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Storie di tango e di coltello - Jorge Louis Borges




lunedì 25 maggio 2009 legge Serena Pecoraro

"Si può parlare del tango, cosa che facciamo. Ma, come tutto ciò che è genuino, continuerà a nascondere un segreto."
J.L. Borges
Conosciamo in Europa il tango principalmente come ballo, o tutt’ al più come musica strumentale grazie all’opera di modernizzazione attuata soprattutto da Piazzolla.
Ma il tango, la milonga, nasce nel Rio de la Plata come testo cantato: e i suoi temi sono i temi del coltello, della vendetta, della sfida, del coraggio, a fare da filo conduttore alla musica caratteristica e penetrante, fino a creare un connubio di grandissima potenza espressiva.
I frequenti fraintendimenti avvenuti nel tempo ne hanno fatto un prodotto culturale diverso da quello del luogo di origine, un prodotto forse non esportabile, un "tango da pasticceria", per dirla con Borges, il quale è convinto che "…El tango crea un turbio /pasado irreal que de algun modo es cierto /el recuerdo imposible de haber muerto /pelando, en una esquina del suburbio" ("…Il tango crea un torbido/passato irreale che in qualche modo è certo/il ricordo impossibile di essere morti/lottando, in un angolo del sobborgo":Borges: "El Tango", El Otro, El Mismo)
Quello che Borges insinua è che il tango è per gli argentini (per i rioplatensi per la precisione) la forma per esprimere l’istinto religioso insito in ogni uomo, e che questa religione del coraggio permette in qualche modo di emanciparsi dal costrutto gerarchico e ingannatore di un’altra religione basata su credenze non dimostrabili.
Con la partecipazione di David Sarnelli



J.L. Borges, JUAN MURAÑAIl Manoscritto di Brodie, 1970
(Tutte le opere, ed. Mondadori, a cura di Domenico Porzio)

