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Studi sull’isteria - Sigmund Freud


lunedì 22 marzo 2010  legge Maria Cecilia Bertolani   
La psicanalisi è al contempo una teoria e una terapia. La terapia, nella sua forma iniziale quale ci è presentata negli Studi sull’isteria, si configura come una “cura con le parole”, secondo la definizione che ne diede la paziente isterica Anna O. D’altro canto, alle origini il potere delle parole è al centro della psicoanalisi come teoria e della sua interrogazione nella formazione dei sintomi come nella loro guarigione. Nella cura, ciò che viene trasformato in parole è un affetto e un ricordo che erano stati precedentemente convertiti in un sintomo, unica traccia rimasta a significare affetti e parole perduti. Negli Studi sull’isteria Freud si addentra nel rapporto tra simbolo e sintomo, ipotizzando una fonte comune al linguaggio e alla malattia. Gli Studi sull’isteria inaugurarono non solo un nuovo paradigma di indagine sull’uomo, ma aprirono anche la strada all’odierna medicina psicosomatica come ad alcune teorizzazioni sui meccanismi di funzionamento del linguaggio.


(Freud, Studi sull’isteria, in Opere 1886-1895, Torino, Boringhieri, 1967, pp. 328-332)

 Il caso di Frau Cäcilie

La signora Cäcilie soffriva fra le altre cose di una nevralgia facciale assai violenta, che si manifestava all’improvviso due o tre volte all’anno, durava da cinque a dieci giorni, resisteva a ogni terapia per poi cessare di colpo. Essa era limitata al secondo e terzo ramo di uno dei trigemini e dato che era indubbia l’urutaria, e che un “reumatismo acuto” non del tutto chiaro aveva una certa parte nella storia della paziente, la diagnosi di nevralgia artritica era abbastanza ovvia. Tale diagnosi fu pure condivisa dai medici che, chiamati a consulto, potevano vedere i singoli accessi; la nevralgia doveva essere trattata con i metodi usuali: pennellatura elettrica, acque alcaline, purghe; ma rimaneva ogni volta inalterata, finché non sceglieva di lasciare il posto a un altro sintomo. In tempi precedenti – la nevralgia era vecchia di quindici anni – si era pensato che i denti fossero responsabili di alimentare questa nevralgia; furono condannati all’estrazione e un bel giorno fu effettuata in narcosi l’esecuzione di sette di questi criminali. La cosa non fu però tanto facile: i denti erano così saldi, che per i più si dovettero lasciare le radici. Questa crudele operazione non ebbe alcun successo, né temporaneo né duraturo. La nevralgia infuriò quella volta per mesi. Anche all’epoca della mia cura, a ogni nevralgia veniva chiamato il dentista, che dichiarava ogni volta di trovare radici malate e si metteva al lavoro, ma di solito veniva interrotto ben presto, perché la nevralgia cessava all’improvviso e con essa anche il bisogno di farsi curare dal dentista. Negli intervalli, i denti non dolevano affatto. Un giorno, mentre di nuovo stava infuriando un attacco, venni richiesto dalla malata di farle un trattamento ipnotico, imposi un divieto assai energico ai dolori ed essi da quel momento in poi cessarono. Cominciai allora a nutrire dubbi sull’autenticità di questa nevralgia.
Circa un anno dopo questo successo di guarigione ipnotica, la malattia della signora Cäcilie prese una svolta nuova e sorprendente. Apparvero improvvisamente stati diversi da quelli che avevano caratterizzato gli ultimi anni, ma la malata, dopo qualche riflessione, affermò che già si erano dati in lei anche prima in vari momenti, per tutto il lungo periodo della sua malattia (trent’anni). Di fatto, si produsse ora una quantità sorprendente di episodi isterici, che la paziente seppe localizzare nel passato al loro giusto punto, e presto furono riconoscibili anche i collegamenti d’idee spesso molto involute che avevano determinato l’ordine di successione di questi episodi. Fu come una serie d’immagini col relativo commento. Pitres deve avere avuto in mente qualche cosa di simile quando descrisse il suo délire ecmnésique. La maniera nella quale veniva riprodotto uno di questi stati isterici appartenenti al passato, era assai strana. Dapprima si manifestava nella paziente in perfetta salute uno stato d’animo patologico di un colorito particolare, che la paziente regolarmente misconosceva attribuendolo a qualche fatto banale delle ultime ore; poi, in uno stato di crescente intorbidamento della coscienza, seguivano simbolici isterici: allucinazioni, dolori, crampi, lunghe declamazioni, e alla fine emergeva l’apparizione allucinatoria di un’esperienza del passato