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A cercar la bella morte - Carlo Mazzantini





lunedì 11 aprile 2011 legge Giacomo Loperfido
La costituzione simbolica e rituale del paradigma antifascista ha permesso, in anni in cui l’assetto istituzionale democratico del paese ha subito gravi minacce alla propria esistenza, larghe mobilitazioni collettive che sbarrarono la strada ad ogni tentazioni autoritaria. Ma via via che ci allontaniamo dalla realtà storica del fascismo, e che, oggi, nuove modalità carismatiche e autoritarie del potere sembrano corrodere la giustizia e l’efficacia dell’istituto democratico, è forse opportuno interrogarci sull’ “altro” in opposizione al quale ci siamo costruiti, capirlo meglio, e misurarlo con i pericoli del presente politico e sociale.
Carlo Mazzantini, partito da adolescente come volontario della RSI, e mai pentito, mostra una sensibilità e un’intelligenza non comuni quando racconta della “sua guerra”. Il paradosso del “fascista buono” diventa allora forse un punto di partenza valido per riangolare le nostre categorie etiche e interpretative, affinarle ed adattarle ad un presente che sembra, più che mai, chiederne l’intervento.


Carlo Mazzantini, A cercar la bella morte, Marsilio, 1995, cap. IV,
pp. 75-91.

Il biondino ci andò. Non appena il tenente Veleno fece quella richiesta, si alzò dalla panca senza esitazione e andò con la solita aria imbronciata di ragazzo sconten¬to. Mi stava seduto accanto sul camion battendo i piedi per il freddo e masticava come me quel pane umido e gommoso. Ma appena giunse quella domanda - volon¬tari - non lo lasciò nemmeno finire, scattò in piedi e si precipitò verso la sponda. Avrei voluto trattenerlo: un impulso di prenderlo per il braccio, e di dirgli: «Ma dove vai? che fai?». Non ne ebbi il coraggio. Aveva stret¬to le labbra e alzato il capo con un moto risoluto. «Pre¬stami il moschetto» disse. E mi aveva guardato con una espressione strana in cui si mescolava la rabbia e il do¬lore e una volontà cattiva: «Tartaglio era come un fratel¬lo per me».
Scavalcò il bordo con un salto e si avviò buttandosi avanti come se facesse forza su se stesso e sull'aria; stringeva la cinghia del moschetto sulla spalla.
S'erano raccolti a capannello attorno al tenente che sceglieva, teso e frettoloso: «Tu va bene, tu là dietro, anche te d'accordo ... »
Era venuto fuori dal portone di furia, irritato, quella sua figura sgraziata, infagottata nella giacca a vento chia¬ra, si muoveva a scatti. Facevano ressa attorno a lui per farsi notare. Anche il cadetto stava là in prima fila, alto atletico. Era arrivato di corsa come fosse sul campo gin¬nico e s'era piantato sull'attenti nella posa impeccabile di manichino ammaestrato.
«Dio veleno! Basta! Non me ne servono più! Tornate indietro! Non ho più bisogno di nessuno!»
Si avviarono laggiù verso la chiesa coi moschetti a spall' arm in fila per tre, ma senza tenere il passo. Il biondino spiccava in mezzo agli altri con quei capelli fini, leggeri che uscivano di sotto l'elmetto, ma ora non sembrava più Nemecsek.
Il primo ad apparire nel riquadro del portone, nel suo abito blu ancora in ordine, e quell'aria distinta, no¬nostante la notte trascorsa, fu lui. Mi meravigliai quan¬do lo vidi sulla soglia, da solo, senza scorta. (Cosa mi aspettavo?) Non mi capacitavo di quella presenza lì in quel momento e mi chiesi: che fa quel borghese? chi è? E mi ci volle un po' di tempo prima di riconoscerlo anche in quel modo incompleto: "Ah sì, è lui" pensai, ma senza collegarlo realmente con la persona che avevo conosciuto la sera prima, né tanto meno con quanto doveva accadere.
Era comparso in modo così naturale sulla soglia, ma lì si fermò come se avesse incontrato un improvviso ostacolo o come se solo allora si rendesse conto vera¬mente di quanto stava succedendo. Vidi chiarissimo quel moto di rifiuto. Si guardò attorno incredulo e non la riconobbe quella piazza che doveva essergli così fami¬liare: tutti quei camion pieni di militi, gruppi di armati sparsi qua e là, quei visi in attesa, e soprattutto quello spazio vuoto che lui doveva affrontare. Si fermò e arre¬trò, e quelli che gli venivano dietro si arrestarono alle sue spalle.