Per anni ho ripetuto che ho trascorso l’infanzia nel quartiere detto Palermo.
Si tratta, adesso lo capisco, di una semplice vanteria letteraria; la verità è che sono cresciuto dall’altra parte di una lunga inferriata di lance, in una casa con giardino e con la biblioteca di mio padre e dei miei nonni. Il Palermo del coltello e della chitarra si trovava (così mi dicono) agli angoli delle strade: nel 1930, dedicai uno studio a Carriego, il nostro vicino cantore e lodatore del suburbio. Il caso mi fece incontrare, poco dopo, Emilio Trapani. Ero diretto a Moròn; Trapani, seduto accanto al finestrino, mi chiamò per nome. Non lo riconobbi subito: tanti anni erano passati da quando condividevamo lo stesso banco in una scuola di via Thames. Roberto Godel se ne ricorderà.
Non ci siamo mai voluti bene. Il tempo ci aveva allontanati, e anche la reciproca indifferenza. Lui mi aveva insegnato, adesso lo ricordo, i rudimenti del gergo di quegli anni. Ci ingaggiammo in una di quelle conversazioni banali, tese alla ricerca di fatti inutili, che ci rivelano il decesso di un condiscepolo il quale ormai non è che un nome. D’improvviso Trapani mi disse:
" Mi hanno imprestato il tuo libro su Carriego. In questo libro parli tutto il tempo di guappi e malviventi; dimmi, Borges, tu, cosa puoi saperne, di malviventi? "
Mi guardò con una specie di santo orrore.
"Mi sono documentato " gli risposi.
Non mi lasciò continuare e mi disse:
" Documentato è la parola giusta. A me invece non servono i documenti; io quella gente lì la conosco "
Dopo una pausa aggiunse, come se mi confidasse un segreto:
"Sono il nipote di Juan Muraña. "
Dei molti guappi che ci furono a Palermo verso il millenovecento e rotti, il più rinomato era Muraña. Trapani continuò:
" Florentina, mia zia, era sua moglie. La sua storia potrebbe interessarti."
Qulache enfasi di tipo retorico, qualche frase lunga, mi fecero sospettare che non fosse la prima volta che la raccontava.
"… A mia madre dispiacque sempre che sua sorella si fosse legata per la vita a Juan Muraña, che per lei era un uomo senza cuore e per zia Florentina un uomo d’azione. Sulla fine di mio zio circolarono molte storie. Qualcuno disse che una sera che era brillo era caduto dal sedile del suo carro, mentre svoltava l’angolo di via Coronel, e che i sassi gli avevano rotto il cranio. Dissero anche che la giustizia lo cercava e che era fuggito in Uruguay. Mia madre, che non aveva mai potuto soffrire suo cognato, non mi spiegò il mistero. Io ero molto piccolo e non conservo alcun ricordo di lui.
"Ai tempi del Centenario, abitavamo nella galleria Russell, in una casa lunga e stretta. La porta in fondo al cortile, che era sempre chiusa a chiave, dava su via San Salvador. Nella stanza in soffitta abitava mia zia, anziana ormai e piuttosto stramba. Magra e ossuta, era, o mi sembrava, molto alta e spendeva poche parole. Aveva paura dell’aria aperta, non usciva mai, non ci voleva far entrare nella sua stanza e più di una volta la sorpresi mentre rubava e nascondeva del cibo. Nel quartiere dicevano che la morte, o la scomparsa, di Muraña, l’aveva fatta uscire di senno. La ricrodo sempre vestita di nero. Aveva preso l’abitudine di parlare da sola.
"La casa apparteneva ad un certo signor Luchessi, proprietario di una bottega di barbiere giù a Barracas. Mia madre, che cuciva a domicilio, non riusciva a campare. Pur senza capirle bene, sentivo pronunciare parole misteriose: ufficiale giudiziario, sequestro, sfratto per morosità. Mia madre era molto afflitta; mia zia ripeteva ostinatamente: " Juan non permetterà che quello straniero ci cacci via". Ricordava il caso – che ormai sapevamo a memoria – di un insolente dei quartieri del sud che si era permesso di mettere in dubbio il coraggio di suo marito. Questi, non appena lo seppe, fece il viaggio fino all’altro estremo della città, sfidò l’uomo, lo sistemò con una pugnalata e lo gettò nel Riachuelo. Non so se la storia sia vera: ciò che importa è il fatto che sia stata riferita e creduta.
"Io già mi vedevo costretto a dormire in qualche terreno vuoto di via Serrano, o a chiedere l’elemosina, oppure con una cesta di pesche. Quest’ultimo pensiero mi attirava, perché mi sarei liberato dalla scuola.
"Non so quanto durò quell’ansietà. Una volta il suo defunto padre ci disse che il tempo non si può misurare con i giorni, come il denaro in centesimi o con i pesos, perché i pesos sono uguali e ogni giorno è diverso, forse ogni ora è diversa. Non capii molto bene quel che voleva dire, ma quella frase mi rimase impressa.
"Una notte ebbi un sogno che finì in incubo. Sognai mio zio Juan. Io non avevo fatto in tempo a conoscerlo, ma me lo immaginavo con la faccia un po’ da indio, robusto, baffi radi e capelli lunghi. Camminavamo verso il sud, fra grandi cave e cespugli, ma quelle cave e quei cespugli erano anche via Thames. Nel sogno il sole era alto. Zio Juan era vestito di nero. Si fermò vicino a una specie di impalcatura, in una gola rocciosa. Teneva la mano sotto la giacca, all’altezza del cuore, come chi sta per estrarre un’arma, ma come nascondendola. Con voce molto triste mi disse: "Sono cambiato molto". Incominciò a tirar fuori la mano e ciò che vidi era un artiglio di avvoltoio. Mi svegliai urlando nell’oscurità.
"Il giorno dopo mia madre mi disse di accompagnarla a casa di Luchessi. So che andava a chiedere una proroga; senza dubbio mi portava con sé perché il creditore ne fosse commosso. Non disse nulla alla sorella, che non le avrebbe permesso di abbassarsi in quel modo. Io non ero mai stato nel quartiere di Barracas; mi sembrò che c’era più gente, più traffico e meno terreni vuoti. Dall’angolo della strada scorgemmo qualche guardiano e una folla davanti al numero che cercavamo. Un vicino, che ripeteva di gruppo in gruppo che verso le tre del mattino aveva sentito bussare; si era svegliato, poi aveva udito la porta che si apriva e qualcuno che entrava. Nessuno chiuse la porta; all’alba trovarono Luchessi steso nell’ingresso, semivestito. Aveva in corpo non so quante pugnalate. L’uomo viveva solo: la giustizia non scoprì mai il colpevole. Non avevano rubato nulla. Qualcuno ricordò che negli ultimi tempi, il defunto era diventato quasi cieco. Con voce autoritaria, un altro disse: "Era arrivata la sua ora". Il verdetto e il tono mi impressionarono; con gli anni ho potuto osservare che ogni volta che qualcuno muore non manca mai un sentenzioso che fa la stessa scoperta.
"I partecipanti alla veglia funebre ci offrirono del caffè e io ne bevvi una tazza. Nella bara c’era un’immagine di cera al posto del morto. Commentai questo fatto con mia madre; uno delle pompe funebri rise e mi spiegò che quella figura vestita di nero era il signor Luchessi. Rimasi come affascinato a guardarlo. Mia madre dovette tirarmi via per un braccio.
"Per mesi non si parlò d’altro. Delitti del genere erano rari a quei tempi; ricordo come fece parlare il caso del Melena, del Campana e del Seggiolaio. L’unica persona a Buenos Aires che non battè ciglio fu zia Florentina. Ripeteva con l’insistenza della vecchiaia:
"Ve l’avevo detto che Juan non avrebbe permesso che quello straniero ci lasciasse senza tetto".
"Un giorno piovve a catinelle. Siccome non potevo andare a scuola, mi misi a curiosare per la casa. Salii in soffitta. Lì c’era mia zia, con una mano sopra l’altra; sentii che non stava nemmeno pensando. La stanza odorava di umidità. In un canto c’era il letto di ferro, con il rosario legato a una delle sbarre; in un altro canto, una cassapanca di legno che serviva da guardaroba. Sulla parete imbiancata c’era una piccola oleografia della Madonna del Carmine. Sopra il comodino c’era il candeliere.
"Senza alzare gli occhi mia zia mi disse:
"Lo so perché sei venuto qui. Ti ha mandato tua madre. Non vuole capire che è stato Juan a salvarci".
"Juan? Riuscii a dire. "Juan è morto da più di dieci anni".
"Juan è qui " mi disse. "Vuoi vederlo?"
"Aprì il cassetto del comodino e tirò fuori un pugnale.
"Soggiunse con voce soave:
"Eccolo qui. Sapevo che non mi avrebbe mai lasciata. Sulla terra non c’è mai stato un uomo come lui. Quello straniero, non l’ha lasciato nemmeno respirare".
"Fu solo allora che capii. Quella povera folle aveva assassinato Luchessi. Comandata dall’odio, dalla pazzia, e forse, chissà, anche dall’amore, aveva percorso in piena notte una strada dopo l’altra, finalmente aveva trovato la casa e, con quelle sue grandi mani ossute, aveva sprofondato il coltello. Il coltello era Muraña, era il morto che lei seguitava ad adorare.
"Non saprò mai se raccontò la verità a mia madre. Morì poco prima dello sfratto."
Fin qui, il racconto di Trapani, che non ho mai più rivisto. Nella storia di quella donna rimasta sola, che confonde il suo uomo, la sua tigre, con quella cosa crudele che l’uomo le ha lasciato, l’arma dei suoi delitti, credo di intravedere un simbolo o molti simboli. Juan Muraña fu un uomo che calpestò le mie strade familiari, che seppe ciò che sanno gli uomini che conobbe il sapore della morte e che fu poi un coltello e adesso è il ricordo di un coltello e domani sarà l’oblio, il comune oblio.



