Pasolini e la barbarie del progresso senza sviluppo
Alcuni estratti degli ultimi interventi di Pier Paolo Pasolini - (il seminario “Volgar'eloquio”, tenuto a Lecce il 21 ottobre 1975; la Lettera luterana a Italo Calvino, pubblicata sul “Corriere della sera” il 18 ottobre dello stesso anno; due poesie “italiane” de La seconda forma de La meglio gioventù del 1974), unitamente ad alcune bellissime pagine raccolte postume in Descrizioni di descrizioni, che inizia come un brano di narrativa per poi diventare un testo di critica - permettono di riscoprire la qualità profonda, insieme lucida e viscerale, della sua critica della modernità, non riducibile a mere contrapposizioni, ma vivificata da contraddizioni e interrogativi rimasti aperti. La visione di un'umanità omologata dalla religione del consumo, corrotta dal culto dell'edoné e inebetita dalla stupidità delittuosa della televisione, è diventata il nostro presente.
Pier Paolo Pasolini, “Appunto per una poesia in terrone”
da La Nuova Gioventù, Torino, Einaudi, 1975 Cosi non si può più andare avanti.
Perché avete lasciato che i nostri figli fossero educati dai borghesi? Perché avete permesso che le nostre case fossero costruite dai borghesi? Perché avete tollerato che le nostre anime fossero tentate dai borghesi? Perché avete protestato solo a parole mentre pian piano la nostra cultura si andava trasformando in una cultura borghese? Perché avete accettato che i nostri corpi vivessero una cultura borghese? Perché non vi siete ribellati alla nostra ansia, che si giustificava giorno per giorno con lo strappare qualcosa alla miseria, ad avere una vita borghese? Perché vi siete condotti in modo da trovarvi di fronte a questo fatto compiuto, e, vedendo che ormai non c'era più niente da fare, eravate disposti a salvare il salvabile, partecipando, realisticamente, al potere borghese? Cosi non si può più andare avanti. Bisognerà tornare indietro, e ricominciare daccapo. Perché i nostri figli non siano educati dai borghesi, perché le nostre case non siano costruite dai borghesi, perché le nostre anime non siano tentate dai borghesi. Perché se la nostra cultura, non potrà e non dovrà più essere la cultura della povertà, si trasformi in una cultura comunista. Perché i nostri corpi, se è destino che non vivano più l'innocenza e il mistero della povertà, vivano la cultura comunista. Perché la nostra ansia, se è giusto che non sia più ansia di miseria, sia ansia di beni necessari. Torniamo indietro, col pugno chiuso, e ricominciamo daccapo.
Pier Paolo Pasolini, “Versi sottili come righe di pioggia” da La Nuova Gioventù, Torino, Einaudi, 1975
Bisogna condannare severamente chi creda nei buoni sentimenti e nell'innocenza.
Bisogna condannare altrettanto severamente chi ami il sottoproletariato privo di coscienza di classe.
Bisogna condannare con la massima severità chi ascolti in sé e esprima i sentimenti oscuri e scandalosi.
Queste parole di condanna hanno cominciato a risuonare nel cuore degli Anni Cinquanta e hanno continuato fino a oggi.
Frattanto l'innocenza, che effettivamente c'era, ha cominciato a perdersi in corruzioni, abiure e nevrosi.
Frattanto il sottoproletariato, che effettivamente esisteva, ha finito col diventare una riserva della piccola borghesia.
Frattanto i sentimenti ch'erano per loro natura oscuri sono stati investiti nel rimpianto delle occasioni perdute.
Naturalmente, chi condannava non si è accorto di tutto ciò: egli continua a ridere dell'innocenza, a disinteressarsi del sottoproletariato
e a dichiarare i sentimenti reazionari. Continua a andare da casa all'ufficio, dall'ufficio a casa, oppure a insegnare letteratura:
è felice del progressismo che gli fa sembrare sacrosanto il dover insegnare ai domestici l'alfabeto delle scuole borghesi.
È felice del laicismo per cui è più che naturale che i poveri abbiano casa macchina e tutto il resto.
È felice della razionalità che gli fa praticare un antifascismo gratificante ed eletto, e soprattutto molto popolare.
Che tutto questo sia banale non gli passa neanche per la testa: infatti, che sia così o che non sia così, a lui non viene in tasca niente.
Parla, qui, un misero e impotente Socrate che sa pensare e non fìlosofare, il quale ha tuttavia l'orgoglio non solo d'essere intenditore
(il più esposto e negletto) dei cambiamenti storici, ma anche di esserne direttamente e disperatamente interessato.
Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni a cura di Graziella Chiarcossi, Torino, Einaudi 1979
Apro la finestra di vecchio legnpo, con dei complicati chiavistelli, e mi appare una calle, con l’acqua verde, le case rosse intorno, piccole, lavorate come oggetti, i cortili interni circondati da tetti e comignoli. Una campana suona con foga; e appena smette, eccone una altra più lontana, come di latta, che rintocca disperatamente, a distesa. Sul piccolo marciapiede della calle, oltre la gradinata di un ponticello passano due donne, una ancora giovane, e una vecchia che si appoggia al bastone. Vanno a messa, certamente, oppure in visita mattutina a qualche signora amica, dove le attende il caffè, o un liquore dolce. Degli uomini parlano a bassa voce, fra loro sulla tolda di una piccola barca, nuova, gialla, ammassata con delle altre lungo la riva di pietra. Ecco una terza campana, più lontana ancora, e più solenne, mista ad altre campanelle. È domenica mattina: non c’è dubbio, la Chiesa chiama con accenti severi, mentre la gente è stranamente leggera e lieta, senza mostrarlo. Un ardente sole settembrino che già più non scalda sembra tutto assorbire e rendere silenzioso nella sua luce… Ecco, ecco, due piccoli soldati che scendono i gradini del ponte… tre ragazzi con delle magliette molto colorate e i capelli tosati che camminano con malcelato fervore… Un gruppo di donne con un bambino, su cui si chinano tutte… Verso questi miei simili che vivono una giornata di vita piccolo-borghese di un'epoca finita per sempre, anche se durata solo fino a pochi anni fa, io provo un sentimento forte, intenso, carico di espressività. La loro vita mi appare misteriosa, sì, come quella di un popolo defunto in millenni remoti, oppure come quella di un popolo di formiche, di castori. Nel tempo stesso, mi è profondamente famigliare. C'è, tra me e loro, una complicità, o un' alleanza, o un patto, che mi ha legato ad essi dalla nascita, obbligatoriamente come il battesimo lega a una chiesa: se le parole precise di questo patto, sono andate perdute, resta la certezza di averle sapute e un vago ricordo, che è tutto. Tuttavia l’immensa quantità di cose in comune - sentimenti, necessità, abitudini, convinzioni – apparendomi in loro, mi si presenta come dotata di un altro spirito che mai io possiederò in quella sua interezza che spiega totalmente la vita: tutt' al più potrei esprimerlo. Sono infatti scrittore: e questo rapporto di nostalgia per la intensità, la completezza, la purezza della vita – che si manifesta solo nelle vite altrui, sia in quelle tragiche che in quelle ridicole, sia in quelle povere che in quelle ricche - è il rapporto che mi permette di esprimerla. O, meglio, che mi ha permesso di esprimerla. Per molti anni, per quasi un’ intera esistenza, il mio rapporto con gli uomini è stato dominato da questa idea rispettosa e sgomenta della loro necessità, al di là del male e del bene. La condizione era quella piccolo-borghese, sovrapposta ingiustamente sopra una condizione popolare. Ma ne nasceva un tutto, di cui faceva parte anche la lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori, una cultura potenziale contro la cultura reale. Sapevo, certo, che, nell' orbita del potere, i piccolo-borghesi erano nell'enorme maggioranza dei teppisti, delle persone che non avevano interesse per niente, dei conformisti criminali, dei potenziali fascisti: questo in quanto piccolo-borghesi. In essi sussisteva, però, l' altra natura, quella della classe da cui erano appena provenuti, o da cui si andavano formando, e che costituiva la maggioranza della nazione. Ora, in pochi anni, tutto è cambiato. Il piccolo-borghese non solo si è definitivamente distinto dalla classe popolare - prevalentemente contadina - da cui proveniva, ma, fornito di mezzi come nessuna classe privilegiata ha mai posseduto nella storia, ha cominciato, tenendo immediatamente clamorosi risultati, a borghesizzare l'intera nazione. Resta, attaccata allo stupendo passato, con tutte le sue ingiustizie, qualche piccola isola, come questa Venezia di una domenica mattina. Le caratteristiche «negative», «nere», del piccolo-borghese, si sono stabilizzate una volta per sempre: hanno perso la loro barbarie (o tendono a perderla), ma sostanzialmente sono le stesse: teppismo, ferocia, disinteresse per ogni cosa, paura, conformismo, volgarità. Nulla è più ormai al di fuori di questo. Dunque il rapporto di uno scrittore con gli altri uomini non può che essere radicalmente mutato. Ciò che rende ancora misteriosa l'esistenza umana è solo la sua volontà collettiva, con le sue scelte, riguardanti soprattutto il futuro. Ma questo non basta a far amare gli uomini, a far provare verso di essi quello slancio di innamorata curiosità, che, mista al terrore, spingeva uno scrittore a scrivere: cioè a descrivere.