Da dentro il vestibolo giunsero voci imperiose, accor¬se qualcuno, lo sospinsero per il braccio.
Li vidi sfilare tutti, uno per volta, sul pianerottolo della scalinata. Si affacciavano nel vano del portone, si guardavano un momento attorno, frastornati, facevano una sosta disorientati dalla luce e da quanto scorgevano, poi, sospinti da quelli che venivano dietro, affrontavano i gradini, la testa leggermente china, facendo attenzione, con particolare impegno, a dove mettevano i piedi.
Inchiodato al mio posto, nell'impossibilità di formu¬lare un pensiero coerente, seguivo affascinato quei mo¬vimenti, e continuavo a masticare meccanicamente, con la bocca impastata, quel pane e formaggio umidi e gom¬mosi, mentre una specie di febbre, un fremito sottile mi saliva dai talloni, montava su fin dietro la nuca e mi percorreva tutto su e giù sotto la pelle.
Da questo momento tutto si svolge nell'aria rarefatta di un sogno: la fila stretta delle loro schiene che si avvia a passo lento in quello spazio vuoto dove c'è qualcosa di impalpabile che indica loro la direzione e li guida loro malgrado ... i militi che li accompagnano con quell' aria grave di circostanza ... il selciato umido in pendio, quel cielo grigio basso. Non c'era un moto una voce un ru¬more attorno. Quei quattrocento uomini sulla piazza non emettevano un suono.
Solo a un certo punto da una panca alle mie spalle, violando quel silenzio, la voce di Bonazzoli si sforzò di rompere quella tensione: «Quelli' sono già liberi» disse. Ma la carica di fatalismo e di accettazione che essa con¬teneva si rivelò subito stonata, e falsa: mostrò la sua incapacità di prendere le distanze da quel fatto, e l'im¬possibilità di riassorbirlo, diminuendolo, in quel gergo.
Ma un certo momento, lui che era capofila, si fermò di nuovo, proprio in mezzo a quello spazio sgombro, e si guardò intorno cercando qualcuno. Si fermò risoluto a non andare più avanti ... Sì, fino in fondo non l'accettò quella sorte assurda, quella cosa che non c'entrava con la sua vita, la sua posizione, le sue convinzioni: possibile che da un giorno all'altro, nel giro di una sola notte le cose si fossero rovesciate a quel punto! ... Un momento, ma che succede? che fate? ... aspettate!
Chi cercava? con chi voleva parlare? cosa aveva anco¬ra da aggiungere? Dove trovare una speranza? una pos¬sibilità?
I suoi occhi vagavano smarriti su quella piazza a lui così nota, ma ora lì attorno non c'era un volto, un og¬getto amico su cui potesse posare lo sguardo; non c'era¬vamo che noi, le nostre armi, la nostra volontà di ven¬detta. Ricordo quell’attimo di sospensione e di tensione terribile di fronte a quel fatto imprevisto, alla volontà di quell'uomo che voleva salvarsi a ogni costo.
Ma da un lato della breve gradinata, da dietro un gruppo folto di militi, giunse quella voce aspra e auto¬ritaria nel silenzio assoluto, quella voce che conoscevo, ma che ora suonava così estranea e vulnerante in quel¬l'aria rarefatta:
«Che succede! ... Avanti! Muoversi! Muoversi!» Allora sentii il bisogno di cercarlo, di guardarlo in faccia, per chiedergli ragione, a lui che era il comandan¬te, di ciò che succedeva, colmare quello sgomento, tro¬vare un senso accettabile a quella cosa. Lo scoprii là confuso fra i soldati senza la sua corte di ufficiali, inu¬sitatamente solo in quel momento così speciale - quasi cercasse di confondersi con gli altri - in una sua nudità insospettata, come lo vidi solo anni dopo, spogliato di quella uniforme e del rispetto che essa suscitava. Trovai il suo viso pesante, di cui il pizzo alla moschettiera non riusciva a nascondere i tratti plebei, i suoi fianchi già adiposi sotto le falde della giubba e un impaccio nello stare e nei movimenti. Della sua autorità e della sua risolutezza non rimaneva che l'aspetto esteriore: dietro quella divisa, i suoi gradi d'oro, i nastrini e i distintivi, dietro quella maschera sprezzante scorsi chiaramente, anche se cercai subito di cancellarlo, un uomo che aveva perduto tutta la sua arrogante sicurezza. C'era uno smarrimento in fondo ai suoi occhi, una incertezza che solo qualcosa di sovrapposto con furia cercava di soffo¬care. Stava lì, in quell' angolo sforzandosi di trovare un atteggiamento consono al momento, e che lo liberasse da quel senso di impaccio che lo sguardo di tanti occhi su di lui gli procurava, ma non sapeva che stringere le labbra e battersi con moto nervoso e legato gli stivali col frustino.