J.L. Borges, UOMO DELLA CASA ROSA, da Storia Universale dell’Infamia, 1935
(Tutte le opere, ed. Mondadori, a cura di Domenico Porzio)


Proprio a me, vengono a parlare del defunto Francisco Real. lo lo conobbi, benché non fosse questo il suo quartiere: egli era un guappo della zona Nord, dalle parti della laguna di Guadalupe e della Batteria. Non lo vidi più di tre volte, e tutte e tre nella stessa notte; ma quella fu una notte che non dimenticherò mai, la notte che la Lujanera, senza ragione alcuna, venne a casa mia; la notte che Rosendo Juarez lasciò il Maldonado per non tornare più. È vero che a voi manca la necessaria esperienza per riconoscere questo nome, ma Rosendo Juarez il Picchiatore era uno dei guappi più temuti di Villa Santa Rita. Uomo abile nel coltello, ubbidiva a don Nicolas Paredes, che era a sua volta uno degli uomini di Morel. Usava arrivare al bordello elegantissimo, con un cavallo oscuro, coi ciondoli d'argento alla cintura; uomini e cani lo rispettavano, e anche le donne; nessuno ignorava che egli aveva due morti sulla coscienza; portava un cappello di feltro alto, dalla tesa breve, sopra la chioma bisunta; la fortuna lo consolava, come si dice. Noi ragazzi di Villa Santa Rita gli copiavamo perfino il modo di sputare. Eppure, una notte ci fece capire chi era veramente il nostro Rosendo.
Non sembrerà vero, ma la storia di quella notte stranissima cominciò con una insolente carrozzella dalle ruote rosse, piena zeppa di uomini, che apparve sobbalzando per quelle viuzze di fango secco, tra i forni di mattoni e i terreni vuoti, e due tizi in nero che schitarravano e schiamazzavano, e il cocchiere che tirava frustate ai cani randagi che gli molestavano il cavallo, e un uomo avvolto in unponcho, che stava silenzioso nel mezzo ed era il famoso Corralero, uscito a dare guerra e a uccidere. La notte era una benedizione tanto era fresca: due uomini erano seduti sull'orlo posteriore della vettura, come se quella desolazione fosse un carnevale. Questa fu la prima cosa che successe, delle tante, ma noi lo sapemmo soltanto dopo. Noi ragazzi eravamo arrivati di buon'ora al salone di Giulia, che era un baraccone di ferro zincato, fra la strada di Gauna e il Maldonado. Era un locale che si vedeva da lontano, per la luce che spandeva un fanale svergognato, e anche per il frastuono. La Giulia, benché non fosse ricca, era seria e responsabile, sicché non mancavano mai i musicanti, il buon bere e le ragazze resistenti per ballare.
Ma la Lujanera, che era la donna di Rosendo, dava dei punti a tutte. Ora è morta, sia ben chiaro, e non è che la ricordi molto spesso, ma bisognava vederla ai suoi tempi, con quegli occhi. A vederla, si restava senza parole.
L'acquavite, il ballo, le donne, una condiscendente parolaccia di Rosendo, una sua pacca sulla spalla, che mi dimostrava la sua amicizia: insomma, io ero felicissimo. Avevo una compagna che mi seguiva molto bene, indovinando le mie intenzioni. Il tango faceva la sua volontà: ci trascinava e ci smarriva, ci dava ordini e ci ritrovava. Eravamo presi da questi piaceri, come in un sogno, quando d'un tratto la musica parve crescere: e aggiungeva quella dei chitarristi della carrozzella, che ormai si avvicinavano. Poi la brezza che la portava andò per altro cammino, e io tornai a pensare al mio corpo e a quello della mia compagna e alle chiacchiere del ballo. Più tardi bussarono alla porta con autorità: un colpo e una voce. Si fece un silenzio generale; una spinta poderosa alla porta; e apparve l'uomo: l'uomo somigliava alla sua voce.
Per noi egli non era ancora Francisco Real, ma un tizio alto, robusto, tutto vestito di nero, con una sciarpa scura abbandonata sulla spalla. Ricordo che aveva la faccia da indio, spigolosa.
La porta, aprendosi, mi colpì. Come uno stupido gli saltai addosso. Lo centrai al viso con un sinistro, mentre con la destra estraevo l'affilato coltello che portavo nel gilè, sotto l'ascella. La mia carica non durò a lungo. L'uomo, per non perdere l'equilibrio, stese le braccia e mi gettò da un lato, come liberandosi da un impaccio. Mi lasciò alle sue spalle, accasciato, con la mano sotto la giacca, posata sull'arma inservibile. Come se niente fosse, si inoltrò. Si faceva strada, era sempre più alto di quelli che scostava senza farci caso. I primi - italiani curiosi - si aprirono a ventaglio, in tutta fretta. La cosa non durò molto. Nella fila seguente lo aspettava l'Inglese che, prima di sentire sulla spalla la mano del forestiero, lo stese con un diretto che teneva in serbo. A vedere quel colpo, tutti si buttarono nella mischia. Il locale era molto spazioso: trascinarono il forestiero come un Cristo, a spinte, a fischi, a sputacchi. Prima lo presero a pugni, poi, visto che nemmeno schivava i colpi, lo schiaffeggiarono a mani nude o con le frange inoffensive delle sciarpe, come prendendolo in giro. Anche perché volevano conservarlo per Rosendo, che non si era mosso dalla parete di fondo, a cui si appoggiava in silenzio. Fumava nervosamente una sigaretta, rendendosi conto di quello che stava per succedere. Il Corralero fu trascinato fino a lui, saldo e sanguinolento, incalzato dagli scherni. Fischiato, beffato, sputacchiato, parlò solo quando si trovò di fronte a Rosendo. Lo guardò, si pulì la faccia con l'avambraccio e disse:
« Sono Francisco Real, uno del Nord. Sono Francisco Real, detto il Corralero. Ho permesso a questi infelici di alzare le mani su di me, perché sto cercando un uomo. Ci sono dei fanfaroni che vanno dicendo che in questi paraggi c'è un uomo che ha fama di accoltellatore e di duro, chiamato il Picchiatore. Voglio incontrarlo perché mi insegni, a me che non sono niente, cos'è un uomo di coraggio e di buona mira. »
Diceva queste cose e non gli toglieva gli occhi di dosso. E ora un coltello gli brillava nella destra, un coltello che certo egli aveva nascosto nella manica. Intorno tutti si scostavano, e noi stavamo a guardare, in gran silenzio. Perfino il muso del mulatto cieco che suonava il violino si adeguava all'atmosfera.
Intanto, sento che alle mie spalle c'è movimento, e vedo sulla porta sei o sette uomini, la banda del Corralero. Il più vecchio, un tipo di contadino dai baffi brizzolati, si fece avanti. Restò come abbagliato da tante femmine e da tanta luce, e si scoprì con rispetto. Gli altri vigilavano, pronti a entrare in azione se il gioco non fosse stato pulito.
Che mai faceva intanto Rosendo, che non cacciava a pedate quello sbruffone? Continuava a tacere, senza alzare gli occhi. Non so se fu lui a gettare via la sigaretta, o se gli cadde da sola. Finalmente riuscì a dire qualche parola, ma così piano che dall'altra parte del salone non sentimmo nulla. Francisco Real lo sfidò ancora, e ancora lui si rifiutò. Allora il più giovane dei forestieri incominciò a fischiettare. La Lujanera lo guardò con odio e, i capelli sciolti sulle spalle, si aprì il passo fra quegli uomini e quelle donne. Si avvicinò al suo uomo, gli infilò una mano nel gilé, ne estrasse il coltello sguainato e glielo diede con queste parole:
« Rosendo, mi sembra che tu ne abbia bisogno. » All'altezza del tetto c'era una specie di finestra che dava sul fiume. Rosendo prese il coltello con le due mani e lo guardò come se non lo riconoscesse. Poi di colpo lo lanciò fuori, lontano, nel Maldonado. Ebbi un brivido. « Non ti uccido perché mi fai schifo» disse l'altro, e alzò la mano per colpirlo. Allora la Lujanera gli gettò le braccia al collo, lo guardò con quegli occhi e disse con ira:
« Lascialo perdere: ci ha fatto credere di essere un uomo. »
Francisco Real restò un momento perplesso e poi la abbracciò come per sempre; gridò ai musicanti di suonare tango e milonga, e agli altri spettatori di ballare. La milonga passò come fuoco da una parte all'altra. Real ballava molto serio, senza entusiasmo. Andarono alla porta e lui gridò:
« Fate largo, signori, che la porto via addormentata! » Così disse, e uscirono avvinti, come nella mareggiata del tango, come se il tango li perdesse.
Dovevo essere rosso di vergogna; feci un volteggio con una donna e me ne andai all'improvviso. Dissi che era per il caldo e per la folla; rasentai la parete fino alla porta e uscii. La notte era bella, per chi? Dietro l'angolo stava la carrozzella, con le due chitarre dritte sul sedile, come due cristiani. Mi amareggiò che le avessero trascurate a quel modo, come se noi non fossimo capaci nemmeno di sgomberare le cianfrusaglie. Pensai che eravamo gente di nessun conto. Un colpo al garofano che avevo dietro l'orecchio, e lo spedii in una pozzanghera; restai un poco a guardarlo, per non pensare più a niente. Avrei desiderato di essere subito al giorno dopo; volevo fuggire da quella notte. In quel momento mi giunse una gomitata che fu quasi un sollievo. Era Rosendo, che se la squagliava dal quartiere, solo.
« Devi sempre stare fra i piedi, tu » brontolò passando, non so se per sfogarsi o per altro. Si avviò verso la parte più buia, verso il Maldonado, non lo vidi mai piu.
Restai a guardare quelle cose di tutti i giorni: un cielo senza fine, il fiume che si agitava là sotto, un cavallo addormentato, la strada, di terra battuta, i forni. E pensai che io ero appena una erbaccia di questa riva, cresciuta fra le ossa e i fiori del fango. Che cosa doveva uscire da questa immondizia, altro che noi, violenti solo a parole, innocui fanfaroni? Sentii poi che non era così; che più il quartiere era castigato, più dovevamo essere guappi. Immondizia? La milonga folleggia, turbina nelle case, e il vento porta odore di caprifoglio. Bella invano, la notte. C'erano stelle da avere le vertigini a guardarle, una sull'altra. Io mi sforzavo di pensare che non c'entravo per niente, ma la viltà di Rosendo e l'insopportabile coraggio del forestiero non mi abbandonavano più. Perfino di una donna per quella notte, si era impadronito quell'uomo. Per quella notte e per molte altre, o addirittura per tutte, perche la Lujanera era una cosa seria. Dio sa da che parte erano andati. Non potevano essere molto lontani, però. Forse se la spassavano gia in qualche fossato.
Quando tornai, il ballo continuava come niente fosse. Facendomi piccolo, mi infilai nel mucchio e vidi che qualcuno dei nostri aveva tagliato la corda, e quelli del Nord ballavano il tango insieme con gli altri. Non c'erano scontri nè gomitate, ma decenza e contegno. La musica pareva addormentata, e le donne che ballavano coi forestieri non dicevano: questa bocca è mia.
