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"Clandestini di carta".





lunedì 28 marzo 2011 legge Fulvio Pezzarossa
Chi è il migrante? Perché lascia il proprio paese? E soprattutto, cosa lascia dietro di sé? Negli ultimi vent'anni in Italia, in barba a difensori dei confini e puristi della razza, è nato e si è sviluppato il filone della “Letteratura migrante”. Decine e decine di autori, provenienti da culture e lingue diverse, che hanno deciso di scrivere e "raccontare" in Italiano. Non volendo scadere in facili condanne, in questa lettura poco spazio verrà dato agli atteggiamenti razzisti degli italiani, di cui pure si parlerà. Ci si è voluti concentrare invece sulle problematiche vissute dal migrante prima, durante e dopo l'arrivo. Sul rapporto, spesso conflittuale, che vivono con la propria cultura o con il proprio passato.  Fulvio Pezzarossa, docente di Sociologia della letteratura presso l’università di Bologna, dirige la rivista “Scritture migranti”.


P. A. Micheletti – Saidou Moussa Ba La promessa di Hamadi, Novara, De Agostini, 1991
A Casale la tensione era nell'aria: gli occhi degli abitanti esprimevano aperta ostilità, nel migliore dei casi diffidenza, e Semba aveva scartato subito l'idea di rivolgersi per informazioni a qualche italiano in grado di capire il suo francese. Ma anche gli immigrati che passavano per le strade avevano sguardi cupi, chiusi, e lui non ne comprendeva il motivo.
Non avendo trovato senegalesi, aveva fermato alcuni ragazzi che venivano dalla Costa d'Avorio. Prima ancora di chiedere informazioni pratiche, aveva voluto sapere il perché di quell'atmosfera così pesante.
– La gente del posto non ci può vedere – era stata la brusca risposta, in francese. – Dicono che gli portiamo via il lavoro, anche se siamo noi che, con la nostra fatica, permettiamo loro di sfruttare al massimo la ricchezza di queste regioni, i pomodori, l'”oro rosso” come lo chiamano. Ma fanno finta di non saperlo. Dicono che in paese c'è poca acqua e per colpa nostra loro rimangono senza. E le cose sono peggiorate da quando è stato ucciso quell'immigrato, in agosto.
– In agosto? –. A Semba era balzato il cuore in gola. – Come? Chi era?
– – A Villa Linterno hanno ammazzato uno di noi, un sudafricano, non lo sapevi?
– No, sono arrivato da poco – aveva spiegato lui. – Chi era? Come è successo? –. Per un attimo era stato afferrato da una tremenda paura, e a calmarlo non era bastato sentir parlare di un sudafricano anziché di un senegalese. La situazione era comunque pericolosa.
– Jerry era venuto qui per la raccolta dei pomodori, come tutti. Dormiva con altri, accampato in un rustico cadente, e una notte gli sono piombati addosso degli uomini armati, a viso coperto. Volevano portare via quel poco che avevano guadagnato, ma prima ancora di mettere le mani sui soldi hanno sparato. I suoi compagni sono stati feriti. Jerry ci ha rimesso la vita, invece. Gli hanno puntato contro la pistola, gli hanno gridato “bastardo” e “sporco negro”, hanno fatto fuoco. Tutto qui.
– Per loro è stato come ammazzare un cane, niente di più – aveva commentato un secondo ivoriano. – D'altra parte in questi posti viviamo come animali, ci trattano come tali.
– Adesso hanno identificato i quattro colpevoli – era intervenuto un altro – e dicono che sono dei “balordi”, dei ragazzi che avevano intenzione solo di rubare, non di uccidere. Dicono che il colore della pelle non c'entra, ma noi sappiamo la verità. Se fossero stati semplici ladri, avrebbero derubato degli italiani ricchi, non dei poveri immigrati come noi. Il colore della pelle c'entra, purtroppo.
Semba aveva riflettuto su quelle parole, nei giorni seguenti. Era rimasto sconcertato quando Georg, uno dei ragazzi della Costa d'Avorio, gli aveva mostrato un volantino ingiallito dal sole, incollato su una palizzata alla periferia del paese: traducendo in francese, l'altro gli aveva spiegato che cosa significasse la scritta, ma lui l'aveva già decifrata da solo, d'istinto: E' aperta la caccia permanente al negro.
[…]
Gli immigrati si sistemavano per la notte dove capitava: in baracche di legno, in stalle e cascinali abbandonati in mezzo ai campi, sotto gli alberi, nelle case popolari in costruzione, che non erano mai state ultimate. Semba aveva scelto di dormire sotto un filare di vite, perché così almeno poteva guardare le stelle prima di addormentarsi. Ma avere due cartoni sotto la schiena non era come stare sdraiato su un materasso, e al mattino si alzava più indolenzito di quando si era coricato.
