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Una morte mentale - Giovanni Papini

lunedì 18 maggio 2009 legge Riccardo Stella

Per Borges i racconti di Papini "…provengono da un’epoca in cui l’uomo si reclinava sulla sua melanconia e sui suoi crepuscoli, ma la melanconia e i crepuscoli non sono scomparsi, anche se ora l’arte li veste con costumi diversi". Oggi nuove conoscenze e tecniche ci pongono di fronte a nuove possibilità- minacce per alcuni- che generano responsabilità e scelte che riguardano la vita, la sua disponibilità, mentre la sottraggono di fatto al senso comune, al cieco gioco della natura, alla consuetudine silente della pietà familiare. Domande che costringono a considerare la nostra identità, mentre il clima culturale ci impone di vivere un eterno presente a-problematico, e la piena luce del mercato lascia poco spazio alle ombre dell’intimismo comunque vestito. "Una morte mentale" sfrutta il tema della scelta, del bel rifiuto della vita. Rispetto alla tematica attuale dell’ "etica del fine vita", o della "biopolitica", è accostabile forse solo per opposizione o paradosso, ma forse proprio per questo stimolante o positivamente provocatorio.

Giovanni Papini , Una morte mentale, da Lo specchio che fugge. La biblioteca di Babele, collana di letture fantastiche diretta da Jorge Luis Borges. Franco Maria Ricci Editore, Parma-Milano, 1975. pp. 32-49


Di uno de’ suicidi più nuovi degli ultimi anni non si saprebbe la vera storia, se io non avessi il vizio di andare in cerca degli eccezionali colla speranza — quasi sempre superflua — d’incontrarmi con un grande.Sappiamo tutti, noialtri, quanto sian difettose le statistiche — dico apposta difettose, nel senso di manchevoli. Per quanto alcuni equilibrati vegetanti vadano commiserando con grinta di terrore l’accrescimento continuo delle morti volontarie pure so, per conto mio, che non tutte vengono registrate. Fra i malati e gli uccisi — apparenti — i suicidi spesseggiano. Sono, forse, la maggioranza. Qualcosa mi spinge quasi a dire che ogni morte è volontaria. Ma come? In che modo? Ahimè! In modi volgari, comuni, comunissimi! Mancanza di sapere, mancanza di volontà — pochi sono quelli che prevedono e possono —: un gettarsi incontro al destino quasi come uccelli dentro al serpe o pazzi nel rogo. Uomini che non hanno voluto vivere e hanno preferito il breve presente al lungo e certo avvenire. Leopardi approverebbe: ma chi può negare che quelle son vitetroncate? Il suicidio del quale ho saputo il mistero non rassomiglia a nessuno di quelli fin qui conosciuti. Né la storia né la cronaca ne raccontano un altro simile o uguale. Era difficile trovare un mezzo non usato da nessuno. Tutti gli espedienti meno ovvii sono stati scoperti e messi in opera: ogni tanto i giornali, già sazi da tempo delle solite revolverate e de’ quotidiani avvelenamenti, ne raccontano qualcuno, come varietà curiosa, per far sorridere piacevolmente il lettore ottimista. Eppure egli lo trovò e lo praticò. Conobbi il futuro suicida in un modo curioso. (Debbo avvertire che dalle persone che mi sono state presentateregolarmente non ho mai ricavato nulla di straordinario). Frugavo una mattina in un barroccino di libri vecchi e mi venne fra mano il primo volume della traduzione francese dei Besi di Dostojewski. Li avevo già letti da parecchio tempo e più volte; eppoi c’era il primo volume soltanto e non avevo, perciò, nessuna idea di comprarlo. Ma senza saper come cominciai a sfogliarlo e corsi istintivamente alle pagine in cui l’ingegnere Kiriloff espone con tanta semplicità le sue idee sul suicidio. Avevo già notato qua e là, ne’ margini, de’ segni violenti di matita rossa ma qui v’erano addirittura delle postille. Erano scritte con lapis nero e sbiadite. Pure le decifrai. «Non così. — Va bene: bisogna superare il timor della morte e perciò prepararsi ad uccidersi ma non così. — II suicidio colle mani: roba da macellai. Non si arriva... — Tener presente l’idea per il mio metodo. — Bisogna negare, distruggere la vita da sé, a poco a poco, non spezzare il corpo ad un tratto: è stupido...» Queste poche righe, scritte per lungo, sui margini, esaltarono la mia curiosità come da un pezzo non mi accadeva. Chi poteva essere costui che aveva scritto tali parole? E qual'era il suo metodo, la sua morte senza morire? Sfogliai ancora nervosamente il volume. Meravigliai: sul foglio di guardia, in principio, v'era quello che cercavo: un timbro — di quegli orribili timbri violetti d'uso commerciale — con un nome, un cognome e un indirizzo!