Mi aspettavo qualcosa, ma non quello che accadde di lì a poco.
Sentimmo di fuori una donna che piangeva e poi la voce che già conoscevamo, quasi serena, fin troppo serena, come se non appartenesse a nessuno, che diceva: « Entra, figliuola. » E subito altri pianti. Poi la voce, quasi cominciasse a disperarsi.
«Apri, ti dico, apri, figlia di puttana, apri, cagna! » In quel momento la porta traballante si spalancò. Entro la Lujanera, sola, ma come se qualcuno la spingesse. « La spinge un'anima » disse l'Inglese.
« Un morto, amico> disse allora il Corralero. Aveva una faccia da ubriaco. Entrò; e nello spazio che gli facemmo, come prima, fece qualche passo incerto, sempre alto e senza farci caso, e quindi cadde a terra di colpo, come una pietra. Uno dei suoi compagni lo appoggie sul dorso e gli aggiustò il ponchosotto la testa, come un cuscino. II sangue lo copriva. Allora vedemmo che aveva una gran ferita nel petto: il sangue l'inondava e anneriva una cravatta rosso vivo che prima non gli avevo visto perché era coperta da una sciarpa. Come prima cura, una donna porte acquavite e stracci bruciati. L'uomo non diceva nulla. La Lujanera lo guardava sperduta, con le braccia inerti sui fianchi. Tutti la guardavano interrogativi, e alla fine essa si decise a parlare. Disse che appena uscita con il Corralero, era andata con lui in un campicello; poco dopo apparve uno sconosciuto che lo chiama come un disperato e lo sfida e gli dà quella pugnalata. Lei giurava di non sapere chi fosse stato, ma che non si trattava di Rosendo. Ma chi le crede?
Intanto l'uomo ai nostri piedi moriva. Pensai che chi l'aveva fatto fuori aveva avuto il polso saldo. Ma il Corralero era un uomo duro a morire. Quando aveva bussato, la Giulia stava offrendo il mate, e il mate poté fare il giro e arrivare a me, prima che lui morisse. «Copritemi la faccia» disse piano, quando sentì di non farcela più. Solo l'orgoglio gli restava, e non voleva che gli altri vedessero la sua agonia. Qualcuno gli pose sul viso il cappello nero, che era di cupola altissima. Morì sotto il cappello, senza un lamento. Quando il petto disteso smise di abbassarsi e sollevarsi, si decisero a scoprirlo. Aveva l'aria stanca dei defunti: era uno degli uomini più coraggiosi che vi fossero, allora, dalla Batteria al Sud. Quando lo vidi morto e senza parola, non l'odiai più.
« Per morire bisogna solo essere vivi » disse una donna; e un'altra, altrettanto pensosa:
« Tanta superbia, e non serve che ad attirare le mosche. »
Allora quelli del Nord cominciarono a dirsi qualcosa sottovoce, e poi due insieme lo ripeterono forte:
« L'ha ucciso la donna.»
Uno le gridò in faccia che era stata lei, e tutti si avvicinarono. Mi dimenticai che dovevo essere prudente e mi interposi come un lampo. Sbadatamente, quasi tiro fuori il coltello. Sentii che molti mi guardavano, per non dire tutti. Dissi, sornione:
« Guardate le mani di questa donna. Che polso e che cuore dovrebbe avere per menare un tal colpo! » Aggiunsi, come svogliato:
« Chi poteva sognarsi che il defunto, che dicono fosse un duro del quartiere, sarebbe finito in questo modo, e in un luogo così morto come questo, dove non succede mai niente, a meno che non capiti qualcuno di fuori per distrarci, e poi rimanere qui come sputacchiera? »
Nessuno ebbe il coraggio di ribattere.
Intanto, da fuori, si sentiva crescere nel silenzio un rumor di cavalli. Era la polizia. Chi più, chi meno, tutti avevano buoni motivi per tenersi alla larga, e decisero allora che era meglio affidare il morto al fiume. Ricorderete quella gran finestra per cui passò come un lampo il pugnale di Rosendo: bene, di li passò poi l'uomo in nero. Lo sollevarono in molti, e le loro mani lo alleggerirono di quante monete e di quanti gingilli aveva, e qualcuno gli tagliò un dito per prendergli l'anello. Avvoltoi, signor mio, che avevano tanto coraggio contro un povero morto indifeso e dopo che un altro uomo più forte lo aveva sistemato. Una spinta, e l'acqua turbolenta e paziente se lo portò via. Affinché non galleggiasse, forse gli strapparono le viscere, ma non lo so di sicuro perché non ebbi il coraggio di guardare. Quello dei baffi grigi non mi toglieva gli occhi da dosso. La Lujanera approfittò della confusione per fuggire.
Quando gli uomini della legge misero dentro la testa, il ballo era un po' animato. II cieco del violino sapeva tirar fuori alcune habanere che ormai non si sentono più. Fuori, l'alba si faceva strada. I pali di nandubay erano come liberi, perché il filo spinato non si vedeva ancora.
Me ne andai tranquillo al mio rancho, che distava circa trecento metri. Nella veranda ardeva un lumino, che poi si spense. Giuro che mi misi a correre, quando me ne accorsi. Allora, Borges, tirai fuori un'altra volta il coltello corto e affilato che sapevo portare qui, nel gilè, sotto l'ascella sinistra, e lo guardai lentamente. Era come nuovo, innocente, e non vi restava neppure una traccia di sangue.