Quanto a lavarsi e prepararsi da mangiare, era difficile arrangiarsi... senz'acqua. Semba e gli altri ricorrevano alla meglio alle fontane pubbliche del paese, ma da qualche giorno il sindaco le aveva fatte chiudere tutte, in seguito alle proteste degli abitanti. Lui aveva tentato anche in qualche bar., evitando quello della piazza principale, che aveva pretese di lusso. Ma i locali pubblici avevano invariabilmente i servizi “guasti” Quando poi una sera aveva ordinato a un barista un bicchiere di latte, aveva sentito qualcuno borbottare qualcosa a quest'ultimo; data la somiglianza fra la lingua italiana e quella francese, non gli era stato difficile capire che la richiesta equivaleva a qualcosa come “disinfettare il bicchiere”.
In pochi giorni, Semba si era ritrovato prigioniero di un incubo. Prostrato dal lavoro e dalle assurde condizioni di vita, non riusciva più neanche a condurre le sue ricerche come avrebbe voluto. Stava tutto il giorno nei campi con gli altri immigrati, ma i contatti erano scarsi: parlava poco, stava attento alle sue casse di pomodori, non aveva quasi nemmeno più la forza di fare domande.
Scoraggiato, aveva cominciato a pensare che non sarebbe mai venuto a capo di niente: non mi avrebbe più ritrovato, forse ero distante chilometri, forse ero riuscito a raggiungere la Francia, forse quando avevo scritto a casa avevo mentito per tranquillizzare nostra madre e in realtà a Casale non avevo mai messo piede.
A scuoterlo, dopo più di una settimana, era stata una scoperta casuale, che gli aveva ridato l'energia per proseguire. Una notte era scoppiato un violento temporale e Semba si era rifugiato in una stalla abbandonata dove dormiva con una ventina di tunisini. Era arrivato con il buio e non si era potuto guardare attorno; ma all'alba, con il cielo di nuovo sereno, aveva visto una scritta in francese, su un tramezzo di compensato che divideva il locale, ed era scattato in piedi, incapace di credere ai suoi occhi.
L'aveva esaminata bene e... sarebbe stato pronto a scommettere che quelle parole a stampatello, incise profondamente nella superficie tenera del compensato, fossero uscite dal mio temperino, quello con il manico d'avorio che mi aveva regalato prima che partissi. La conferma gli era venuta dalle iniziali H.T. Scritte più in basso e in piccolo.
Aveva riletto una decina di volte la lunga frase che avevo inciso poco per volta, notte dopo notte, a lume di candela, quando l'inquietudine mi impediva di dormire.
Un insetto più pericoloso del ragno delle mangrovie infesta i campi di pomodori. La sua testa è l'ignoranza, il corpo è l'egoismo, la coda è l'ipocrisia. Questo insetto invade le strade, si annida nelle case dei bianchi. Il suo morso uccide quello che gli esseri umani hanno di più umano, il suo veleno produce razzismo.
Semba era rimasto come paralizzato davanti a quella tavola di compensato. La scoperta avrebbe dovuto confortarlo, perché era la prima prova sicura della mia presenza a Casale, ma era il contenuto del messaggio che lo turbava. Gli sembrava impossibile che fossi stato io a scriverlo, io che gli parlavo così bene dell'Occidente, io che ero partito con tanta fiducia. Poteva darsi che nel giro di pochi mesi mi fossi ricreduto? Che cosa mi aveva fatto cambiare idea?
[…]
Un giorno, mentre all'alba aspettava di essere chiamato per il lavoro, aveva scorto in piazza, fra i caporali, un uomo di colore e se n'era stupito. Gli avevano detto che era Salim, un tanzaniano.
– E' in Italia da tre anni ed è peggio dei bianchi – gli aveva spiegato qualcuno. – Per fare soldi sarebbe disposto a tutto.
– Meglio stargli alla larga – aveva aggiunto qualcun altro. – E' senza scrupoli, e pare anche che diriga un traffico di droga.
Semba non aveva fatto caso a simili avvertimenti e aveva pensato che forse era proprio quella la persona che lo poteva aiutare: bastava giocare d'astuzia. Così, avvicinatosi, aveva detto a Salim: – Sto cercando mio fratello; può darsi che tu lo abbia visto, con tutta la gente che ti passa davanti. Se mi aiuti ad avere sue notizie, sono disposto a pagare.
L'altro lo aveva guardato prima con incredulità, poi con ironia: Semba non era mai stato abile nel dire bugie, e l'uomo aveva probabilmente capito che mentiva.