Ottone Kressler
Via delle Ruote, 25, p.° p.°

Detti due soldi al libraio e me ne andai a casa di corsa col libro in tasca. Appena fui nella mia stanza l'esaminai meglio: v'erano altre postille ma non aggiungevan nulla di più strano a quelle che avevo già letto laggiù. Bastavan quelle, però, perché non avessi pace finché non avessi trovato il padrone del libro. Ma sarà stato lui quello che ha scritto così? E quel nome tedesco del timbro sarà quello del padrone ultimo e del misterioso postillatore? E s'è lui sarà sempre nella stessa casa? Qualunque congettura potessi fare non c'era da seguire che quel filo — l'unico. Non potevo stare alle mosse. Ripresi il libro e il cappello e riscappai fuori.
In pochi minuti — ho le gambe lunghe e la fretta de' nervosi — fui al numero venticinque di via delle Ruote.
Suonai alla porticina sudicia della strada. L'uscio si aprì:
— Chi è?
Era una voce di bambino. Infatti, salite due rampe di scale, vidi nel vano della porta una ragazzetta sbiancata, con un grembiule rosso e a piedi scalzi:
— Chi cerca?
— Sta sempre qui il signor Ottone Kressler? La bambina spalanca gli occhi e pensa. Poi, ad un tratto:
— Mamma! Mamma! Vieni.
Venne innanzi una donnetta sui quarant'anni, dal viso dispettoso, e sudicia come la figliuola. Mi guardò male:
— Chi voleva?
Ripetei il nome. Mi accorsi che la mia domanda non le fece assolutamente piacere.
— Che lo conosce? domandò sospettosa.
— Non lo conosco ma ho bisogno di vederlo subito, per affari. La donna era incerta ma la paura prevalse:
— Non ci sta più qui da noi. Son tre mesi al 15 ch'è andato via.
— E dove sta ora?
— Non lo so.
— Proprio? E non c'è nessuno che lo può sapere?
— La provi qui dal vinaio accanto e domandi di Cecchino. Le lettere gliele pigliava lui.
Salutai e discesi. C'era, a due passi dalla casa, una di quelle fiaschetterie colle tendine rosse, color di sangue sudicio e di vino cattivo, con un fiasco dipinto sul cartone a sinistra. Entrai. Che puzzo! Per fortuna non c'era nessuno, neppure un'anima al banco.
— Ehi di bottega!
Sentii nel fondo buio un rimescolio di sgabelli e di paglia e mi venne incontro una donna col viso tutto acceso che mi squadrò tra confusa e minacciosa.
— C'è gente! urlò senza accostarsi. Ed ecco dietro di lei venir fuori dalle tenebre un giovanottaccio biondo col grembiule turchino avvoltolato attorno alla cintola:
— Voleva?
— Scusi, è lei Cecchino?
— Sì, son io.
— Lo conosceva un certo signor Ottone Kressler che stava qui accanto?
— Lo conoscevo sicuro. Ma ora è andato via.
— E dov'è?
Vidi che anche lui non aveva nessuna voglia di rispondermi. Mi guardò un po' fisso eppoi mi disse
piano:
— Scusi, non per nulla, ma che ci avanza qualcosa? Perché, per dirgli la verità, è un povero disgraziato e non sa nemmen lui cosa fa. Gli ha lasciato parecchi debitucci qui nella strada e mi parrebbe d'avere un peccato all'anima se gli mandassi dietro qualcuno. La spia non l'ho mai fatta, se Dio vuole, e campare campo lo stesso...
