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Svegliatevi bambine





lunedì 04 aprile 2011 legge Silvia Cavalieri
I testi raccolti, scritti da varie autrici, hanno saputo tradurre il senso di inadeguatezza davanti ai canoni imperanti, contribuendo a restituire densità e profondità al reale variegato vissuto femminile. Voci e stili diversi; frammenti da un’infanzia lasciata indietro per forza, battaglie per la sopravvivenza quotidiana, le discriminazioni sul posto di lavoro, occupazioni perdute e altre inventate, la complicata decisione di avere un figlio in un paese che enfatizza la maternità per poi abbandonare le madri a loro stesse, il fascino e la potenza delle parole, la ricostruzione di una vita dalle macerie. Traumi e rinascite: vite in corso, fra fatica e fantasia, o vite spezzate troppo presto, immortalate dalla voce di chi non vuole scordarle.


cura dell’associazione Donne Pensanti
Selezione di testi da

Svegliatevi, bambine! – Voci dal pluriverso femminile


Silvana Sciortino
Quando mia madre Silvana Sciortino scelse la politica a tempo pieno, era una moglie giovane e bella, aveva un figlio, un lavoro, un solo esame dalla laurea. Dieci anni di impegno “totalizzante”, come lo definiva lei stessa, comportarono rinunce e stress su tutti i fronti, tante ore di studio e lavoro, tante sere fuori casa, tante amarezze e sconfitte che ogni volta ponevano il dubbio se di tutto questo valesse la pena. Eppure io non serbo alcuna impressione di una sua mancanza; il mio ricordo è quello dell’orgoglio per una mamma che faceva un lavoro pubblico importante, che era conosciuta e rispettata da moltissime persone, che col suo esempio ti dava la voglia di impegnarti sempre per cambiare le cose.
Chi l’ha conosciuta in quei tempi concorderà che nella sua scelta politica non era centrale l’ideologia del partito o del movimento. Ciò che la caratterizzava, generando rispetto e considerazione anche tra gli avversari, era una passione civile unita ad un pragmatismo probabilmente derivato dalla sua formazione scientifica. Questa identità trovava la propria migliore espressione nel Consiglio Comunale della città d’adozione di Silvana. In questo contesto, pur se sempre tra i banchi dell’opposizione, emergeva di Silvana un profilo istituzionale, un approccio che alla ferma e ostinata critica verso chi governava univa sempre la volontà di proporre un’alternativa possibile.
Nel suo agire politico Silvana coltivò anche con compiacimento quel suo “stile” personale che le veniva riconosciuto. Non sacrificò mai la propria femminilità, essendo peraltro talvolta in grado di reagire anche con gesti “maschilisti”: ricordo la definizione, per così dire, sintetica che diede di due ex-compagne che si erano fatte “comprare” da un altro schieramento cedendo alla seduzione di una nascente politica luccicante ed affarista. Silvana era capace ugualmente di trovare parole che chiamavano in causa i sentimenti di ciascuno come di esprimere giudizi sarcastici e trancianti; in politica strinse grandi e profonde amicizie come consumò asprissimi e memorabili contrasti.
Il ricordo della sua passione ha preso forma e sostanza nell’Associazione che ne porta il nome, fondata e sostenuta anche dalle amiche e compagne con le quali Silvana aveva condiviso i primi passi del suo impegno. Vent’anni dopo, il suo Comune le ha dedicato una stradina di campagna.
Andrea Macchi Il cervello delle mamme" Definire una persona priva di occupazione fissa remunerata come disoccupata è quanto di più errato ci sia. Già la sola ricerca di un lavoro mantiene la suddetta persona occupata a leggere infiniti noiosissimi annunci di lavoro su giornali di ogni genere e pagine internet sparse per la rete, parlare con chiunque si conosca anche lontanamente del fatto che si sta cercando lavoro, telefonare, scrivere email ma soprattutto scrivere curricula vitae specifici per ogni datore di lavoro, che ormai lo sanno tutti che scrivere un unico CV per tutti non va bene.
Se la persona priva di occupazione fissa remunerata è anche una mamma, allora la cosa si complica. Ovviamente perché come al solito si hanno tante cose da fare, ma non solo per questo. Diciamo che io ora mi trovo a scrivere il mio CV, e c’è un grosso… come definirlo …sì, un buco. C’è un buco tra la mia ultima occupazione remunerata e oggi. Il buco è ovviamente dato dalla mia gravidanza, durante la quale non ho trovato un briciolo di azienda disposta a darmi lavoro (complice anche la crisi finanziaria scoppiata proprio all’inizio della mia disoccupazione), e da questi dieci mesi di maternità, in cui sono stata a casa con il mio piccolo Pollicino. Ecco io quel buco nel mio CV vorrei tanto riempirlo con la riga: 2009-2010 Dieci intensissimi mesi di maternità
Ma non solo. Vorrei aggiungere qualcosa sulle skills imparate e affinate in questo periodo, perché penso che siano importanti per me come persona, e per il mio futuro datore di lavoro. Qualcosa sul genere: Durante questo periodo ho imparato ad esercitare le mie doti di pazienza fino allo stremo. Ho imparato a gestire conflitti, e ad osservare le cose da punti di vista differenti. Ho affinato le mia capacità di problem solver e sono diventata un campione di. Efficienza è diventato il mio secondo nome, e lavorare a progetti un modo di vita. Naturalmente potrei scrivere molto di più ma bisogna selezionare tra le centinaia di o abilità imparate durante la maternità per indicare solo quelle che possono essere appetibili al futuro datore di lavoro. Per un lavoro di tipo manageriale potrei parlare delle mie capacità di leadership.Per un lavoro in cui si tratta con clienti potrei sottolineare le capacità di ascolto e di empatia per cercare di capire le esigenze degli altri. E così via.
Se la maternità mi ha insegnato tanto, e ha fatto di me una persona più completa e anche una potenziale lavoratrice più competente, le aziende dovrebbero gioire nel leggere quella riga sul mio CV: 2009-2010 Dieci intensissimi mesi di maternità
Meditate aziende. Meditate.
Serena