– Sei disposto a pagare? Quanto?
– Ho denaro con me. Posso darti quello che vuoi.
Il tanzaniano si era messo a ridere. – Bene, sali sul camion. E' senz'altro un buon affare e ne discuteremo nei campi. Mi piacciono i ragazzi svegli. Sento che tu e io andremo d'accordo.
Così Semba, per una volta, si era trovato ai margini di un campo di pomodori, sotto il sole cocente già di prima mattina, non a lavorare ma a parlare. O meglio ad ascoltare quello che gli diceva Salim, metà in inglese, metà in francese.
– Hamadi, dunque?
– Hamadi Tall, di Dakar.
–Senegalese, eh? Ostinati anche voi, come noi tanzaniani, Ce n'erano parecchi di senegalesi a Casale fino a qualche settimana da. Può darsi che fra loro ci fosse anche tuo fratello, Poi se ne sono andati via tutti, dopo la gran chiassata.
– Gran chiassata?
– Sono stati proprio i senegalesi a organizzare la prima protesta dei braccianti immigrati, in questa zona. Volevano ottenere la stessa paga dei bianchi e abolire le tangenti. Poveri illusi!
– E com'è finita? – aveva chiesto Semba, camminando sul ciglio della strada sterrata, al fianco del tanzaniano.
– E' finita com'era facile prevedere: la cosa non è piaciuta a qualcuno che comanda da queste parti, e i senegalesi sono stati convinti a fare fagotto e ad andarsene.
– Chi è questo qualcuno? Andrò a parlargli.
– Calma, ragazzo, calma. Non credo che saresti accolto bene. E poi Don Giuseppe ha lasciato a sua volta Casale, per fortuna. Io sono venuto qui dopo, proprio perché ho saputo che lui non c'era più. Non vado molto d'accordo né con lui né con la sua famiglia, che sta in città- Sono loro che mi hanno fatto questo regalo, ma un giorno mi sdebiterò, e ho già in mente come –. Salim si era aperto la giacca e sfilato la camicia su un fianco, mostrando una lunga cicatrice.
E Semba, già colpito da tutto il discorso, era sobbalzato. Per di più aveva notato che alla cintura dei pantaloni l'altro teneva infilata una pistola in una fondina.
Senza neanche aspettare la sua domanda, Salim aveva spiegato:
– Vedi, tre anni fa io ero come te, un immigrato senza soldi, sbarcato qui in cerca di fortuna. Lavoravo solo, ma avevo un brutto carattere. E ce l'ho ancora, lo ammetto. Una sera ho avuto una lite in un bar con dei bianchi. Loro hanno cominciato a insultarmi, a chiamarmi “faccia di scimmia”, soprattutto questo Don Giuseppe, il loro capo. Insomma, è finita in una rissa. Me la sono cavata ancora bene, con una coltellata di striscio.
– E non li hai denunciati?
– Salim era scoppiato a ridere. – A chi? Ai poliziotti? Credi che ci proteggano? Non sono loro che ci possono difendere. Dobbiamo difenderci da soli, e sai come?
Semba aveva scosso il capo, sempre più disorientato.
– Diventando forti come i bianchi, più dei bianchi, e usando le loro stesse armi. Guarda me, per esempio. Dicono che sono cattivo. Dicono che come caporale sono spietato e che ho impiantato un traffico di droga proveniente dalla Tanzania in concorrenza con i bianchi. Tu ci credi?
– No, certo che no!
– E fai male, perché è vero!
– Ma come! – aveva esclamato Semba per la seconda volta.
– Non scherzo. Ne ho passate troppe e ho deciso che tutto quello che i bianchi fanno per essere più potenti lo faremo anche noi. Se loro sfruttano e rubano, sfrutteremo e ruberemo anche noi.
– Ma... non è giusto – aveva protestato mio fratello.
L'altro lo aveva interrotto di nuovo con la sua risata.
– Tu sei qui da poco. Sai cosa succede ogni tanto agli immigrati? Che a fine giornata, quando si presentano al capo per prendere i soldi, quello gli caccia la canna della pistola sotto il naso, così... – Salim aveva estratto la rivoltella e l'aveva davvero puntata contro Semba, a pochi centimetri dal viso.
[…] E tenendogli la pistola sotto il naso il capo dice: «Oggi non ti pago, prova domani». Adesso i bianchi fanno così con noi, ma verrà il giorno in cui io farò la stessa cosa con loro.