— Lei sbaglia: io non devo aver nulla da lui. Anzi se mai dovrei dargli e ho bisogno di vederlo per una cosa molto importante... Ma fino a oggi non l'ho mai visto.
— Badi: gli darà poca retta. Se vedesse che tipo buffo che gli è! E par che non si ricordi di nulla e che non gli importi di nulla. E a volte parla da sé... ma però è un buon ragazzo e quando ce n'ha non è tirato come tanti.
— Senta: mi hanno detto che lei sa dove sta ora: me lo dica. Farà un piacere anche a lui.
Il giovanotto mi guardò ancora fisso: poi sia che si fosse persuaso ch'io non ero né una guardia né un creditore, sia che gì'importasse poco il segreto, rispose:
— Se non l'hanno portato all'ospedale in questi giorni sta in via della Stufa al 2.
Ringraziai e venni subito via. Da via delle Ruote a via della Stufa non c'è molto e ci giunsi senza avvedermene. Il numero due era un di que' vecchi palazzi fiorentini del quattro o cinquecento, coi finestroni ad arco tondo orlati di bugne rustiche in pietra forte e colla loggia — murata! — su in alto. Un po' scortecciato e parecchio sudicio; finestre murate a metà; segni di avvilimento dappertutto. C'era un portiere ciabattino che senza alzare il capo dalla scarpa e senza moto di sorpresa rispose alla mia domanda:
— All'ultimo piano, a destra.
Salii lo scalone disonorato da sputacchi e da ragnateli. In cima picchiai. Un'altra bambina aperse. Il signor Kressler era in casa e venne da sé incontro sulla soglia della camera sua a ricevermi. Forse scorderò cogli anni la sua figura ma fino a questo momento la serbo nitida, intatta e profondamente incisa nella mente.
Ottone Kressler era, come già pensavo tra me, alto e secco. Il suo viso allungato e stretto come se gli avessero compresso a forza le guance da piccolo, pareva la caricatura di un'apparizione hoff-manniana. Orbite profonde, incredibilmente profonde, con due bagliori in fondo; naso lungo, curvo, spirituale; bocca sinuosa ma non d'espressione femminile e voluttuosa bensì sarcastica e amara; denti accavallati; mento quasi a punta. Il viso era tutto rasato e tutto rosso ma non di quel rosso sano e naturale che si vede al sommo delle gote ma un rosso scuro, come di sangue battuto, che invadeva tutto, giù fino al collo. Era vestito male e aveva un soprabito bigio addosso e un cappellaccio in testa come se stesse per uscire. La mia smania di trovarlo era stata così grande che non avevo pensato alle prime parole da dire, alle scuse ragionevoli della mia visita. Mentre mi avvicinavo non sapevo più cosa dirgli. La necessità mi decise per la franchezza.
— È lei il signor Kressler?
Il giovane accennò di sì.
— Avrei bisogno di parlarle subito. L'altro mi accennò la sua stanza ed entrai. Era una camera grande e quasi vuota che dava sui tetti. Sopra una lunga cassa d'imballaggio era buttata una materassa e sopra la materassa un tappeto e un guanciale. Non v'eran seggiole: una poltrona sola, di giunco. Al muro, appese con funi, assi cariche di libri e in un cantuccio un leggio da musica, grande e nero e, per quel che mi parve, di solida e antica fattura. Il Kressler additò la poltrona e si sedette sopra il finto letto, guardandomi in viso zitto come se aspettasse da me tutte le spese della conversazione. Non mi persi di coraggio: tirai fuori di tasca il volume di Dostojewski e glielo porsi:
— E’ suo questo libro?
— Era mio, tempo fa. Me lo presero con altri libri dove stavo prima e vendettero ogni cosa per pagarsi. Il secondo l'ho ancora. La padrona era ignorante...
— E questo scritto in margine è suo? — ripresi accennandogli le postille accanto ai discorsi di Kiriloff.
— E’ mio. Ma perché?...