Pier Paolo Pasolini, Volgar’ eloquio , a cura di G.C. Ferretti, Editori Riuniti, 1887
C’è ancora in Italia una certa diversificazione, c’è effettivamente, ma non è più la diversificazione di dieci anni fa. Mentre diversificazione dieci anni fa era un vero e proprio pluralismo culturale, nel senso antropologico della parola, oggi invece la diversificazione è di livelli economici, che trascinano con sé situazioni di carattere burocratico. Praticamente, mentre la diversificazione, fino a dieci anni fa circa, era una diversificazione costituita da realtà, oggi è una diversificazione costituita soprattutto da sopravvivenze, e oggi si pone - non lo dico né positivamente né negativamente, lo dico come un dato di fatto - come una sopravvivenza. Il dialetto non è più il problema di una realtà culturale e antropologica, ma è il problema di una sopravvivenza culturale e antropologica. Ora, è molto più difficile avere a che fare con delle sopravvivenze che con delle realtà e allora devo dire che effettivamente la difficoltà pedagogica (di cui lei parlava) è veramente enorme. Io se fossi in una scuola adesso, veramente non invidierei affatto la (vostra) situazione, perchè veramente non saprei che cosa dire, non saprei che cosa insegnare. Bisognerebbe insegnare tutto daccapo, abbandonando cose che ci hanno sostenuto per tanti anni, delle verità che ci erano sembrate assolute: parliamo di certe realtà del progressismo o, per un cattolico, anche certe realtà, diciamo cosi, cristiane, religiose, perché no? Ora, tutte queste verità, che ci hanno sostenuto per tanto tempo, sono profondamente in discussione, messe in discussione dal cambiamento della realtà del nostro paese, e quindi è molto difficile aprire bocca in una classe e insegnare, perché un insegnamento di tipo repressivo è impossibile, l'insegnamento di tipo non repressivo, tollerante, comincia a dimostrarsi fallimentare, anche quello, e quindi è tremendo... coinvolgere lo scolaro in una problematicità a cui non è però molto in grado di partecipare, perché alla lotta disperata di un gruppo di professori si oppone tutta una vita, tutta un' esistenza, una famiglia, una televisione, uno sport, il motociclismo, 1'automobilismo; è molto difficile coinvolgerlo nei problemi, perché lui vive ormai esistenzialmente, anche se inconsapevolmente, una nuova qualità di vita, c’è poco da fare. E un problema molto difficile (per voi insegnanti). (…) Se pongo il problema di dire fino a che . punto il mio progressismo è reale o è invece una forma di clericalismo, fino a che punto sono ancora un progressista o sono già un nuovo chierico, con una sua retorica e un suo moralismo, per esempio - tanto per dirne una, come una cosa che mi sta molto a cuore in questo momento deve essere una discussione profonda, disperata e sincera con la propria coscienza .
Pier Paolo Pasolini, “Lettera luterana a Italo Calvino” da Lettere luterane, Torino, Einaudi 1976
Tu dici (<< Corriere della Sera», 8 ottobre 1975): «I responsabili della carneficina del Circeo sono in molti e si comportano come se quello che hanno fatto fosse perfettamente naturale, come se avessero dietro di loro un ambiente e una mentalità che li comprende e li ammira». Ma perché questo? Tu dici: «Nella Roma di oggi quello che sgomenta è che questi esercizi mostruosi avvengono nel clima della permissività assoluta, senza più l'ombra di una sfida alle costrizioni repressive ... » Ma perché questo? Tu dici: « ... il pericolo vero viene dall'estendersi nella nostra società di strati cancerosi ... » Ma perché questo? Tu dici: «Non c'è che un passo dall'atonia morale e dalla irresponsabilità sociale (di una parte della borghesia italiana, tu dici) alla pratica di seviziare e massacrare ... » Ma perché questo? Tu dici: «Viviamo in un mondo in cui 1'escalation nel massacro e nella umiliazione della persona è uno dei segni più vistosi del divenire storico (onde criminalità politica e criminalità sessuale sembrano in questo caso definizioni riduttive e ottimistiche, tu dici)». Ma perché questo? Tu dici: «I nazisti possono essere largamente superati in crudeltà in ogni momento». Ma perchè questo? . Tu dici: «In altri paesi la crisi è la stessa, ma incide in uno spessore di società più solido». Ma perché questo? Io sono più di due anni che cerco di spiegarli e volgarizzarli questi perché. E sono finalmente indignato per il silenzio mi ha sempre circondato. Si è fatto solo il processo a un mio indimostrabile refoulement cattolico. Nessuno è intervenuto ad aiutarmi ad andare avanti e ad approfondire i miei tentativi di