MILONGA DE JACINTO CHICLANA
(Musica: A. Piazzolla)

Me acuerdo, fue en Balvanera
En una noche lejana
Que alguien dejò caer el nombre
De un tal Jacinto Chiclana

Algo se dijo tambien
De una esquina y de un cuchillo
Los anos nos dejan ver
El entrevero y el brillo

Quien sabe por que razon
Me anda buscando ese nombre
Me gustaria saber
Como habrà sido aquel hobre

Alto lo veo y cabal
Con el alma comedida
Capaz de no alzar la voz
Y de jugarse la vida

Nadie con paso mas firme
Habrà pisado la tierra
Nadie habrà sido como el
En el amor y en la guerra

Sobre la huerta y el patio
Las torres de Balvanera
Y aquella muerte casual
En una esquina qualquiera

Solo Dios puede saber
La laya fiel de aquel hombre
Señores yo estoy cantando
Lo que se cifra en el nombre

Siempre el coraje es mejor
La esperanza nunca es vana
Vaya pues esta milonga
Para Jacinto Chiclana



Ricordo. Fu a Balvanera
In una notte lontana
Che qualcuno fece il nome
Di un tal Jacinto Chiclana

Qualcosa si disse pure
Di un cantone e di un coltello
Gli anni ci fanno vedere
E il luccichio e il duello

Chissà per qualche ragione
Mi sta cercando quel nome
Mi piacerebbe sapere
Come sarà stato quell’uomo

Alto lo vedo e leale
E di natura cortese
Capace di non alzare la voce
E di giocarsi la vita

Nessuno con passo più saldo
Avrà calpestato la terra
Nessuno sarà stato come lui
Nell’amore e nella guerra

Sopra il giardino e il patio
Le torri di Balvanera
E quella morte casuale
In un cantone qualunque

Solo Dio può conoscere
La fibra fedele di quell’uomo
Signori io sto cantando
Ciò che si cela nel nome

Sempre il coraggio è migliore
La speranza mai è vana
Vada allora questa milonga
Per Jacinto Chiclana


J.L. Borges, LA SFIDAEvaristo Carriego, 1930
(Evaristo Carriego, ed. Einaudi, trad. di Vanna Brocca)