Il signor Kressler era calmissimo e appariva insensibile alla stranezza della mia visita e delle mie domande.
— Perché, lo interruppi di colpo, perché io ho letto queste parole e vi ho trovato l'accenno a un metodo, a un metodo nuovo di morte, a una morte senza mani, a un suicidio superiore. Sto occupandomi molto di ciò ed ho qualche idea... Io cerco tutti quelli che sentono la gravita della scelta e non si decidono alla sortita per una porta qualunque. Son venuto da lei perché mi dica se questo metodo esiste, se veramente lei ha trovatoqualche cosa e se questo qualche cosa sarà fatto... Via via che parlavo il mio ascoltatore andava perdendo un po' della sua calma. Dal fondo delle orbite le pupille si avvicinavano verso di me e l'occhio usciva dalla sua fossa come una bestia che si affaccia alla imboccatura della tana.
— Sì, sì... È questo! — esclamò — È mai possibile che qualcuno pensi seriamente a ciò — e in Italia! Lei è venuto da me per la questione della vera morte?
— Solamente per questo.
Il signor Kressler si alzò. Pareva commosso. La sua mano cercò e strinse la mia. Dovetti dirgli il mio nome. Gli vidi in faccia il desiderio di abbracciarmi.
— Si potrebbe parlarne ora. — ripresi — Ma lei usciva?
— No, no, non uscivo affatto. Sto sempre vestito così anche in casa. Non mi piace spogliarmi. Possiamo parlarne benissimo ora, subito, quanto vuole. Le racconterò tutto, le dirò tutto quello che vuole. Prima di morire l'idea sarà sua. Trasfusione e comunicazione: non ci avevo pensato; non avevo nessuno. Tanti orecchi ma quanti pochi cervelli! Eppoi qui! Forse in Germania... Ma non posso tornarci: la miseria! Guardi qui! E mi accennava la stanza vuota, le travi del palco, i vetri delle finestre rotti e rimpiaccicottati con striscie di foglio.
— Lei vorrebbe la mia storia? Ma la mia storia comincia ora! Il primo capitolo della mia vita sarà l'ultimo, e l'epitaffio può fare anche da titolo. Ho nome tedesco; mio padre era bavarese, immigrato qua. Ma la mamma èitaliana e vive ancora e non capisce nulla — come tutte le mamme. Facevo qualcosa come l'impiegato o lo scrivano in una bottega di macchine. Mio padre era un uomo moderno, all'industriale, e con qualche spruzzo di Bismarck. Cretino, del resto, e reso peggiore da Goethe e dal Chianti al quale s'era convertito negli ultimi anni. Ma io scrivevo copiavo sommavo e sempre c'era in me l'idea della vita. Solite storie: lei le saprà a memoria. Cos'è? Perché? Dove si va? Val la pena di vivere? eccetera eccetera. La sera, invece di andar fuori, leggevo e chiedevo a tutti i libri quel che nessun uomo diceva. Volevo la vita, la più grande e bella vita possibile e non la vedevo intorno a me, neppure in quelli che, secondo gli altri, stavan bene. E gli ideali de' filosofi non mi persuadevano. Cercai di praticarli uno dopo l'altro, e fu una corsa di speranze schiaffeggiate. Eppure senza un punto d'appoggio metafisico, razionale, non sapevo vivere. Mi sembrava d'esser più spregevole de' cani che mangiano per elemosina, vanno fuori in museruola e pisciano a tutte le cantonate. Lasciai l'impiego e dovetti, per questo, separarmi dalla famiglia. Girai il mondo da me, a piedi, quasi senza soldi; chiedendo ospitalità o dando lezione di quel che capitava. Fui arrestato due volte ma liberato dopo pochi giorni. Arrivai fino in Germania: avevo la nostalgia della patria non vista. Camminavo poco ogni giorno. Appena trovavo un bel posto mi fermavo e mi stendevo sull'erba, nei campi, sulle panche di pietra delle piccole città tranquille. Veniva la sera, venivan le stelle; pensavo, dormivo. Mangiavo poco; bevevo alle fonti, colla bocca nelle pozze e ne' fossi; dormivo alla peggio, ne' capanni o nelle case de' poveri. E pensavo, pensavo sempre. Pensavo anche dormendo. Tutte le risposte a quelle domande le conoscevo o le indovinavo eppure la luce mi venne da un altro — da un prete. Era un prete vecchio che incontrai un giorno dinanzi ad una chiesa di campagna. Andava su e giù per il prato a capo basso e mi vide così stanco e triste che mi salutò e mi chiese se volevo bere. Attaccammo discorso. Mi parve più intelligente de' suoi compagni. Gli dissi qualcosa de' miei dubbi, delle mie ricerche, della mia inquietudine. E fu allora che udii le parole che mi aprirono la mente ad un tratto:
— Ma non capite che il senso della vita sta nella morte e soltanto nella morte? Soltanto chi vorrà morire, chi sarà di già morto in questa vita fin da ora, soltanto costui godrà e assaporerà e conoscerà la vita!