Più tempo a casa – La scelta di A.
Cara Silvia,
una mail da me sarà  proprio l’ultima cosa che ti aspettavi, perché sì, tu mi conosci benissimo fuori dalla rete. Non sono italiana, ma sono belga e molto felice di vivere in Italia, anche se con due figlie femmine ogni tanto la mercificazione del (corpo) femminile, in questo Paese, mi fa paura, e mi chiedo come cresceranno loro, che sono comunque soprattutto italiane, e che immagine ne ricaveranno di se stesse.
Le donne italiane sono bellissime, curatissime e molto attente allo stile, ma spesso ridotte solo all’apparenza. Il solo termine “ragazza-immagine” è intraducibile in nederlandese, figuriamoci tutte le sue implicazioni culturali. Comunque, non ti scrivo per filosofeggiare, ma per raccontare la mia storia. Credo fermamente nei valori femminili, e sono anche convinta che emancipazione femminile non vuole dire copiare i comportamenti maschili. La mia vita quotidiana, fatta prevalentemente di casa e famiglia, probabilmente farebbe inorridire una qualsiasi femminista anni ‘70, ma c’è una differenza fondamentale: la mia è una libera scelta. Ho la fortuna di poter abbinare lavoro e casa nel modo migliore, facendo un piccolo part-time che mi occupa tre mattine a settimana, e per il resto del tempo posso dedicarmi alla famiglia, con tutti gli onori e oneri che comporta. Posso cucinare (e mi piace tanto), stirare (e mi piace meno), badare personalmente alle bambine (anche se capita che vorresti buttarle fuori dalla finestra per disperazione!). Mi rendo conto che la scelta di lavorare poco fuori casa rende la vita di tutti i componenti della famiglia meno stressata. È una vita che a qualcuno può sembrare squallida, ma fa veramente per me e mi fa sentire realizzata e felice. Non sento il dovere di giustificarmene, anche se visto che ti sto scrivendo è proprio quello che sto facendo.
A.