Vidi accorrere quelli della squadra politica, avventarsi su quell'uomo fermo in mezzo alla piazza e spingerlo col calcio del moschetto, irritati per quell'imprevista inter¬ruzione che veniva a sciupare la solennità del momento. Quel gesto brutale lo riportò alla sua condizione attuale. Si rimisero in cammino intimiditi, riconoscendo loro stessi la direzione da prendere, così isolati in quello spazio sgombro che dovevano percorrere, tutto per loro, traversarlo fino in fondo, fin laggiù dove li aspettava il plotone.
E ci andavano con le loro gambe. Un passo dopo 1'altro, con le loro gambe che li avevano portati in giro per tutti i fatti della loro vita e ora li conducono là. Vedi la punta del piede che avanza, poi l'altra - quanti ancora ne restano? - ti agghiaccia il pensiero che fra qualche momento ci sarà quel passo dopo il quale non ce ne saranno più, ma continui lo stesso. Trasalisci: un impeto di rivolta sale dalle tue radici, vorresti fuggire, scansare quel fatto, ma non puoi fare niente, niente! ... Perché non sei più niente: sei solo quel pugno stretto alla bocca dello stomaco, quel nocciolo palpitante di terrore e quell'inutile spasimo di tutte le cellule che ti compongono.
No. Non ci fu nessuno che si rifiutò, che si buttò per terra e gridò: no! non ci vado! Nessuno che furono costretti a strappare di là e trascinare a forza, che gli si aggrappò alle gambe, ai vestiti. E’ anche troppo facile ammazzare un uomo a quel modo! A un certo punto diventa più docile di un animale condotto al mattatoio: una specie di fantoccio svuotato che si muove come un automa. Anche Lui sembra aver accettato l'ineluttabilità di quel fatto e partecipa al rituale. A quel rituale che serve a te per camuffare la realtà stravolgente di ciò che sta accadendo, e confermarti nella menzogna di stare lì a compiere un atto dello stesso ordine di tutti gli altri che hai compiuto fin' allora. Sì, anche Lui, che deve esse¬re vuotato della vita, privato di tutto quello che ha in¬torno, partecipa alla finzione. Vorrebbe farlo, vorrebbe buttarsi a terra a scalciare e gridare: «No! non ci vado!. .. Perché? perché volete ammazzarmi!», così che ce lo devi trascinare a forza e ce lo devi legare, e mettergli il bavaglio, ma non gli riesce ... O tentare di fuggire, morto per morto, o gridartelo in faccia: assassini! assassini! ... E invece non gli riesce. Una mostruosa complicità lo para¬lizza: anche lui è nel meccanismo di quella ineluttabilità che vi sovrasta.
Ed è proprio questo che ti dà la misura della enormità dell' atto che stai compiendo. Bastò che il tenente prendesse il primo per il braccio e lo mettesse al suo posto, che gli altri lo seguirono mansueti e gli si allinearono accanto, come se ognuno sapesse il posto che doveva occupare. Una fila di schie¬ne un po' calate, davanti al muro: qualcuno col capo chino, qualcuno che con uno sforzo è riuscito ad alzare la testa e guarda davanti a sé.
Quelli della squadra politica, che li avevano accompa¬gnati fin là e avevano atteso che tutto fosse in ordine, correggendo qua e là il loro allineamento, vennero via e andarono a schierarsi insieme al plotone. Erano giovani e facevano tutto con grande gravità. C'era Landa Ga¬brielli e Aleramo Daga che erano partiti con noi su quel camion. Li avevano interrogati, avevano trascorso con loro tutta quella notte, conoscevano i loro nomi, i loro visi, le loro voci, e avevano visto i loro sguardi smarriti cercare scampo, e adesso li fucilavano. Dovevano dimo¬strare la loro coerenza e la loro durezza fino in fondo. La rivoluzione era cominciata e si faceva sul serio: pietà l'è morta.
Per ultimo si mosse il tenente. I suoi movimenti ave¬vano perduto quella carica di furia e di concitazione che sempre avevano. Erano tesi, rigidi; e anche lui adesso si comportava come se stesse compiendo qualcosa ormai non più revocabile ma di cui in quel momento inevita¬bilmente scopriva, anche se la rifiutava, l'assurdità e l'inutilità.
No, non fu come al cinema o come quando dicevi: «Al muro! Bisogna metterli al muro!» Era una cosa insopportabile, una cosa che ti prendeva i visceri e te li rovesciava, e sembrava te li volesse strappare.