Forse codeste parole eran l'eco di qualche luogo comune ascetico e prive, per lui, di ogni profondo significato. Forse le ripeteva da qualche zibaldone ecclesiastico, da cui le aveva ricopiate in seminario, per quel loro aspetto di santo paradosso. Non lo so; per me furono la scoperta, l'illuminazione,
il principio della nuova esistenza. La sera stessa, in canonica — dove il prete mi aveva invitato a mangiare e a dormire — le volsi e le rivolsi in tutti i sensi, le illuminai con tutte le luci de' miei pensieri, e ne sgomitolai fuori quel che potevan contenere e più ancora. Oggi quelle verità mi son talmente familiari ch'io non so più quasi che farmene e se le richiamo ora è per darne notizia a lei: ma allora! Che il segreto della vita stia nella morte l'avevo sospettato da un pezzo ma in un senso negativo e fisico e nello stesso tempo così arrischiatamente trascendentale e fideistico che la mia mente non ci s'era voluto fermare a nessun costo. Un colpo di pistola:bum! eppoi la luce, la grande, l'eterna, la definitiva luce. Può darsi! Forse! E se poi non fosse? Il principe Amleto non era, per quanto voglian dire, un imbecille.
Ma qui, nelle parole del prete campestre, v'era di più: non già la rottura secca ad un tratto del cervello, della circolazione eccetera, per buttarsi nel mare speranzoso delle possibilità ma la morte nella vita, la realizzazione presente, attuale, immediata dello stato di morte nello stato di vita. — Non capisce?
E il signor Kressler tacque un momento guardandomi dal fondo delle sue fosse illuminate. Non seppi lì per lì che rispondere, e in quella breve pausa di silenzio si udì aprire smanieratamente la porta. Apparve un uomo basso, livido, in maniche di camicia — un volgarissimo uomo, che mi richiamò invincibilmente l'idea di un calzolaio vizioso — che ci guardò tutti e due con arroganza. Kressler appena lo vide s'alzò, corse verso di lui e uscì chiudendo dietro la porta. Subito dopo gridi e bestemmie e colpi di pugno sulle tavole e seggiole sbatacchiate... Non capii una parola: un confuso ronzìo di rabbia plebea riempiva penosamente la casa. Dopo tre o quattro minuti silenzio e Kressler riaprì la porta e di nuovo si buttò seduto sulla cassa. Era un po' più pallido in viso e da un lungo graffio sulla fronte, proprio sopra al sopracciglio sinistro, scendevano grosse gocciole di sangue scuro e denso. Lo strano uomo prese il fazzoletto, se lo pigiò colla mano sulla piccola ferita e mormorò quasi per scusa:
— Vogliono mandarmi via in tutti i modi... Non avranno da aspettar molto...