[…] – E hai mai giocato al “tiro al birillo”? – aveva proseguito Salim. – Si gioca così: è sera, gli africani tornano a piedi dai campi, sfiniti dal lavoro. Tante sagome nere contro il cielo di un bel blu brillante. All'improvviso da chissà dove sbuca un'automobile guidata da un bianco, punta i fari abbaglianti contro gli immigrati e si lancia a tutta velocità verso di loro. Gli africani sono stanchi, hanno i riflessi lenti, sono accecati dalle luci. Fanno appena in tempo a buttarsi giù dalla strada, nel fossato. Non hai mai giocato, allora?
– No, però un giorno, mentre lavoravo, sono arrivati dei ragazzi in moto, si sono fermati ai bordi del campo e hanno cominciato a tirarci i sassi.
– Cose da ragazzi, appunto. Vedrai quando saranno grandi...

Pap Khouma, Nonno Dio e gli spiriti danzanti, Milano, Baldini Castoldi Dalai editore, 2005
Un doganiere sorridente dice a Øg in tono confidenziale: «Mi paghi e ti lascio andare con lo stereo senza perder tempo. Fratello, preferisci pagare allo Stato la tassa d'importazione, quasi il cento per cento del valore dello stereo? Siamo in un paese libero, puoi decidere come meglio credi. In tal caso dovrai presentare i documenti d'acquisto dello stereo e io dovrò produrre altre carte con tanto di timbri. Ci vuole un secolo e tante spese per le firme dei responsabili, anche loro vorranno soldi per affrettare la procedura, sai, fratello».
«E' un vecchio stereo. Lo tenevo a casa. I documenti si trovano nel mio borsone che è stato smarrito insieme alle valigie», risponde Øg.
Il doganiere smette di sorridere e alza la voce: «Non hai i documenti. Senza documenti d'acquisto questo stereo potrebbe essere rubato in un negozio in Italia. Fratello, non ti sto dando del ladro, ma rubare è grave in un Paese libero come il Sahaél. Devo sequestrare quell'aggeggio e, anche se mi dispiace, devo chiamare uno di questi poliziotti per farti arrestare. E' la legge fratello. Io faccio il mio lavoro. Fratello, come ti chiami?»
«Mi chiamo Øg!» risponde irritato. E' stanco, sudato e il doganiere è odioso.
«Cos'è Øg? Un nome toubab ? Così fate, andate a vivere a Tougal , cambiate il nome che papà vi ha dato per chiamarvi come i toubab.»
Øg sta per sputare in faccia al doganiere.
«Pardon fratello, stai bloccando la fila, è notte, la corrente va e viene, fa caldo e la gente è stanca e ha fretta, facciamola finita con questo stereo.» Abbassando la voce e sorridendo propone: «Trentamila franchi».
Øg starnutisce, si soffia il naso. Offre diecimila franchi. Quindicimila vuole il doganiere. Undicimila rilancia Øg. Ok, undicimila, fratello Øg.
«Bienvenu in Sahel, fratello... non mi ricordo più il tuo nome», sorride il doganiere.
Øg si mette in un'altra fila per la denuncia di smarrimento dei bagagli, insieme ai viaggiatori nella stessa situazione. Ha già patito due giornate di sciopero e di freddo all'aeroporto di Linate.
«Le agitazioni all'aeroporto di Linate hanno creato non pochi disguidi anche qui a Taagh», osserva un impiegato chiacchierone. «I loro addetti confondono Gambia con Zambia, Mali con Malesia, Paesi agli antipodi, non so... Praga con Parigi, Dakar con Dacca. Per loro, la geografia è un opinione. Le vie del Signore... come diceva Christophe Colomb, prima di scambiare l'India con quella che diventò l'America...»
«Cosa devo fare?» interrompe Øg.
«Aspettare, fratello! Hanno mandato i bagagli chissà dove! Forse in Malesia.»
«Non ho niente da mettere domani.»
«Chiamaci dopodomani.»
«Se non arrivano?»
«Riprovaci il giorno dopo.»
«Quanto dovrò aspettare? Ho poche settimane di ferie. Devo tornare a Milano.»
«Sapessi quanta gente muore di stupide malattie tutti i giorni in questo Paese! Tu hai solo perso due valigie e un borsone. Ti rimangono la salute e la pace nel corpo. Non fare il toubab, fratello, ringrazia nonno Dio perché è generoso, non ti ha ancora tolto la vita. Chi vive aspetta! Benvenuto in Sahaél e notte in pace, fratello.»
[…]
«Yaay», balbetta Øg provando a sorridere e ad abbracciare sua madre.
«Yaay, un corno, Non mi chiamare così», taglia corto sua mamma in piedi in mezzo alla stanza. «Temevo di non vederti più. Nonno Dio è generoso, figliolo», balbetta malinconica la madre, che però non può più celare la sua felicità. Con un sorriso che le illumina il viso solcato dalle rughe dice: «Hai viaggiato in pace, figlio? Sei arrivato in pace? I tuoi vicini in Francia stanno in pace?»