C’è un racconto leggendario o storico, o fatto di storia e di leggenda (ciò che forse è un altro modo per dire leggendario) che testimonia del culto del coraggio. Le sue migliori versioni scritte si possono cercare nei romanzi di Edoardo Gutoerrez, ora ingiustamente dimenticati: nella Hormiga Negra o nel Juan Moreira. Tra le versioni orali, la prima che udii proveniva da un quartiere delimitato da una prigione, un corso d’acqua e un cimitero e che si chiamava La Tierra del Fuego. Il protagonista di questa versione era Juan Muraña, carrettiere e accoltellatore, su cui convergono tutti i racconti di coraggio che circolano nei quartieri dei confini Nord. Questa prima versione era semplice. Un uomo dei Corrales o di Barracas, ben conoscendo la fama di Juan Murana (che non ha mai visto), viene per battersi con lui dal suo suburbio del Sud; lo provoca in un emporio, i due escono a lottare sulla strada: si feriscono; Murana, infine, lo marca e gli dice:
"Ti lascio in vita perché tu possa tornare a cercarmi".
Il carattere di assoluto disinteresse di quel duello me lo scolpì nella memoria; le mie conversazioni (e i miei amici lo sanno fino alla noia) non riuscivano a prescinderne; intorno al 1927 lo misi per iscritto e con enfatica laconicità lo intitolai Hombres pelearon; anni più tardi, l’aneddoto mi aiutò ad immaginare un racconto più fortunato che realmente meritevole, Hombre de la equina rosada; nel 1959, Adolfo Bioy Casares ed io lo riprendemmo per tessere la trama di un film che i produttori respinsero con entusiasmo e che si sarebbe dovuto intitolare Los Orilleros.
Credetti, al termine di fatiche tanto prolungate, di essermi liberato della storia del duello generoso; quest’anno, in Chivilcoy, ho raccolto una versione decisamente superiore, e speriamo che si tratti di quella autentica, per quanto possano benissimo esserlo entrambe, giacchè il destino si compiace nel ripetersi e ciò che accade una volta torna ad accadere. Due racconti mediocri e un film che considero ottimo nacquero dalla versione incompleta; nulla può nascere dall’altra che è assolutamente perfetta. La racconterò così come la raccontarono a me, senza aggiunta di metafore o di descrizioni. La vicenda, mi dissero, si svolse nel distretto di Chivilcoy, intorno al milleottocentosettanta e qualcosa. Wenceslao Suarez è il nome dell’eroe, che esercita il mestiere di intrecciatore e vive in una casupola. E’ un uomo di quaranta o cinquanta anni; gode della reputazione di coraggioso ed è piuttosto inverosimile (dati i fatti della storia che racconto) che non sia debitore di una o due uccisioni violente, ma queste, perpetrate in combattimenti regolari, non turbano la sua coscienza né macchiano la sa reputazione. Una sera, nella vita monotona di quest’uomo, sopravviene un fatto insolito: nella drogheria gli annunciano che è arrivata una lettera per lui. Don Wenceslao non sa leggere; il droghiere decifra con lentezza una cerimoniosa missiva che non è certamente né di pugno né di testo di chi gliela indirizza. A nome di alcuni amici che sanno apprezzare la destrezza e l’autentico sangue freddo, uno sconosciuto saluta Don Wenceslao, l’eco della cui fama ha varcato i confini dell’Arroyo del Medio, e gli offre l’ospitalità della sua umile casa, in un villaggio di Santa Fe. Wenceslo Suarez detta una risposta al droghiere; ringrazia per la cortesia, spiega che non se la sente di lasciare sola sua madre, già molto in là megli anni, e invita l’altro a Chivilcoy, nella sua casa, dove non mancheranno un asado e qualche bicchiere di vino. Passano i mesi e un uomo su di un cavallo bardato in modo leggermente diverso da quello del luogo chiede indicazioni in drogheria per trovare la casa di Suarez. Questi, che è venuto a comprare la carne, sente la domanda e si presenta, il forestiero gli ricorda le lettere che si sono scritti tempo addietro. Suarez si rallegra che l’altro si sia deciso a venire; quindi se ne vanno insieme verso un campiello e Suarez prepara l’asado. Mangiano e bevono e chiacchierano. Di che? Immagino di fatti di sangue, di fatti di violenza, ma con prudenza e circospezione. Hanno mangiato e il greve calore della siesta incombe sopra la terra quando il forestiero invita Don Wenceslao a scambiarsi qualche colpo. Rifiutare sarebbe un disonore. Cominciano con delle finte e lottano quasi per gioco all’inizio, ma Wenceslao non tarda ad accorgersi che il forestiero si propone di ucciderlo. Comprende, alfine, il vero significato della lettera cerimoniosa e deplora di aver mangiato e bevuto tanto. Sa che si stancherà prima dell’altro, che è ancora un ragazzo. Sornione o cortese, il forestiero gli propone una pausa. Don Wenceslao accetta, e, quando riprendono il duello, permette che l’altro lo ferisca alla mano sinistra, su cui porta il poncho arrotolato. Il coltello penetra nel polso, la mano rimane come morta, penzolante. Suarez, con un gran salto, si tira indietro, appoggia la mano sanguinante al suolo, la schiaccia con lo stivale, la strappa, finge un colpo al petto del forestiero e gli apre il ventre con una pugnalata. Così finisce la storia, salvo che per alcuni l’uomo di Santa Fe rimane sul campo, mentre per altri (che gli negano la dignità di morire) se ne ritorna alla sua provincia. In quest’ultima versione, Suarez gli presta le prime cure con l’alcool rimastogli dalla colazione…
Nelle gesta del Monco Wenceslao – così ora si chiama Suarez, per la sua gloria – la mitezza o la cortesia di certi tratti (il lavoro di intrecciatore, lo scrupolo di non lasciare sola la madre, le due lettere fiorite, la conversazione, la colazione) mitigano o accentuano efficacemente il tremendo racconto; questi tratti gli conferiscono un carattere epico e persino cavalleresco che non troveremo, per esempio, a meno di non aver deciso a priori di trovarlo, nelle risse da ubriaconi del Martin Fierro o nella analoga, ma più povera versione di Juan Murana e l’uomo del Sud. Un tratto comune a entrambe è certamente significativo. In ambedue lo sfidante risulta sconfitto. Può darsi che ciò si debba alla mera e meschina necessità di far trionfare il campione locale; ma anche, e così noi lo preferiremmo, a una tacita condanna della provocazione in queste finzioni eroiche; oppure, e sarebbe questa la versione migliore, alla oscura e tragica convinzione che l’uomo è sempre l’artefice delle proprie sventure, come l’Ulisse del XXVI Canto dell’Inferno. Emerson, che elogiò nelle biografie di Plutarco "uno stoicismo che non proviene da alcuna scuola, bensì dal sangue", avrebbe apprezzato questa storia.
Avremmo, dunque, uomini dalla vita miserabile, gauchos e orilleros dalle sponde del Plata e del Paranà, capaci di creare, senza saperlo, una religione, con la sua mitologia e i suoi martiri, la dura e cieca religione del coraggio, di essere pronti a uccidere e a morire. E’una religione vecchia quanto il mondo, ma sarebbe stata riscoperta, e vissuta, in queste repubbliche, da pastori, macellatori, mandriani, profughi e ruffiani.
La sua musica sarebbe quella dei recitativi delle milonghe e dei primi tanghi. Ho scritto che è una religione antica; in una saga del secolo XII si legge:
"Dimmi in che cosa credi", disse il conte.
"Credo nella mia forza", disse Sigmondo.
Wenceslao Suarez e il suo anonimo rivale e altri che la mitologia ha dimenticato o assimilato in loro, indubbiamente professarono questa fede virile, che può benissimo non essere una vanità, ma la coscienza che in qualunque uomo c’è Dio.