Mi accorsi che se non ci fossi stato io gli sarebbe venuto da piangere. Quella scena improvvisa ed enigmatica mi aveva turbato: mi alzai per andar via. Quando Kressler se ne accorse si alzò anche lui e mi porse la mano. Non pensavo in quel momento alla mia curiosità e senza chiedergli altro gli dissi due o tre parole di saluto ed uscii. Quando fui fuori della casa e della strada mi guardai intorno come se mi fossi svegliato allora da un sogno. La sera si avvicinava: tutte le cose avevan quell'aspetto spirituale e indeciso che succede immediatamente al tramonto e le fa sembrare come illuminate dal di dentro. Le botteghe si facevan gialle e bianche per i lumi; nelle strade non ancor tutte buie le ombre degli uomini correvano più veloci ma senza strepito. Il senso profondo della ripetuta e infinita inutilità di tutti gli sforzi, che ritorna alla fine di ogni morte di sole come la maledizione della sera, penetrava, forse anche nell'animo dei barrocciai silenziosi e delle ragazze sgattaiolanti. Andavo lento e pensieroso, sempre innanzi, senza saper dove fermarmi, cercando di ricordare le fattezze e le parole di lui quasi le avessi viste e ascoltate tanto tempo innanzi. Ma tutto mi distraeva — lo sguardo di una donna, la bestemmia di un ragazzo, le lettere luminose di un teatro. E ogni tocco di campana mi faceva rabbrividire: e le memorie e le nostalgie dondolavano a gara ma stanche nel buio turbinoso della mia mente. Ad un tratto, accanto a me, una voce:
— Di qua, di qua — saremo più soli. Mi voltai: era Kressler. Kressler, vestito come l'avevo trovato in casa, che mi guardava come se nulla fosse accaduto. Mi prese per il braccio e l'accompagnai. Era uscito di casa subito dopo di me e mi aveva seguito. Andammo verso il fiume: in fondo all'orizzonte c'era ancora una riga dritta, quasi bianca. Le fiamme gialle in doppia fila tremolavano lungo la calma corrente. Kressler ricominciò a parlare:
— Credo che lei abbia capito di già. Io capii subito tutto, la prima sera. Badi che le parole del prete non dicono che un caso speciale di una legge ch'io credo e vedo universale. Non soltanto il segreto della vita è nella morte ma il segreto della luce è nelle tenebre, il segreto del bene è nel male, il segreto della verità è nell'errore, il segreto del sì è nel no! E allora ogni Faust che vuol vivere, ogni anima avida che vuol abbracciare la vita come si abbraccia un'amante per sentirla tutta, per baciarla tutta, per goderla tutta deve prepararsi a morire, deve mettersi dentro la morte. Se noi riusciamo, in qualche momento, a vivere intensamente, gli è che la vita è un lento morire e che ogni voluttà è uno dei tanti sobbalzi e rantoli di questa lunga agonia.
Da quel giorno io decisi di rinunziare alla vita, di farmi un'anima di morto — di morire rapidamente. Ma non a un tratto e non con mezzi esteriori e materiali. Esser già un cadavere prima che il seppellimento sia necessario — e suicidarsi in modo che la morte sembri naturale e involontaria. Ecco la mia scoperta: uccidersi con la volontà, con l'anima propria e non con l'armi, non con le mani, non coi veleni. Morire a forza di pensare di voler morire. Ed è quello che sto facendo. Ecco quel che voleva sapere da me. E’ contento? Lo guardai stupito perché pronunciò queste ultime parole quasi in tono di rabbia sprezzante. Ma tosto si riprese:
— Non ci badi: la morte non è ancora completa. La verità è che il suicidio come si pratica oggi e s'è praticato sempre mi fa schifo. Quel sangue dei coltelli, quelle contorsioni de'veleni, quegli sfra-cellamenti delle cadute, quei colpi di revolver mi son parsi sempre qualcosa di basso, di brutto, di macellaresco, d'ignobile. Perché distruggere il capolavoro del nostro corpo con quei tagli brutali e annegare la nobiltà dell'anima in quelle stragi disgustose? L'anima può tutto, l'anima è tutto, la volontà è signora del mondo. Basta voler morire, ma volere seriamente, fortemente, costantemente e la morte a poco a poco s'insedia in noi e ci penetra tutti sì che un soffio solo, dopo, ci può ribaltare di là. E volere, in questo caso, significa non volere. Per vivere noi vogliamo continuamente e per morire bisogna voler sempre meno e voler soltanto non volere. Tutta la vita è fatta di sforzi: non sforzandosi più, per niente, in nessuna maniera, la vita si vuota e si sgonfia da sé e l'accettazione del tutto e la rinunzia del tutto si equivalgono, si fondono, sono una cosa sola. Difficile è volere ma più difficile senza confronti è il non voler mai. Non ci sono ancor giunto. Io mi sto uccidendo ogni giorno e ogni ora ma ogni tanto, quando men l'aspetto, l'istinto demoniaco della resistenza e l'impulso pazzo del desiderio sempre ritornano a galla e mi ricacciano addietro, fra i vivi, fra tutti.