Stavo inchiodato al mio posto e non potevo ripetermi quelle parole: «Ecco, adesso li ammazzano. Li ammazza¬no». E non riuscivo a connettere altro. Quel fatto era così smisurato nella sua immediata realtà che impediva di richiamare un solo pensiero, una sola delle ragioni che conoscevo, e che mi ero tante volte ripetuto. Cercavo le immagini dei compagni uccisi: due camerati, due giovani soldati ... , i motivi che fino allora mi erano sembrati più che sufficienti: il tradimento, il disonore; ma essi non avevano alcun peso, non servivano assolutamente a nien¬te, erano spazzati via da quel fatto enorme che stava dentro quelle parole: «Adesso li ammazzano». Ed esso non aveva alcun rapporto con quel discorso in cui si muovevano quelle parole e quelle ragioni. Era un'altra verità, un altro tipo di verità che si manifestava ora, con quella insopportabile stretta alla bocca dello stomaco, in tutta la sua sconvolgente carica emotiva. Essi erano stati spogliati di tutto il resto, di tutti i motivi che li avevano fatti odiare, di tutte le ragioni che avevano deciso quella sorte, ed erano adesso solo uomini, uomini vivi e basta, vivi come me e gli altri, uomini che stavano lì con te, nello stesso tuo tessuto di vita e di sangue, e fra un momento non sarebbero stati più nulla.
Non c'era un rumore, un movimento, un alito. Sotto quel cielo chiuso, fra quelle case sbarrate, quei quattro¬cento uomini presenti lì, con gli occhi fissi a quel punto non davano un segno.
La sua voce, la stessa voce con cui bestemmiava e minacciava o scherzava o s'incazzava, diede gli ordini. Quegli ordini di cui tutti hanno sentito dire, che stanno nella letteratura, nei film. Insaccato nella sua giacca a vento chiara, al lato della prima fila, gridò: «Caricate!» Li vidi manovrare gli otturatori con quel movimento così familiare e così innocuo fino allora: track! indietro, poi la massa battente che avanza, impegna la pallottola e la fa scivolare nella camera di scoppio. Con un colpo della mano abbassi il manubrio e sei pronto. Poi l'altro ordine col suo accento toscano: «Puntate!» Ecco quello è il momento più terribile, il momento in cui più di uno di quelli che erano andati là volontari deve aver sentito quell' enorme urto dentro. Perché devi mettere il mo¬schetto in linea, e devi cercare il bersaglio. E il bersaglio è la testa di un uomo che sta lì davanti a te a dieci passi. Sì, è quello lì che ti è già stato indicato: quello. Ecco la sua schiena che il respiro ancora solleva e abbassa, lo spasimo delle mani contratte. Che sta lì, aspettando che finiscano quegli attimi, e che tu gli faccia scoppiare la testa. Ora il mirino sfiora la tacca e centra il bersaglio: la sua nuca: proprio quel punto dove i capelli sono più radi, si spartiscono e si vede la cute.
Gli devi sparare lì.
E non è nemmeno come un colpo di spugna «Fuo¬co!» ed è finita: almeno questo! Li hai spazzati via per sempre, hai cancellato la contraddizione. No. Anche quella fu tutta un'altra cosa, che non aveva niente a che fare con l'immaginazione, o con quanto avevi letto e pensato. Una Cosa concreta, fatta di particolari, e soprat¬tutto di sangue, di sangue. Disordinata la scarica traver¬sò crepitando l'aria. Ma prima che cominciassero a ca¬dere ci fu un momento di pausa come se fossero rimasti sorpresi da quella repentinità e non sapessero ancora se fosse giunto il momento di andare giù, o la vita, già lacerata, ancora li sostenesse in un estremo atto di affer¬mazione. Poi cominciarono quei movimenti al rallenta¬tore: qualcuno si afflosciò sulle gambe sul posto dove si trovava con quella sensazione che le ginocchia avessero improvvisamente cessato di sostenerlo, qualcuno ha ri¬cevuto una spinta da dietro ed è proiettato in avanti, un mezzo passo barcollante e poi giù, altri invece…
La fila si era completamente scompaginata, ognuno trovando il suo posto di morte. Ma tutti, quando scesero, lo fecero in quel modo terribile, così diverso da come cade un corpo vivo - quello era il particolare che ti sconvolgeva! Caddero passivamente senza alcun gesto per ripararsi, attenuare la caduta, come una cosa, non più come un essere vivente, perché quello che era accaduto lì dentro non aveva più proporzioni.