la quale poteva spiegare lo stato d’animo iniziale e fornire la determinazione dei sintomi. Con quest’ultima fase dell’attacco riprendeva la chiarezza di coscienza, i disturbi scomparivano come per incanto e regnava di nuovo il benessere…fino all’attacco successivo, mezza giornata dopo. Di solito venivo chiamato nel momento culminante del fenomeno, iniziavo l’ipnosi, provocavo la riproduzione della vicenda traumatica e affrettavo artificiosamente la fine dell’attacco. Ripetendo per centinaia di volte questi cicli con la paziente, ottenni i chiarimenti più istruttivi sulla determinazione dei sintomi isterici. Inoltre l’osservazione insieme con Breuer di questo notevole caso costituì il principale motivo per la pubblicazione della nostra “Comunicazione preliminare”.
In questo contesto, si giunse alla fine anche a riprodurre la nevralgia facciale, che io stesso avevo trattato quando comapariva in un accesso attuale. Ero curioso di sapere se anche qui sarebbe risultata una motivazione psichica. Quando tentai di provocare la scena traumatica, la paziente si vide trasferita in un’epoca di grande irritabilità mentale verso il marito: raccontò di una conversazione avuta con lui, e di un’osservazione da parte di lui che essa aveva sentito come grave offesa, poi si portò tutt’a un tratto le mani alla guancia, gridò dal dolore e disse: “Questo è stato per me come uno schiaffo sulla faccia!” Con ciò però anche il dolore e l’accesso ebbero fine.
Nessun dubbio che qui si sia trattato di una simbolizzazione; essa aveva avuto l’impressione di ricevere veramente lo schiaffo sulla faccia. Chiunque si chiederà ora come l’impressione di uno “schiaffo in faccia” abbia potuto esteriorizzarsi in una nevralgia del trigemino, limitandosi al secondo e terzo ramo, e accentuandosi durante l’apertura della bocca e la masticazione (non durante il parlare!).
Il giorno dopo, la nevralgia si presentò nuovamente, solo che questa volta, si lasciò risolvere mediante la riproduzione di un’altra scena, il cui contenuto era di nuovo una presunta offesa. E così si andò avanti per nove giorni; pareva che, per anni, le offese, specialmente verbali, avessero provocato per il tramite della simbolizzazione nuovi accessi di questa nevralgia facciale.
Infine però si riuscì a risalire fino al primo accesso nevralgico, che risaliva a più di quindici anni prima. Qui non c’era simbolizzazione, ma una conversione per contemporaneità; era una vista penosa, che le aveva fatto sorgere un rimprovero che l’aveva indotta a reprimere una diversa serie di pensieri. Si trattava dunque di un caso di conflitto e di difesa; la formazione della nevralgia in tale momento non si sarebbe potuta spiegare se non ammettendo ch’essa soffrisse allora di lievi dolori facciali o ai denti, fatto che non era improbabile, dato che era proprio ai primi mesi della prima gravidanza.
Così si spiega dunque come questa nevralgia fosse diventata, per la via ordinaria della conversione, il segno specifico di un determinato eccitamento psichico, e come essa avesse potuto in seguito venir ridestata per effetto di corrispondenze associative tratte dalla vita mentale, mediante conversione simbolizzante; in realtà lo stesso comportamento che abbiamo trovato nella signorina Elisabeth von R.
Voglio riferire un secondo esempio che può illustrare l’efficacia della simbolizzazione in altre condizioni. In un certo periodo la signorina Cäcilie era tormentata da un acuto dolore nel calcagno destro, fitte a ogni passo, che le rendevano impossibile camminare. L’analisi ci portò in un’epoca nella quale la paziente si era trovata in luogo di cura all’estero. Era rimasta a letto per otto giorni nella propria stanza e doveva poi essere accompagnata dal medico di casa per la prima volta alla tavola comune. Il dolore era insorto nel momento in cui la paziente aveva preso il braccio di lui per lasciare la stanza; scomparve durante la riproduzione di questa scena, quando la malata asserì che allora era stata dominata dal timore di “fare un passo falso” in una società di estranei!
Questo dunque sembra un esempio calzante, e quasi comico, della formazione di sintomi isterici per il tramite della simbolizzazione a mezzo dell’espressione verbale. Considerando meglio le circostanze del momento, tuttavia, risulta preferibile un’altra interpretazione. La paziente soffriva in genere, a quell’epoca, di dolori ai piedi, e per questo era rimasta a letto tanto tempo. Si può soltanto ammettere che il timore dal quale fu presa durante i primi passi, abbia prescelto fra le sofferenze allora esistenti quell’unico dolore, nel calcagno destro, che era simbolicamente adatto, per trasformarlo in un’algia psichica e conferirgli una particolare durata.