«Mamma, ero in Italia.»
«Fa niente, auguriamo la pace anche agli abitanti della Francia e dell'Allemagna. Che nonno Dio dia la pace nel corpo e nello spirito a tutti i tuoi conoscenti in Italia!»
«Grazie, mamma.»
«Sei dimagrito, figlio mio. Forse non stavi bene nel corpo e nello spirito a Parigi?»
«Yaay, ero a Milano.»
«Auguriamo la pace anche agli abitanti di Milan, Paris, Marseille. Qual è il Paese più vicino all'Italia?»
«Tanti Paesi...»
«Come si chiamano questi tanti Paesi?»
«Svizzera, Austria, Jugoslavia, Tunisia...»
«E poi?»
«Albania, San Marino, Francia...»
«La pace a... a tutti questi tanti Paesi. Figlio mio, e i massoni di che Paese sono? Qui parlano male dei massoni. I massoni non costruivano case? Nonno Dio... la pace anche ai massoni.»
«Pace sia coi massoni, yaay.»
«Così ti presenti all'improvviso, figlio. Per me non è affatto una sorpresa, figlio amore. Sai che l'avevo già sognato l'altra settimana? Ti racconto: ho rivisto il mio piccolo Dawuda, magrolino, con questi stessi capelli spettinati, coi soliti pantaloni troppo larghi che ti cadevano, correvi verso di me, dicendo yaay, yaay. Stamattina poi, tutta la famiglia si è svegliata presto perché hai iniziato a russare. Quando russi, Dawuda, sembri il motore del vecchio taxi di tuo padre. E durante la notte ho sentito le mie pecore belare. Dawuda, spegni quella sigaretta e non me lo far ripetere! Apriamo la finestra?»
[…] Penda Mangane parla, senza mai alzare la voce e chiama suo figlio Daeuda, mai Øg Dem, e ha costretto tutti a chiamarlo come vuole lei. «Øg, che razza di nome è?» ha sempre detto «Non significa niente. Un nome inventato da quello stravagante di mio marito!»
«Dawuda, perché non mi chiedi se tua moglie Sagar, tuo figlio Mory qui presente, i tuoi fratelli, i nostri vicini, i nostri parenti lontani stanno in pace?»
«Yaay avete la pace in casa? Sagar, il mio piccolo Mory, i fratelli, i vicini hanno la pace? Il quartiere ha la pace? Tutto il paese vive in pace, mamma?»
«Ti dico una cosa: noi, come vedi, non ci lamentiamo, abbiamo tutto, mancava solo la tua presenza. L'importante è che tu sia tornato vivo, è un regalo come tanti che nonno Dio ci fa ogni giorno. Nonno Dio ha esaudito le mie preghiere, lo ringrazio ancora.»
«Nonna, mandalo via», dice ancora Mory, nascosto dietro la nonna senza guardare il padre.
«Mory, lui è Dawuda, tuo padre. Figlio mio hai un brutto raffreddore.»
«Solo un po' di raffreddore, yaay.»
La mamma tocca il petto del figlio, sente il battito del suo cuore, lo accarezza.
«L'importante è che tu sia qui.»
«Sei dimagrita yaay!»
«E' l'occhio di un professionista, figliolo? Qui raccontano che sei diventato un dottore. E' vero?»
«No, yaay, sono infermiere.»
«E' sempre un mestiere straordinario. Chi cura la gente andrà in paradiso. Che brutto raffreddore, figliolo. Faccio preparare subito un bollito di ossa di ginocchio di manzo, lo devo bere caldo e ti passerà.»
«Maam, dove abita Dawuda?» chiede Mory, tenendosi lontano dal padre, che è impaziente di coccolarlo.
Øg si avvicina al figlio, ma Mory scappa.
«Dawuda Dem, figliolo, siamo ancora sani. Mio figlio Sadio è stato ingiustamente accusato. Prego tutti i giorni per lui. I Libanesi sono lontani, nella savana e preghiamo sempre perché finisca questa tragedia. Tu preghi, figliolo?»
Øg sorride al figlio, allunga le mani per sfiorarlo. Mory si nasconde dietro la nonna.
«Preghi figliolo?»
«Mory, vieni qui.»
«Maam, mandalo via dalla nostra stanza», insiste Mory.
«Tuo figlio e tua moglie Sagar hanno sofferto tanto. Cosa ti tratteneva all'estero? Me lo sono sempre chiesto. Non ho mai trovato una risposta.»