Eppure sono stata qui!
In Piazza Fanti, la sua casa. Santa Maria Maggiore, Piazza Vittorio, la Stazione… i luoghi che hanno fatto da scenario alla sua giovane e breve esistenza. Katia, troppo presto è stata estromessa dal banchetto della vita. Ora non restano che amare riflessioni e dolci ricordi. Chissà quante persone avranno ormai cancellato dall’agenda il suo nome con relativo telefono e l’indirizzo? Quando è che hanno preso la gomma per cancellare quel nome? Oggi, ieri, dopo un anno forse? Quale sarebbe stato il tempo e il momento giusto per farlo? E se lo hanno già fatto non hanno sentito un momento di piccola morte interiore? Far sparire da un’agenda un nome sembra un azione facile solo quando con quella persona hai deciso di chiudere un rapporto, ma penso che cancellare una persona perché è morta è un gesto che richiede una riflessione. Penso che per gli amici di Katia non deve essere stato facile, per nessuno di quelli che l’hanno conosciuta deve essere stato facile. Quanti ancora conservano i suoi messaggi nel telefonino? Quanti non hanno avuto la forza di togliere per sempre dalla loro agenda il suo nome? Ogni persona che non c’è più e resiste in quelle agende è una dimostrazione tangibile di presenza, di vicinanza, e di amore, un modo per sottrarre il suo nome e il suo passato all’oblio. Incredibile come l’assenza e il vuoto possano essere riempiti dal ricordo. La misura è colma, straripa e crea immagini e pensieri a flusso continuo. Il confluire del presente e del passato che si amalgamano all’infinito… Come delle scatole cinesi: un ricordo ne contiene un altro e poi un altro ancora… uno che si era quasi perduto riaffiora dolcemente dal profondo abisso mentale… Il passato s’insinua nel presente. Così la capacità di ricordare più che altro diventa un’ancora di salvezza, un regalo inaspettato, una resurrezione con dei flashback continui che si rincorrono: tutto mi parla di lei: mia figlia. I molteplici multicolori negozi degli indiani dove spesso andavamo alla ricerca dei monili più originali, poi quelli dei cinesi, che invece non andavano mai bene per niente, perché con le sue braccia e gambe lunghe era impossibile trovare un abito decente, e figuriamoci un pantalone! L’edicola di giornali sotto casa, dove immancabilmente prima di andare al lavoro si intratteneva a chiacchierare con le persone del quartiere… il postino che ogni giorno citofona per la posta e che un tempo era stato suo collega … Ogni cosa, ogni angolo di strada o di casa parlano sempre di lei… Nella nostra casa ci sono ancora i segni sull’angolo della porta d’ingresso, dove le due amate sorelle, Katia e Barbara si divertivano tanto a essere misurate dal papà nella fase di crescita… Altri segni tangibili del suo passaggio li ritrovo nelle pagine delle riviste e dei libri che sfoglio. Quasi tutti, quelli che Katia ha letto, hanno dei brani messi in evidenza con dei segni di penna che delimitano dei brani o che sottolineano articoli che racchiudono parole che evidentemente le hanno scaldato il cuore, passi di letteratura che le sono sembrate rivelazioni, oppure segnati perché le hanno scatenato emozioni sopite… altri contengono al margine degli appunti e considerazioni indirizzati a me, visto che li leggevo sempre dopo di lei… anche quello era un modo di comunicare… Nella casa da lei abitata, quella che aveva in affitto a fianco alla