La pubblicazione de La Sfida valse al suo autore due lettere, fra cui questa, che ora arricchisce il libro:
Chivilcoy, 28 dicembre 1952
Signor Jorge Luis Borges, presso "La Naciòn"
Rif: Commenti a La Sfida
Le indirizzo questo scritto a scopo di informazione e non di rettifica, visto che l’essenziale non ne risente in alcun modo e che variano solo alcuni dettagli del fatto in questione.
Ho sentito molte volte dalla bocca di mio padre particolari del duello che serve alla trama de La sfidaapparsa su "La Naciòn" di oggi. Mio padre, all’epoca, viveva in un podere di sua proprietà, situato nelle vicinanze della "Drogheria di Doña Hipòlita", il cui possedimento confinante fu lo scenario dove si svolse il terribile duello fra Wenceslao e l’uomo di Azul – fu lo stesso forestiero a dire a Wenceslao che veniva da Azul, fino a dove era giunta l’eco della sua abilità – il quale era venuto a sfidarlo.
I due rivali mangiarono accanto a un mucchio di fieno fresco, certamente studiandosi a vicenda, e quando gli animi si furono un poco accalorati, giunse sicuramente l’invito al duello avanzato da quello del Sud e subito accettato dal nostro uomo.
Agile com’era, quello di Azul sembrava irrangiungibile dal coltellaccio del suo rivale, e la lotta si prolungava a tutto danno di Wenceslao. Dall’alto del covone, uno degli uomini di Doña Hipòlita, che aveva chiuso la porta della sua drogheria, data la piega che avevano preso gli avvenimenti, guardava spaventato l’andamento alterno della lotta. Wenceslao, deciso a farla finita, scoprì la guardia offrendo il braccio sinistro coperto dal poncho arrotolato. Si precipitò come una saetta quello di Azul, con un terribile fendente scaricato sul polso del suo avversario mentre la punta aguzza del coltello di Wenceslao lo colpiva ad un occhio. Un urlo selvaggio incrinò il silenzio della pampa e l’uomo di Azul, messo in fuga, si rifugiò dietro la solida porta della drogheria mentre Wenceslao calpestava la sua mano sinistra trattenuta da una striscia di pelle e d’un colpo la staccava dal braccio, infilava il moncone dentro la camicia e correva dietro al fuggitivo, ruggendo come un leone e reclamando la sua presenza per continuare la lotta.
Da allora Wenceslao fu conosciuto come il Monco Wenceslao. Viveva del suo lavoro di intrecciatore. Non provocava mai nessuno. La sua presenza nei luoghi pubblici divenne garanzia di pace, perchè bastava un suo energico richiamo proferito con calma, con la sua voce maschia, per scoraggiare gli attaccabrighe. Nell’ambito di questa povertà fu un signore. La sua vita semplice ebbe tuttavia un seguito, perchè la sua fiera personalità non tollerò mai l’insulto e tanto meno il disprezzo e perchè la sua profonda conoscenza delle debolezze umane lo aveva portato a dubitare della giustizia del suo tempo e quindi a farsi giustizia sè. Fu questo il suo errore, fatale alla sua stessa sopravvivenza.
Il brutto tiro di un gringo lo costrinse un giorno ad agire, e fu di lì che nacquero le sue disgrazie. Una grossa pattuglia di polizia riuscì ad asserragliarlo in un’osteria dove si era recato come d’abitudine. La lotta all’arma bianca, di cinque a uno, si stava risolvendo a favore di Wenceslao, quando il tiro preciso di un civile stese per sempre l’eroe del quartiere 13.
Il resto è esatto. Viveva con la madre in una casupola, che i vicini, e tra loro mio padre, lo avevano aiutato a costruire. Non rubò mai.
Colgo l’occasione per salutare lo scrittore di talento con l’espressione della mia più sincera ammirazione e simpatia. Juan B. Lauhirat