che gli permetteva di vivere benino. In lontananza si scorgeva un grande castello. Clelia cominciò a vendere farina per fare la polenta, zucchero, uova e polli, poi si mise a fare un certo liquore con la canna da zucchero, che qualche negro poteva comprare con pochi spiccioli. Le persone più vicine alla loro casa erano un gruppo di famiglie che vivevano tutti assieme in condizioni pietose: 50 persone, adulti e bambini, tutti negri. Si erano scavati una specie di grotta dentro un enorme mucchio di terra e lì vivevano. Qualche volta, di notte, rubavano un po’ di granoturco a Primo e l’indomani cercavano di rivenderglielo: lui non si lasciava ingannare, ma glielo lasciava da mangiare. La famiglia Zamboni si è sempre trovata bene con tutti. Primo portò a casa anche delle sterline d’oro che erano un regalo del padrone. Prima di imbarcarsi per tornare in Italia, Primo e Clelia si commossero guardando quel pezzo di cielo e quel lembo di terra che gli avevano permesso di vivere, così piansero due volte: una per aver ricevuto tanto da una terra sconosciuta, un’altra perché stavano per vedere la loro Italia mai dimenticata.
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Il ritorno
Da: Lorenza Servetti, Trenta giorni di nave a vapore. Storie di emigrazione dalla Valle dell’Idice, Bologna, Costa, 2010
Paolina Neri, che in un solo anno fece andata e ritorno con tre bambine piccole, Stella di quattro anni, Mercede di tre e Iris di uno. Il marito Gugliemo Minghetti era partito da Budrio nel 1895, diretto a Minas Gerais, probabilmente ad Angustura (Belo Horizonte) nella fazenda Barra, dove già si trovava la sorella Emilia col marito Enrico Ghelli. Contento del lavoro nella coltivazione del caffè, l’anno dopo chiamò presso di sé la moglie e le figlie. Per Paolina fu una partenza avventurosa: in un primo tentativo, in cui l’aveva accompagnata la sorella Ada, la nave, a causa di un’epidemia di colera, si fermò in quarantena all’Asinara e poi fece ritorno a Genova. Tutti gli imbarcati vennero rimandati a casa, ma lei non si diede per vinta e, anche senza Ada che non volle più seguirla, qualche mese dopo ritentò l’avventura. Dopo un viaggio faticoso, di cui solo Stella manterrà qualche bel ricordo di bambina, sbarcarono a Santos, dove Guglielmo le aspettava per condurle nella fazenda. Ma ebbero appena il tempo di sistemarsi nella loro nuova vita che il capofamiglia si ammalò di febbre gialla, probabilmente contratta al porto dove aveva sdoganato i bagagli. La malattia mortale si propagava con facilità nelle città portuali, ricettacoli di epidemie per il grande affollamento e passaggio di uomini e merci e per la mancanza di fognature. Guglielmo in poche settimane morì e Paolina non se la sentì di rimanere, da sola, in un paese sconosciuto, col pensiero angosciante di come mantenere le bambine. Decise di tornare e riaffrontò la traversata: all’inizio del 1897 era di nuovo registrata a Budrio. Il dolore e l’amarezza di una esperienza così tragicamente conclusa esplosero nelle parole pronunciate allo sbarco a Genova, davanti alla statua di Colombo: Cristoforo Colombo, azidant a tè e a quant t'è dscuert la Merica! (“Cristoforo Colombo, accidenti a te e a quando hai scoperto l’America!”), che la piccola Stella ricorderà per tutta la vita. Dell’America e del suo sogno spezzato da quel momento Paolina non parlerà più e a nessuno svelerà nemmeno il luogo di sepoltura del marito. Per trovare la forza di andare avanti, l’America bisognava dimenticarla.