Ma Lui non cadde. Rimase in piedi dritto al suo posto, nel suo abito blu, come se non fosse successo nulla. L'eco della scarica si era diradato e lui era ancora lì. Incredibile! Sì, era lì. C'era quella fila agonizzante a ter¬ra, quei corpi che sussultavano e davano tratti, la gora di sangue che si andava formando, ma Lui stava ancora lì.
Poi piano piano accadde quella cosa. Lo vedemmo alzare il piede destro da terra, lentamente, piegò la gam¬ba, la raccolse, e prima piano, poi sempre più svelto, cominciò a muoverla nell'aria, su e giù, ad agitarla sem¬pre più freneticamente, a tirare calci nel vuoto.
In quel silenzio, lì solo, accanto a quella fila di masse scure per terra che vomitano sangue, fermo al suo posto, con quella gamba che si muove, freme, scalcia senza controllo.
Un lunghissimo momento agghiacciante.
Poi si volse. Ricordo perfettamente il movimento della testa, e il viso. Stavo sul camion un po' di lato, e quel volto si girò proprio nella nostra direzione. Ed era un moto di sorpresa e di incredulità, un gesto come per dire: ma che succede? che fate? Poi ci guardò. Sì, era ancora vivo! Ancora presente di qua, nel mondo dove eravamo noi! Ancora chiedeva qualcosa nel viso e negli occhi.
Quante volte mi sono chiesto cosa può essergli passa¬to per la mente in quell' estremo momento ... Lui vedeva, vedeva ancora tutto. Tutti quegli uomini armati lì intor¬no, la fila dei corpi rantolanti per terra, quel silenzio spaventoso che ci stringeva, e lui lì in piedi, solo, che ci guardava in quel modo! Di sopra la spalla la Sua faccia che era rimasta quella della sera avanti, solo con una espressione di una incertezza diversa, angosciosa, ani¬male, interrogativa ... Sì, non ancora rassegnata, ancora viva, ancora di qua, da questa parte dove eravamo noi, dove era il resto del mondo ...
Cosa può essergli passato per la mente? Cosa si riesce a pensare in attimi come quello? ... Anch'io li ho vissuti più tardi, anche a me è toccato quel momento... C'è quel rombo nelle orecchie, i suoni, le voci che ti giun¬gono da lontano ingigantite e assordanti, confuse .. Ma dentro di te c'è un silenzio, un silenzio e una solitudine assoluti, il silenzio e il vuoto di tutto l'universo. Solo, lì in piedi accanto alla fila dei corpi agonizzanti che anco¬ra sussultavano, i suoi occhi che guardavano e vedevano ancora ... L'avvertiva l'incertezza e lo sbalordimento nei visi di quelli che aveva alle spalle? ... Che succede? Per¬ché? Perché? ... Che abbia pensato, chissà! a una esecu¬zione simulata? ... Gli attimi passavano e non succedeva ancora niente. Uno riprende speranza: l'hanno fatto per gli altri, ecco sì per gli altri! ... A me non mi ammazzano: è stato per farmi paura, darmi una lezione ... C'è il muro davanti a te, quel quadrato di muro umido e scabroso ... e aspetti ancora ... Riesci a fermare qualche particola¬re? ... gli schizzi che ha fatto il sangue, il rantolo di qual¬cuno di quelli a terra? ... Uno farnetica, col cuore che ti è scoppiato in gola, ti aggrappi a tutto ... Ormai è fatta, si sono sfogati ... ora si impietosiscono e mi risparmiano. A che scopo un altro? me? Trovi anche una parola a cui aggrapparti: ecco mi concedono la grazia. In extremis: è accaduto, è accaduto altre volte ...
Tutta la carica vitale è concentrata nell'istinto di con¬servazione, la sola scintilla rimasta, allo stato puro ... Lasciatemi andare, lasciatemi andare ... Anche così come sono ridotto ... a saltelloni me ne vado, senza disturbare nessuno... carponi me ne vado, da solo, senza aiuto, volto l'angolo.
Fin quando la voce infuriata e incredula del tenente, quella voce che aveva ritrovato la consueta iracondia e che anzi con quel furore sfogava l'angoscia che lo aveva attanagliato non riuscì a rompere il silenzio:
«Ma che fate bestie! Che fate! .... Fuoco per dio! Fuo¬co! Fuoco!»