Se in questi esempi il meccanismo della simbolizzazione sembra respinto in secondo piano, ciò che certamente corrisponde alla regola, dispongo però anche di esempi i quali sembrano dimostrare la formazione di sintomi isterici mediante sola simbolizzazione. Uno dei più belli è il seguente, che riguarda ancora la signora Cäcilie. Fanciulla quindicenne, giaceva nel suo letto sotto la sorveglianza della sua severa nonna. Improvvisamente la ragazzina dette un grido: le era venuto, alla fronte, tra gli occhi, un dolore lancinante, che poi durò per settimane. Durante l’analisi di questo dolore, che si riprodusse dopo quasi trent’anni, essa raccontò che la nonna l’aveva guardata in modo così “penetrante” che il suo sguardo le era entrato profondamente nel cervello. Temeva infatti che la vecchia donna l’avesse guardata con sospetto. Nel comunicarmi questo pensiero ruppe in una sonora risata e il dolore scomparve di nuovo. Qui non trovo null’altro che il meccanismo della simbolizzazione, il quale si situa in certo modo in una posizione intermedia fra il meccanismo dell’autosuggestione e quello della conversione.
L’osservazione della signora Cäcilie M. mi ha dato l’occasione di raccogliere addirittura una collezione di siffatte simbolizzazioni. Tutta una serie di sensazioni corporee che in genere si considerano di origine organica, erano in lei di derivazione psichica o per lo meno erano corredate di un significato psichico. Una certa serie di esperienze era accompagnata in lei dalla sensazione di una fitta nella regione cardiaca ([col significato:] “Mi ha dato una fitta al cuore”). La cefalea isterica sotto forma di chiodo in testa poté essere interpretata in lei in modo certo come un dolore nel pensare (“Mi son ficcata qualcosa in testa), che veniva del resto eliminato allorché si risolveva il problema corrispondente. Alla sensazione dell’aura isterica nella gola corrispondeva il pensiero: “Questo lo devo mandar giù”, quando l’impressione si produceva per un’offesa. Vi era tutta una serie di sensazioni e di idee che procedevano parallelamente, ed era quasi la sensazione a provocare l’idea come interpretazione, ora l’idea che, mediante simbolizzazione, produceva la sensazione, mentre non di rado si rimenava in dubbio su quale dei due elementi fosse stato il primo.
Non ho potuto trovare in alcun’altra paziente un uso così abbondante della simbolizzazione. Certo, la signora Cäcilie M. era una persona eccezionalmente dotata, in particolare di talento artistico, il cui spiccatissimo senso della forma si manifestava in poesie di compiuta bellezza. Ritengo, tuttavia, che quando l’isterica dà a una rappresentazione improntata da tonalità affettiva un’espressione somatica mediante simbolizzazione, l’elemento individuale e volontaristico sia assai meno rilevante di quanto si possa supporre. Prendendo alla lettera l’espressione linguistica, avvertendo come un fatto reale la “fitta al cuore” o lo “schiaffo in faccia” nel caso di una frase offensiva, essa non compie un abuso spiritoso, ma semplicemente riattiva impressioni alle quali l’espressione linguistica deve la propria giustificazione. Come potremmo altrimenti dire della persona che è stata mortificata: “ha ricevuto una pugnalata al cuore”, se l’offesa non fosse effettivamente accompagnata e resa riconoscibile da una sensazione precordiale similmente interpretabile? E non è forse verosimile che la frase “mandar giù qualche cosa”, che si usa per un’offesa ricevuta senza rispondervi, derivi effettivamente da sensazioni di innervazioni che si manifestano nella faringe, quando ci si vieta di parlare, trattenendo la reazione all’offesa? Tutte queste sensazioni e innervazioni appartengono alla “espressione delle emozioni” che, come Darwin ci ha insegnato, consiste in azioni originariamente sensate e utili; esse possono essere attualmente per lo più così affievolite che la loro espressione linguistica ci appare puramente metaforica, ma è molto verosimile che tutto ciò s’intendesse una volta alla lettera, e l’isteria è nel giusto quando ripristina per le sue più forti innervazioni il significato originario delle parole. Anzi, forse non è corretto dire ch’essa si crea tali sensazioni mediante la simbolizzazione; forse essa non ha affatto preso l’uso linguistico a modello, piuttosto l’isteria e l’uso linguistico attingono a una fonte comune.