nostra, sono sparite le tracce del suo passaggio, cancellate dalle pareti imbiancate. Tutto sparito, nulla resta a raccontare la sua storia… Un nuovo inquilino entra, mette le sue cose dove prima c’erano quelle di Katia e… magicamente si ricompone una casa. Non più la sua, ma deve essere rimasta nell’aria il suo spirito gioioso, si creano atmosfere cariche di magia, che in me producono singolari epifanie… Sul ballatoio davanti alla porta dell’ascensore, proprio sul pianerottolo, giunge come una volta, una musica a tutto volume che attraversa la porta chiusa del nuovo inquilino. La vita continua. Ritorna l’energia vitale della gioventù che torna ad animare quelle stanze, le pareti si riempiono un’altra volta di libri sugli scaffali, giungono a noi le voci e il frastuono delle allegre serate, altri giovani ragazzi s’incontrano, vanno e vengono in continuazione da quella casa: solo Katia non tornerà più. Esco di casa e m’incammino per le stradine che avvolgono il quartiere come un gomitolo sfilacciato… sanpietrini divelti, cartacce: residui d’involucri mangerecci, di pagine di giornale, di buste di plastica vuote, che volano al primo soffio di vento. Ecco, arriva una folata più forte che insieme alle carte scompiglia i miei pensieri, li mescola e li confonde sparpagliandoli alla rinfusa. Continuo a camminare, i miei occhi si posano sui mie piedi: calzo le scarpe di Katia. Un rito questo ormai consolidato: ogni giorno porto a spasso un frammento di lei, una “cosa” che apparteneva a lei. Un golfino, una borsa, un monile: un procedere mentale che sembra rafforzare il “sempre insieme”. Attraverso i vicoli l’evocazione del ricordo è forte: i giardini di Piazza Vittorio, dove lei, insieme con il suo cane amava passeggiare; questi ruderi, i sassi, gli alberi non hanno memoria, ma questo cielo, io lo so, questo prato sono stati accarezzati dal suo sguardo, sono stati amati e vissuti. Per questo credo che il suo riflesso e la sua essenza è rimasta impigliata tra i rami degli alberi, come un palloncino sfuggito tra le dita al bambino, così la sua vita sfuggita alla terra… Eccola tra i fiori dei melograni, eccola che circola tra i gatti del giardino che si stendono pigri al sole. Lei non è scomparsa completamente. Ci è rimasto il ricordo addosso. Il suo sguardo era luminoso. Tutto di lei irradiava luce e calore, perché lei amandoti ti lasciava, come le farfalle, un poco del suo colore addosso. Perché quando rideva fragorosamente, e solo così sapeva farlo, ti rovesciava addosso un cascata di allegria contagiosa. Ora sopra ogni cosa la sua assenza s’impone (s’imprime) come un ombra. Prima era una luce abbagliante, ora è un’ombra che si sposta sopra ogni cosa… non conosce luoghi invalicabili, non esistono limiti o barriere. L’invisibile non è il nulla! Basta crederci. Una farfalla m’investe sfiorandomi dolcemente i capelli… A volte, mentre sono in giro nel quartiere ho degli strani pensieri, che forse mi procurano anche delle allucinazioni o delle vere e proprie illusioni ottiche… Una ragazza con il fisico sottile e il passo danzante mi passa accanto, si allontana, quasi fluttuando, con i lunghi capelli che ondeggiano al vento, una lancinante fitta al cuore mi inchioda… Dolore, ricordo, rabbia, amore, spasimo, assenza, vuoto, sgomento… Non è lei quella ragazza… Ricordo malinconicamente che anche Katia è passata di qui… Mamma Bruna