Ma son ormai più vicino alla morte, e perciò alla felicità, di tanti che cercano nella vita quel che la vita non potrà mai dare. Appena sarò morto tutto la vita mi riprenderà come suo figliuol preferito e non mi sarà negato nulla di quel che il sole illumina e colora. E ora, oggi stesso, pregusto già queste gioie. Per gli altri non son niente — non mangio, non leggo, non mi diverto, non amo, non gioco, non guadagno: son già mezzo morto. Appena respiro e mi muovo... Eppure non darei questi giorni per tutte le belle donne di Londra e tutte le casseforti di America. Quel che per gli altri è il cielo per me è una finestra e tutta la terra, coi suoi oceani, è uno scalino in cima a una torre e nulla più e nel silenzio della notte le musiche che mi arrivano all'orecchio son più voluttuosamente dolorose di quelle di Chopin e più misticamente solenni di quelle di Bach. Nessuna donna può essere così perfetta come quella che mi ama nel mio pensiero e che creo tutti i giorni, da capo a piedi, come il buon Dio della Bibbia, e tutti i sistemi e i concetti dei profondi maniaci che io e voi conosciamo son cerchi di carta e aquiloni senza filo di fronte al possedimento diretto della realtà fuori dalle inferriate dello spazio e dalle ore del tempo...
Kressler tacque a un tratto, come prima, quando l'uomo minaccioso era apparso nel vano della porta. Si guardò attorno cercando di sfuggire il mio sguardo. Mi parve che si pentisse di avermi parlato e che quasi se ne vergognasse.
— Mi dia il suo indirizzo, — riprese — l'avvertirò quando il momento sarà più vicino. Non venga più a trovarmi.
Gli detti il mio biglietto e ci separammo freddamente. Non ho mai veduto faccia più triste della sua in quella sera.
Per quattro mesi non seppi nulla di lui. Poche settimane fa una donna venne a cercarmi da parte sua.
— Cosa c'è — chiesi. — Sta male? Muore?
— Par di sì.
Corsi in via della Stufa. Lo trovai in un vero letto e in mezzo al bianco. Una signora vecchia era seduta vicino a lui e lo guardava. Era dimagrato ancora ma il rosso scuro del volto non era stato coperto dal pallore della fine. Mi accostai al letto.
— Avevo ragione, — mi sussurrò a bassa voce — la scoperta è fatta. La volontà è vinta. Son già morto. Fra poche ore o pochi giorni l'ultima apparenza di vita cesserà... Nessuno mi ha ucciso... Io solo... senza le mani... Che beatitudine! nessuna lingua umana potrebbe dire... sono morto... mi sono ucciso da me... basta volere... ognuno può imitarmi, lei sa il mio segreto... Questa è la vera via — l'unica...
La signora, mentre Kressler parlava, era inquieta: pareva che soffrisse orribilmente per la mia presenza.
Finalmente non potè resistere: — Via di qua — mi gridò — via di qua, assassino! Credo ch'ella fosse gelosa di me o forse mi credeva uno di quelli che secondo lei avevan fatto impazzire e morire il suo figliuolo. Kressler non si dette cura di smentirla e socchiuse gli occhi, come se non volesse sapere più nulla. Non pensai né a discutere né a persuaderla ed uscii di là col cuore in subbuglio.
Dopo due giorni Kressler moriva nel senso umano e scientifico della parola. Dietro al carro di seconda classe la carrozza della mamma traballava chiusa e lenta come un rimorso.