(Sulla psicanalisi. Cinque conferenze, seconda conferenza in Freud, Opere 1886-1921, Newton Compton, 2009 [I ed. 1992], p. 1523)

[…] le parole sono anche lo strumento essenziale del trattamento psichico. Il profano troverà certamente difficile comprendere come disturbi patologici del corpo e della psiche possano venir eliminati attraverso le “sole” parole del medico. Egli penserà che si pretenda da lui la fede nella magia. Non ha tutti i torti; le parole dei nostri discorsi quotidiani non sono altro che magia sbiadita. Ma sarà necessario prendere una via indiretta, più ampia, per far capire come la scienza riesca a restituire alla parola almeno una parte della sua primitiva forza magica” (Freud, OSF I, 93).
Tra le relazioni logiche, una sola si avvantaggia straordinariamente del meccanismo di formazione del sogno. E la relazione della somiglianza, della concordanza, della connessione, il come se, che a differenza di tutte le altre può essere raffigurata nel sogno con molteplici mezzi. Le sovrapposizioni o i casi di ‘come se’, esistenti nel materiale onirico, sono in verità i primi capisaldi della formazione del sogno, e una considerevole parte del lavoro onirico consiste nel creare nuove sovrapposizioni di questo tipo, qualora quelle esistenti non possano giungere nel sogno per colpa della censura di resistenza. La tendenza del lavoro onirico alla condensazione agevola la raffigurazione di tale relazione di somiglianza” (OSF III, 294-295).
Restiamo sul terreno psicologico e ci limitiamo ad aderire all’invito di rappresentarci lo strumento che serve alle attività psichiche pressappoco come un microscopio composto, un apparecchio fotografico e simili. La località psichica corrisponde allora a un punto, situato all’interno di questo apparecchio. Ritengo superfluo scusarmi per le imperfezioni di queste come di tutte le altre immagini analoghe: questi paragoni hanno soltanto il compito di sostenerci nel tentativo di comprendere la complessità dell’attività psichica, scomponendola e assegnando le singole prestazioni alle singole componenti dell’apparato (…) Ritengo infatti lecito dar libero corso alle nostre congetture, a condizione di serbare la serenità del nostro giudizio e di non scambiare l’impalcatura per la costruzione” (OSF III, 489-490).
Consentitemi di addurre un paragone (è vero, i paragoni non risolvono nulla, ma possono far sì che ci si senta più a proprio agio). Immagino un paese con una conformazione del suolo varia – terreno collinoso, pianura e una catena di laghi – e con popolazione mista: vi abitano tedeschi magiari e slovacchi, i quali per lo più svolgono attività diverse (…).
In conclusione, l’immagine del paese che vi siete portata appresso può corrispondere nell’insieme; nei dettagli dovrete tollerare alcune discordanze” (OSF XI, 184).

Se gettiamo per terra un cristallo, questo si frantuma, ma non in modo arbitrario; si spacca secondo le sue linee di sfaldatura in pezzi i cui contorni, benché invisibili, erano tuttavia determinati in precedenza dalla struttura del cristallo. Strutture simili, piene di strappi e fenditure, sono anche i malati di mente” (OSF XI, 171-172).

Supponete che qui, in questa sala e in questo uditorio, per la cui esemplare attenzione e compostezza la lode non sarà mai adeguata, vi sia un individuo che arrechi disturbo e, maleducatamente ridendo, vociando, strisciando i piedi, distragga l’attenzione dal mio compito. Io vi comunico che, in queste condizioni, non posso procedere con la conferenza e allora, fra voi, si alzano parecchie persone robuste e, dopo una breve colluttazione, espellono dalla sala il perturbatore della quiete.
Costui è ora «rimosso» e io posso riprendere la conferenza. Ma, affinché il disturbo non si ripeta, nel caso cioè che l’individuo appena espulso cercasse di rientrare a forza nella sala, i signori che hanno raccolto il mio invito, mettono le loro sedie contro la porta e lì si piazzano come una «resistenza» che mantenga la rimozione.
Ora, se trasferite alla psiche i due ambienti, chiamando l’interno di questa stanza «conscio» e l’esterno «inconscio», avrete un esempio abbastanza eloquente del meccanismo della rimozione.