I militi alle sue spalle si affannavano sui moschetti per ricaricarli. Partì prima qualche colpo, sparso qua e là, dalla loro fila. Poi scoppiò l'inferno: dai camion, dagli uomini disseminati nella piazza, dalle pattuglie alle im¬boccature delle strade, si scatenò una scarica furiosa in cui si mescolavano i colpi fondi dei moschetti e le raf¬fiche aspre degli automatici. Da ogni parte di quello spazio chiuso si sparava laggiù contro quel punto. Vede¬vo militi che avevano già sparato ricaricare in fretta il fucile e tirare di nuovo, altri che incerti, sbalorditi, non l'avevano fatto, contagiati da quel furore, togliersi l'ar¬ma di spalla e puntarla in quella direzione. Per tirarlo giù, abbattere quella assurda cosa ancora dritta contro il muro, fermare quella gamba.
Lo vedemmo barcollare, sbatacchiato dalla granaiola di colpi, fare un mezzo passo saltelloni, volgersi da un lato, sì, e poi dall' altro come se non sapesse dove cadere, piegarsi, scivolare giù lentamente, su quella gamba, qua¬si accovacciarsi, e poi precipitare in avanti.
Ecco, era caduto. Finito, cancellato.
Ma nemmeno allora la fucileria cessò. I colpi crepita¬vano ancora e scoppiavano da ogni parte, come se tutto il battaglione fosse stato preso da una frenesia di fuoco. Tutti volevano partecipare a quell'uccisione. La rivolu¬zione era cominciata in quella sagra di furore e di san¬gue. Le pallottole sgusciavano sul selciato e levavano faville. Durò dei secondi e non accennava a smettere, fin quando lui, il comandante, uscito fuori dal suo riparo, facendosi largo fra i militi, si slanciò in mezzo alla piazza per essere visto e prese a gridare come un forsennato agitando il braccio anchilosato: «Basta per dio! Basta! ... Cessate il fuoco! ... »
Un silenzio enorme. Un silenzio insopportabile. Un silenzio dentro al quale c'era tutto, odio, furore, paura, disperazione. Un silenzio che ci avviluppava, ci stringeva, ci teneva. Là, sotto quel cielo basso, davanti a quei monti, in quella piazza chiusa. Il silenzio. Il silenzio vero, tangibile, di pietra.
Il silenzio. Il tenente si staccò dalla fila e andò là, con passo teso, meccanico. Cominciò col primo sulla destra. Faceva un passo, sparava e andava avanti. Non lo vedevo che a tratti di tra le file del plotone, con quella figura sghem¬ba, la giacca a vento chiara. Si fermava, sembrava cer¬casse qualcosa per terra, e poi si udiva il colpo. Si muo¬veva, faceva un'altra sosta e sparava di nuovo. I militi erano rimasti lì con i moschetti in mano e aspettavano. Scompariva alla vista ed erano i suoi colpi che scandiva¬no le sue soste. Oltre la metà della fila dovette fermarsi: armeggiò intorno alla Beretta e cambiò il caricatore. Poi ricominciò.
Le sue revolverate facevano degli schiocchi secchi e staccati. Dopo tutto il fragore che aveva riempito la piazza avevano un suono stupido e innocuo. Ma davanti al penultimo la sua sosta fu più lunga e sparò due volte. Ebbe un momento d'incertezza. Accorse uno in tuta mimetica, il calcio del mitra sotto l'ascella. Lasciò parti¬re una breve scarica, poi guardò, non era convinto, spa¬rò ancora. Si vedevano i piccoli bossoli d'ottone saltel¬lare sul selciato, e la massa a terra sussultava.
Su di lui non sparò. Fece cenno anche all' altro di smetterla. Tornò verso il plotone e gli si affiancò. «Fian¬co sinistr, sinistr! ... Per fila sinistr, march ... »
Ecco, era finita.
Finita? ... No, no. Nemmeno dopo fu come nei libri dove volti pagina, e la vicenda riprende a svolgersi, e dopo qualche momento hai dimenticato, come capiterà anche qui. No. Quelli restarono lì in quel punto dove li avevamo uccisi, in quelle pose così innaturali, ostinati in quella immobilità, e non c'era un dopo! Non c'era nessuna pagina da voltare! non c'era seguito nella vi¬cenda! Avevi voglia di fare sforzi per dimenticarli e ignorarli: mi muovevo sul camion, volgevo la schiena, c'era chi parlava, uno s'era messo a frugare con insi¬stenza maniacale nel tascapane, ma non c'era niente da fare. La loro presenza era più forte di tutto il resto: stava là in quel punto dietro le mie spalle, ed era enor¬me, inamovibile. E quando, proprio per scrollarmi di dosso quella sensazione di disagio mi voltavo con un moto di stizza (per avere conferma o smentita?), le ri¬trovavo là nello stesso punto, esattamente nelle pose in cui le avevo lasciate quelle masse scure schiacciate da quel peso tremendo, che nulla avrebbe potuto rimuo¬vere. E non è cambiato niente. Quel tempo che per te è trascorso, che ricomincia a riempirsi di fatti e a scan¬dirsi in altri atti, in quella zona è rimasto fisso, impie¬trito in quell'attimo. Quella parte di spazio resta inerte, estranea a quanto c'è intorno, e tu non puoi penetrarvi, né connetterla al resto. Non potrai penetrarvi mai. E ogni volta che ci tornerai con il pensiero, sarà lo stesso: quella vicenda interrotta in quel punto non può essere più riallacciata, la ripercorri tutta fino in fondo e arri¬vato lì precipita. Hai compiuto un atto fuori della tua misura, un arbitrio, qualcosa che non puoi riassorbire né riparare: che non ha seguito.