«Mamma lo sai, ero ricercato dalla gendarmeria per diserzione. Mory, vieni qui da me per favore.» Il figlio si nasconde dietro la nonna.
«La diserzione è ormai una vecchia storia. Non si abbandonano moglie e figlio. Devi chiedere perdono a Sagar, è una brava ragazza. Ti è rimasta fedele per sette lunghi anni. Devi organizzare un ricevimento per lei e invitare tutti i parenti e i vicini. La devi onorare. Altrimenti sei un infame e nonno Dio ti farà scontare tutte le privazioni e le umiliazioni che lei ha subito per colpa tua.» La mamma si asciuga le lacrime. «Tua moglie è una donna meravigliosa. Dawuda, figlio mio, perché non la smetti di fare il viaggiatore, il vagabondo?»
«Maam, manda via il vagabondo», insiste Mory.
«Amore, fammi finire con tuo padre. Stai con me, Dawuda, figliolo. Nonno Dio ci aiuterà.»
«Maam, hai detto che è un vagabondo.» Mory continua a sfuggire al padre.
«Mory, hai sentito la nonna? Sono tuo padre, vieni vicino a papà.»
«Mio papà non è un vagabondo.»
«Mory, abbi pazienza, dopo ti spiego tutto», interviene la nonna asciugandosi le lacrime. «Preghi, figliolo? Sai cosa diceva mia madre a proposito della preghiera? Che suo padre diceva...»
«Yaay, lo so! Me l'hai ripetuto per tutta la vita. Mory, vieni da papà.»
«Spero tu non sia diventato un toubab. Stasera stessa ti faccio preparare un bollito con ossa di ginocchia di manzo col pepe, bevuto bello caldo... Per la colazione di stamattina, spiedini di agnello, omelette, pane, burro, latte...»
«Non esagerare, yaay.»
«Sei troppo magro, devi ingrassare. Ti cercherò dei buoni gri-gri, per proteggerti dalla malasorte e dalle malelingue.»
«Mamma, non voglio i gri-gri, non li metto.»
«Allora sei diventato toubab. Mory, resta con tuo padre, se vuoi, ma attento a quel raffreddore dei toubab.»
Il bimbo scappa dietro la nonna che, mentre esce dalla stanza, borbotta a voce bassa: «Nonno Dio, cosa mai ti ho fatto? Ti venero sempre e ti prego cinque volte al giorno, non offendo nessuno, non litigo coi vicini di casa, non maltratto gli animali, neppure i cani, non rubo, non racconto bugie, aiuto i deboli, faccio l'elemosina, la mia casa è sempre aperta, il mio cibo è poco ma è per tutti. Vedi nonno Dio, mio marito è stato ucciso da un car-rapide. Il mio Sadio marcisce in carcere accusato di corruzione, in un Paese dove i funzionari che non sono corrotti o non rubano tutti i giorni sono disprezzati da colleghi e parenti. Mando il mio Dawuda all'estero per evitargli l'arresto e lui ne approfitta per dimenticarsi di moglie e figlio. Ho provato con tutti i gri-gri del mondo, ma la cattiva sorte è sempre stata implacabile con la mia famiglia. Nonno Dio, dov'è la tua misericordia?».

Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, Roma, Edizioni e/o, 2006
La verità di Stefania Massero[…] Amedeo soffre di mal di stomaco da quando lo conosco. Rimane molto tempo chiuso nel piccolo bagno prima di andare a letto. Ha fatto molte analisi, però senza esito. Tutti i medici che l'hanno visitato hanno detto che il suo stomaco è sano. Ha l'abitudine di rimanere chiuso a lungo nel piccolo bagno ogni notte, prende un registratore per ascoltare la musica, per distendersi i nervi e rilassare le viscere, dice. Ho letto su una rivista scientifica che il medico arabo Avicenna curava i suoi pazienti con la musica. Amedeo ogni tanto soffre di incubi. Non gli ho mai chiesto nulla, perché “l'incubo è la finestra che il passato usa per entrare nei vestiti del ladro”, come dice uno scrittore francese.
L'ho sentito molte volte pronunciare parole incomprensibili. Una volta si è svegliato dal sonno spaventato ripetendo: «Bàgia! Bàgia!». Sudava come fosse fuggito dall'inferno. Il giorno seguente non ho potuto reprimere la mia curiosità e gli ho chiesto il significato della parola Bàgia. Lui non mi ha risposto e mi ha guardato con rimprovero, forse per ricordarmi il nostro accordo fatto prima del matrimonio: il passato è come il vulcano, attenzione a non svegliarlo! La parola Bàgia mi si è radicata nella memoria e ho provato a scoprirne il significato. Ho chiesto ad alcuni clienti arabi che frequentano l'agenzia, ma non sono riuscita a svelare il mistero.