La frase d’inizio è tratta dal libro L’identità di Milan Kundera)

Come rinata dalle rovine

Questa storia inizia dalla fine. Inizia dall’ultimo viaggio fatto, segno di rinnovata curiosità e vitalità, ma portatore di una storia imperfetta e di una rinascita interiore che avviene, necessariamente, dopo una morte.
Guardando il libro di Chatwin sul comodino recito ad alta voce il titolo “ Che ci faccio qui?” . E’ Natale e sono in Bosnia, insieme al mio compagno decidiamo di visitare Sarajevo e Mostar in particolare. Mostar ci appare come una città semi deserta di nuvole e ruderi, riempita dal fiume dalle acque verde bottiglia che la attraversa e da uno splendido, minuscolo, centro che ricorda un piccolo paese della Germania medioevale.
Mostar, prima assediata dai serbi e poi caduta vittima di una tremenda guerra civile tra musulmani e croati. Sarajevo invece presenta un intrico di strade magnetiche e bellissime dallo stile arabo e austro-ungarico, crocevia di religioni di cui i volti della città sono evidente testimonianza. Colorata e variegata oggi, nei veli delle ragazze arabe e negli stili simil-europei delle vetrine, nelle tradizionali chiese ortodosse, fredde, e nelle vivide facciate delle case delle colline che circondano la città. Tutto questo non nasconde le profonde cicatrici della città, sia sottoforma di buchi nelle case provocati dagli spari, spesso otturati con stucchi di fortuna, sia sottoforma di spazi aperti fitti di lapidi che siano orti, giardini pubblici e privati, colline intere… Le macerie e la distruzione ancora visibili raccontano dell’assedio durato 4 anni, mentre l’Europa e il mondo stavano a guardare, quasi immobili, quel massacro di innocenti. La sensazione di intensa empatia con il territorio, provata mentre passeggio per le strade, mi dà la risposta al quesito chatwiniano: forse sto solo camminando dentro me stessa e dentro la mia storia di questi ultimi anni. E così rivivo il mio personalissimo assedio, anch’esso conseguente ad una scelta di indipendenza. Una scelta che poteva parere normale, certo dolorosa, ma legittima. Ho scelto di separarmi dall’uomo con cui ero sposata da diversi anni e dal cui matrimonio è nata mia figlia. La mia scelta di indipendenza, di cui non è stato da lui né ascoltato né ovviamente capito il motivo, ha portato ad una dichiarazione di guerra. Al posto delle bombe, insulti e minacce, aggressioni verbali silenti e urlate dalla finestra, appostamenti, e un’aggressione fisica. Al posto dei cecchini, voci incontrollate sparse nel quartiere dove io e mia figlia viviamo, tentativi di inquinare la psiche di una bimba di 6 anni per cercare di convincerla che la madre le aveva rovinato la vita. Il mio assedio è durato un anno e mezzo, interrotto solo nelle sue forme più plateali, da una brava avvocatessa che ha pensato di non intraprendere vie giudiziarie, con l’idea di paventargli le possibili conseguenze, prima di agire legalmente. Ella non ha esitato a definire stalking tutto questo. Pochi hanno condannato questi atti, giustificando ciò con il dolore di un abbandono ( …e che cosa ti aspettavi?); pochissimi hanno cercato di capirne veramente le ragioni (io non sto dalla parte di nessuno); alcuni l’hanno giudicata da fuori, senza conoscere, ascoltando le lamentele e i pianti di un uomo che si spacciava per vittima mentre era aggressore, ricattante e violento. Molti hanno giudicato le apparenze, senza nemmeno pensare a cosa possa significare assumersi la responsabilità di interrompere un matrimonio, senza capire che, se lo si fa, è perché ci sono motivi, ragioni. Senza pensare al dolore che inevitabilmente arriva addosso, pur consapevoli di non amare e di non essere più amati dal proprio partner.
I più sinceri me l’hanno detto, i più codardi no, mi guardano da lontano Ho capito sulla mia pelle quanto lo stereotipo sociale e condiviso di una moglie che diventa madre la imbrigli, suo malgrado, dentro un destino quasi immodificabile e che se viene variato si fatica a capirne le ragioni. C’entra tutto questo con lo stereotipo di donna dedita alla casa e alla famiglia, eventualmente al lavoro, e che dovrebbe essere disposta in nome di tutto ciò a sacrificare dignità e felicità? C’entra con la percezione distorta di un femminile che appartiene a un maschile? C’entra con un concetto di madre e moglie che ha autonomia decisionale, ma solo fino a un certo punto? Ho capito solo ora quanto una moglie che diventa madre sia, nell’immaginario e nei pregiudizi collettivi, ancora proprietà dell’uomo. Ho sentito sulla mia pelle quante persone legittimano il comportamento maltrattante e perseguitante verso una donna che fa una scelta di indipendenza. Quanto questo ancora spaventi molte persone e non venga capito, né rispettato. Ritorno con la mente a vagare per le strade ferite di Sarajevo, a quanto sia stata martoriata e perseguitata per la sua orgogliosa scelta di indipendenza, ma come abbia saputo rinascere oggi. Qui mi trovo in cerca di tracce di strategie di sopravvivenza dei segreti che permettono l’integrazione tra persone di religioni così diverse. Stimo l’orgoglio che ha caratterizzato questo popolo nel rivendicare la propria indipendenza e autonomia dall’idea di Grande Serbia, combattendo per non farne parte. Ancora porto cicatrici, come Sarajevo, e come lei sono rinata. L’assedio subito non ha fatto altro che fortificarmi e convincermi della bontà della mia scelta di indipendenza. Se ci fosse stato rispetto reciproco e qualcosa da salvare, sarebbero stati ben altri i comportamenti. La guerra non è finita e spesso ora è guerra fredda, ma ciò che ho ora di nuovo sono doni meravigliosi: la forza nel parlare con mia figlia per fornirle strumenti per leggere e capire la complessità della nostra situazione, il coraggio di educarla secondo una logica che le permetta di non annullarsi mai di fronte a nessuno, l’amore per lei e per il mio attuale meraviglioso compagno, la vicinanza di sorelle amiche che non mi hanno lasciato mai sola. Ma più di ogni altra cosa, ho me stessa, i colori del mondo, e la consapevolezza che posso dire no, finalmente, a ciò che non mi rappresenta.
Sonia