Dagli autocarri gli uomini presero a scendere e corre¬vano laggiù. Gli ufficiali gridavano: «Restate sui camion! Si va via!» Ma nessuno li ascoltava. S'era formata una siepe di schiene che copriva la vista: osservavano ma non parlavano. Il plotone tornava in riga per tre, senza marcare il passo, un po' sbandato. Qualcuno aveva an¬cora un'espressione baldanzosa, ma ferma, come congelata sul viso. Il biondino no. Era pallido, stringeva la mascella sotto il soggolo dell' elmetto, e camminava come non se ne accorgesse.
Si arrampicò sulla sponda, si sedette al suo posto e disarmò il fucile. Teneva le labbra strette e compiva quei movimenti in modo meccanico eppure come se dovesse vincere una resistenza enorme. Non scambiammo paro¬la, ma si sentiva osservato. Mi apparve cambiato, diver¬so. L'orrore di cui i loro occhi erano stati spettatori aveva lasciato una luce vuota in fondo ai loro sguardi. Li vedevo quelli che erano, ancora ragazzi, ancora loro, quei visi, quelli che conoscevo, ma toccati da qualcosa di terribile e di arcano, che stava al di là di loro stessi e di tutto il resto, e che li allontanava da me inesorabil¬mente, e li poneva oltre un confine, nella sfera di una terribile sacralità.
Quando mi volsi per scavalcare la sponda scorsi i cremonesi seduti ai loro posti al ridosso della cabina. Erano lì, i loro corpi massicci, i loro visi di sempre, Giano, Carletto, el Dumanesk, gli altri. Continuavano a mangiare tagliando il pane in piccoli quadrati e portan¬doseli con lentezza alla bocca, ostinati in quel loro silen¬zio riottoso, in quella deliberata assenza di curiosità e di partecipazione. Mi apparvero così lontani - il loro grup¬po isolato, i soli rimasti sugli autocarri - così chiusi in quella loro caparbia cecità, da sembrare fatti di pietra.
Non fui capace di attraversare la piazza così diretta¬mente, e andare là come gli altri: una sorta di oscuro pudore mi impediva di mettere a nudo quell'attrazione irrefrenabile verso quella cosa. Dovevo mostrare di mantenermi distaccato, disinvolto. La presi alla larga: mi avviai prima verso il lato destro della piazza. Ma era come se ci fosse un filo invisibile che mi teneva legato a quel punto e mi impediva di muovermi a mio agio.
C'era un gruppo di ufficiali. Qualcuno aveva già accesa la sigaretta ma ancora non riusciva a parlare. Sta¬vano lì insieme in cerchio, ma ognuno guardava altrove.
Me lo trovai di fronte all'improvviso, che veniva di là con quel passo forzato e sbilenco. Era passato accanto a quel gruppo e non s'era fermato, come se non li avesse visti; e loro non lo avevano chiamato. Era piccolo, sgra¬ziato, ma si teneva su spingendo indietro le spalle. La prima cosa che scorsi furono quegli schizzi sulla giacca a vento chiara che gli tirava di qua e di là. Sentii il bisogno di interpellarlo, di dirgli qualcosa, come per rompere quel diaframma che ci separava, riassorbirlo in qualche modo nella parola: «Tenente, tenente Vele¬no ... ». Non ebbe reazioni né si volse. Cercai di dare alla mia voce un tono casuale: «Tenente», dissi «tenente ... », ma per pronunciare quella frase fui costretto a forzare quell'intonazione, renderla quasi scherzosa: «Tenente, avete la giacca schizzata di sangue».