No. Io dico che non c'è alcun nesso tra l'uccisione di Lorenzo e la scomparsa di Amedeo. Sono sicura che Amedeo è innocente. Non esiste un solo motivo che possa averlo indotto a commettere quest'atto orribile. Il Gladiatore non era una persona amata dagli inquilini del palazzo, questo si sa. Ha fatto del male a tutti senza chiedere scusa a nessuno. Non è giusto colpire Amedeo in questo modo. Chiedete di Amedeo alla gente di piazza Vittorio, vedrete quanto era amato da tutti. Non ha esitato ad aiutare chi ne aveva bisogno senza aspettarsi nessuna ricompensa.
E' riuscito, ad esempio, a convincere i bengalesi a mandare le mogli a scuola. Amedeo ha compiuto con successo una difficile missione. La scuola per queste donne è un'occasione per incontrarsi, per parlare, per uscire dalle quattro mura. Anzi, è un vero e proprio pretesto per abbandonare la prigione. Molte donne soffrono di una grande solitudine lontane da casa, nell'estraneità, eppure preferiscono rimanere in Italia perché il biglietto è troppo caro e non possono permetterselo. Tanti bengalesi tornano nel loro paese d'origine una volta ogni cinque anni o anche più raramente. Parlare è utile per sfogare la tristezza, l'angoscia, la nostalgia e l'assenza dei cari. Gli uomini sono terribilmente chiusi, vivono come fossero a Daka, mangiano riso e indossano vestiti bengalesi e vedono film in video. Spesso mi chiedo: vivono veramente a Roma?
Non so dove sia adesso, temo gli sia accaduto qualcosa. Lo cerco dappertutto, spero che stia bene. Sono tanti gli interrogativi intorno alla scomparsa di Amedeo per questa orribile accusa di omicidio. Ma io sono ottimista e convinta della sua innocenza. Lo difenderò senza tregua e fino alla fine![…]
Nono ululato:
Mercoledì 29 settembre, ore 23.09
Povera Stefania, è preoccupata per me, crede che soffra di dolori allo stomaco. Il problema è che lo stomaco della mia memoria non ha digerito bene tutto quello che ho ingoiato prima di venire a Roma. La memoria è proprio come lo stomaco. Ogni tanto mi costringe al vomito. Io vomito i ricordi del sangue ininterrottamente. Soffro di un'ulcera alla memoria. C'è un rimedio? Si: l'ululato! Auuuuuuuuu...
Giovedì 24 giugno, ore 22.57
Il maledetto incubo mi perseguita. Stefania mi ha detto questa mattina che ho gridato durante il sonno e che ho ripetuto molte volte il nome Bàgia. Non ho voluto rivelarle i dettagli. E' inutile farla partecipare al gioco degli incubi. La mia memoria è ferita e sanguina, devo curare le ferite del passato in solitudine. Peccato, Bàgia si fa viva solo negli incubi avvolta in un lenzuolo macchiato di sangue. Oh, mia ferita aperta che non guarirai mai! Non ho consolazione al di fuori dell'ululato. Auuuuu....
La verità di Abdallah Ben Kadour
Perché si è fatto chiamare Amedeo? E' questa la domanda che mi lascia molto perplesso. Il suo vero nome è Ahmed, un nome preziosissimo perché è uno di quelli del profeta Maometto e viene menzionato sia nel Corano che nel Vangelo. Francamente non apprezzo molto chi cambia il suo nome o rinnega le sue origini: ad esempio so che il mio nome è Abdallah, e sono molto bene che è un nome difficile da pronunciare per gli italiani nonostante abbia giurato di non cambiarlo finché sono vivo. Non voglio disobbedire a mio padre, che mi ha dato questo nome, né a Dio, che ci ha vietato di disobbedire ai genitori. Cambiare nome è un peccato capitale come l'omicidio, l'adulterio, la falsa testimonianza, come derubare gli orfani. Molti italiani che conosco hanno provato a convincermi a cambiare nome e mi hanno proposto una serie di nomi italiani come Alessandro, Francesco, Massimiliano, Guido, Mario, Luca, Pietro e altri ancora, però ho rifiutato decisamente. Il problema non finisce qui. Alcuni hanno usato un trucco molto diffuso a Roma che consiste nell'eliminare la prima parte del nome o la seconda parte. Così ho sentito che mi chiamavano Abd, cioè schiavo, o Allah! Ho chiesto perdono a dio perché perdona tutti i peccati tranne il politeismo. Ho cercato di mantenere i nervi saldi spiegando loro che tutti gli uomini, compresi i profeti