Non sembrò avere reazioni, come se quelle parole non lo avessero raggiunto, e continuò a camminare guardando avanti. Quando mi ebbe superato, come ri¬sovvenendosi, lo sentii mormorare quella frase: «Io sono granitico ... Sono granitico io ...» Però non poteva fer¬marsi, doveva andar via, levarsi di lì. Mi lasciò interdet¬to. Che immaginavo potesse dire? o fare? .. Continuò a camminare, solo, con quel passo meccanico e sbilenco, verso il portone del Municipio, circondato da quell'alo¬ne che lo isolava da tutto il resto.
Ecco, adesso ero davanti a quello spettacolo, e non sapevo dove mettere gli occhi. Attorno a quei corpi slo¬gati s'era formata una pozzanghera di sangue vischioso, e sangue ancora filtrava attraverso gli abiti e sgocciolava in terra. Lo sguardo vagava dall'una all'altra di quelle forme senza vita riverse sul selciato e non c'era che la constatazione del raccapriccio e del vuoto... Cosa mi aveva condotto là? Cosa pensavo di trovare? .. Tranne quei particolari ripugnanti, lì non c'era niente, niente ... Non c'erano risposte! ...Ce ne erano altri che si aggira¬vano là attorno, con modi cauti, quasi circospetti, come facendo attenzione a dove mettere i piedi per non cal¬pestare qualcosa. Arrivavano lì correndo, sentivi dietro le spalle i loro passi precipitosi, poi giunti in prossimità rallentavano l'andatura, si facevano più cauti, si ferma¬vano. Restavano lì per un po', a volte bisbigliavano qualche parola, poi, cercando di dare ai loro movimenti dei modi sbadati, si allontanavano in silenzio, tornavano indietro. Ma adesso lenti, come facessero fatica a ritor¬nare sui loro passi, a ripercorrere il tragitto che li aveva condotti là, e che era ormai il solo che restava.
Era come se mi trovassi in uno stato di eccitazione febbrile, come se non fossi padrone del mio corpo, dei miei movimenti, in una condizione di levità, di assenza di peso. Se qualcuno mi avesse sfiorato avrei rabbrividi¬to fin dentro la parte più intima di me. A un certo momento avvertii accanto una presenza che non mi era estranea. Era arrivato come gli altri, ma a passo più len¬to, come appesantito. Scorgevo sul selciato i suoi scar¬poni sformati, i calzerotti di lana grigioverde, e sapevo chi era: era Fabio Grama. Vedevo, senza guardarlo, il suo viso: la fronte sporgente, i suoi occhi fissi, ma non osavo cercarlo. C'era una forza dentro di me che mi impediva di alzare gli occhi. C'era la terribile consape¬volezza che se lo avessi fatto, i nostri sguardi, con un insopportabile urto dentro, si sarebbero evitati, e sul suo viso, in quel momento, non avrei potuto scorgere che la stessa espressione falsa che c'era sul mio. E questa cosa sarebbe rimasta fra noi per sempre.
Quando li alzai invece per guardare altrove, e mi tro¬vai lì di fronte, in tutta la sua nudità, quel muro, una improvvisa immagine mi si parò davanti. Rabbrividendo vidi lì me stesso, dritto di fronte a quel muro, solo, senza difesa, come c'erano stati loro pochi minuti pri¬ma. E un pensiero sconvolgente sorse dentro di me: ecco, adesso davanti al muro ci sono io!. .. Ecco, ora che la loro fila è stata abbattuta, ora che lo schermo che essi facevano è stato cancellato, con la faccia al muro ci sono proprio io!
Una fretta furiosa prese tutti. Gli ordini degli ufficiali tagliavano l'aria; quasi correndo rientravano le pattuglie. Vogliamo andare via, solo levarci di là, non abbiamo più niente da fare in quel luogo. Anche il tenente Veleno è ricomparso. Non è più granitico, non è più nulla di tutto ciò. È solo quello che è sempre stato fino a un'ora fa. Ha ripreso il suo passo sbilenco, il suo accento toscano, il tono di sempre. A cavalcioni della motocicletta: «Moto¬ri! porcodio!» Gli schizzi sulla giubba si sono seccati, sono diventati insignificanti macchie brune.
La piazza si riempie del fragore dei motori. Uno .die¬tro l'altro gli autocarri si scollano dal loro posto e, se¬guendo il primo, si avviano. Camion dopo camion pas¬siamo là davanti. Così dall'alto li si scorge tutti, uno qua uno là, abbandonati nelle pose in cui sono caduti. Il cadetto ha rimesso fuori la grinta al suo posto di spon¬da. Il biondino fuma meccanicamente, tira accanito sulla sua sigaretta.
Qualcuno dal mio camion, mentre ci passiamo accan¬to, ci sputa sopra: «Figli di puttana!»