e i messaggeri di Dio, sono suoi servi, e che perciò il mio nome non ha niente a che fare con la schiavitù diffusa ai tempi di Kunta Kinte. Così mi sono ritrovato stretto tra due fuochi: o cadere nella trappola del politeismo ogni volta che qualcuno mi avesse chiamato Allah o sopportare le offese di tutti coloro che mi avessero chiamato Abd. Alla fine ho trovato una via d'uscita da questa impasse grazie al mio amico egiziano Metwali, che mi ha consigliato di fare una piccola modifica al nome. Mi ha detto che gli egiziani hanno l'abitudine di dare il nome di Abdu a tutti coloro che portano un nome che inizia per Abd: Abdrahaman, Abdalkarim, Abdkader, Abdrahim, Abdjabar, Abdhakim, Abdsabour, Abdaraouf. Ho accettato perché questa soluzione mi evitava i problemi di cui ho parlato fino a ora. […] Non cambierò pelle, né religione, né il mio paese, né il mio nome per nessuna ragione. Sono fiero di me stesso, diversamente da quegli immigrati che cambiano i loro nomi per far piacere agli italiani. […] Sapete di quel corvo che voleva imitare il modo di camminare della colomba e dopo vari tentativi inutili ha deciso di riprendere il suo modo naturale, e a quel punto scopre che non se lo ricorda più?
Amedeo è del mio quartiere. Lo conosco molto bene come conosco tutta la sua famiglia. Suo fratello minore era uno dei miei più cari amici, compagno di scuola e di giochi. Ahmed era una persona amata e stimata nel quartiere. Non ricordo che abbia litigato nonostante le frequenti risse tra le bande giovanili, un fenomeno molto diffuso nei quartieri di Algeri. La disgrazia di Ahmed è iniziata quando è morta la sua fidanzata Bàgia, la figlia dei vicini. Ahmed l'amava fin da piccolo, voleva sposarla, ma purtroppo le cose sono andate in modo diverso. Bàgia, che in arabo significa gioia, è un nome femminile e così viene chiamata Algeri.
Un giorno Bàgia era andata a trovare sua sorella a Boufarik, non lontano da Algeri, e mentre tornava in pullman i terroristi hanno organizzato un finto posto di blocco facendosi passare per poliziotti e hanno sgozzato tutti i viaggiatori tranne le ragazze. Bàgia ha provato a fuggire dai criminali e a salvarsi dallo stupro, così le hanno sparato una raffica di mitra. Ahmed non ha saputo accettare quella tragedia. E' rimasto chiuso in casa per giorni, poi è scomparso. Nel quartiere giravano diverse ipotesi: c'era chi sosteneva si fosse arruolato nell'esercito in cerca di vendetta contro i fondamentalisti armati, chi sosteneva che avesse raggiunto i combattenti armati sulle montagne come segno di rifiuto e di condanna verso lo stato, chi affermava si fosse isolato entrando in una setta sufi nel Sahara e vivendo come i tuareg, e infine qualcuno ha detto che Ahmed era impazzito e vagava mezzo nudo nelle strade. […] Poi un giorno l'ho visto al mercato di piazza Vittorio dove vendo il pesce. L'ho chiamato: «Ahmed! Ahmed!». Ma non mi ha risposto. Mi è sembrato facesse finta di non riconoscermi. Alla fine mi ha salutato, ma freddamente. Era in compagnia di una donna italiana, ho saputo solo dopo che era sua moglie. Ci siamo incontrati più volte al bar Dandini. Non era entusiasta di sapere le ultime notizie sull'Algeria, così ho deciso di evitare di parlargli di argomenti che riguardavano il nostro paese per non infastidirlo. Non ho osato nemmeno consigliargli di abbandonare il nome Amedeo e di tornare al suo nome di origine Ahmed, che è il nome del Profeta, la pace sia su di lui. Si dice che tornare all'origine sia una virtù!
Ricordo ancora le paure che mi hanno assalito quando ho sentito la gente chiamarlo Amedeo. Ho temuto che avesse rinnegato l'Islam. Non ho esitato un istante, gli ho chiesto con angoscia e inquietudine: «Ahmed, ti sei convertito al cristianesimo?», e lui mi ha risposto in modo sereno: «No». A quel punto ho tirato un bel respiro e a voce alta: «Sia lode a Dio! Sia lode a Dio!».
Non vedete cosa dicono i giornali su Ahmed? Quando hanno scoperto che è immigrato e non un italiano non hanno esitato ad accusarlo di omicidio. Certo, Ahmed ha sbagliato a nuotare fuori dal suo bacino naturale.