spiegazione. Ora, è il silenzio, che è cattolico. Per esempio, il silenzio di Giuseppe Branca, di Livio Zanetti, di Giorgio Bocca, di Claudio Petruccioli, di Alberto Moravia, che avevo nominalmente invitato a intervenire in una mia proposta di processo contro i colpevoli di questa condizione italiana che tu descrivi con tanta ansia apocalittica: tu, cosi sobrio. E anche il tuo silenzio a tante mie lettere pubbliche è cattolico. E anche il silenzio dei cattolici di sinistra è cattolico (essi, che dovrebbero avere finalmente il coraggio di definirzi riformisti, o con più coraggio ancora luterani. Dopo tre secoli, sarebbe ora). Lascia che ti dica che non è cattolico, invece, chi parla e tenta di dare spiegazioni magari dal vivo e circondato dal più profondo silenzio. Non sono stato capace di starmene zitto, come non sei capace di startene zitto tu ora. «Bisogna aver molto parlato per poter tacere» (è uno storico cinese che, stupendamente, lo dice). Dunque parla, una buona volta. Perché? Tu hai steso un «cahier de doléances» in cui sono allineati fatti e fenomeni a cui non dai spiegazioni, come farebbe Lietta Tornabuoni o un giornalista sia pur indignato della Tv. Perché? Eppure io ho anche da ridire sul tuo «cahier», al di fuori della mancanza dei perché. Ho da ridire sul fatto che tu crei dei capri espiatori, che sono: «parte della borghesia», «Roma», i «neofascisti». Risulta evidente da ciò che tu ti appoggi a certezze che valevano anche prima. Le certezze (come ti dicevo in un'altra lettera) che ci hanno confortato e anche gratificato in un contesto clerico-fascista. Le certezze laiche, razionali, democratiche, progressiste. Cosi come sono esse non valgono più. Il divenire storico è divenuto, e quelle certezze son rimaste com'erano. Parlare ancora come colpevole di «parte della borghesia» è un discorso antico e meccanico perché la borghesia, oggi, è nel tempo stesso troppo peggiore che dieci anni fa, e troppo migliore. Tutta. Compresa quella dei Parioli o di San Babila. È inutile che ti dica perché è peggiore (violenza, aggressività, dissociazione dall'altro; razzismo, volgarità, brutale edonismo), ma è inutile che ti dica anche perché è migliore (un certo laicismo, una certa accettazione di valori che erano solo di cerchie ristrette, votazioni al referendum, votazioni al 15 giugno). Parlare come colpevole della città di Roma, è ripiombare nei più puri anni Cinquanta, quando torinesi milanesi (friulani) consideravano Roma il centro di ogni corruzione: con aperte manifestazioni razzistiche. Roma coi suoi Parioli, non è oggi affatto peggiore di Milano col suo San Babila, o di Torino. Quanto ai neofascisti (giovani) tu stesso ti sei reso conto che la loro nozione va immensamente allargata: e la possibile crudeltà nazista di cui parli (e di cui da tanto vado parlando io) non riguarda solo loro. Ho da ridire anche su un altro punto del «cahier senza perché». Tu hai privilegiato i neofascisti pariolini del tuo interesse e della tua indignazione, perché sono borghesi. La loro criminalità ti pare interessante perché riguarda i nuovi figli della borghesia. Li porti dal buio truculento della cronaca alla luce dell'interpretazione intellettuale, perché la loro classe sociale lo pretende. Ti sei comportato - mi sembra - come tutta la stampa italiana, che negli assassini del Circeo vede un caso che la riguarda, un caso, ripeto, privilegiato. Se a fare le stesse cose fossero stati dei «poveri» delle borgate romane, oppure dei «poveri» immigrati a Milano o a Torino, non se ne sarebbe parlato tanto e a quel modo. Per razzismo. Perché i «poveri» delle borgate o i «poveri» immigrati sono considerati delinquenti a priori. Ebbene, i «poveri» delle borgate romane e i «poveri» immigrati, cioè i giovani del popolo, possono fare e fanno effettivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli: e con lo stesso identico spirito, quello che è oggetto della tua «descrittività». I giovani delle borgate di Roma fanno tutte le sere centinaia di orge (le chiamano «batterie») simili a quelle del Circeo; e, inoltre, anch'essi drogati. L'uccisione di Rosaria Lopez è stata molto probabilmente preterintenzionale (cosa che non considero affatto un'attenuante): tutte le sere, infatti, quelle centinaia di batterie implicano un rozzo cerimoniale sadico. L'impunità di tutti questi anni per i delinquenti borghesi e in specie neofascisti non ha niente da invidiare all'impunità dei criminali di borgata. (I fratelli Carlino, di Torpignattara, godevano della stessa libertà condizionale dei pariolini). Impunità miracolosamente conclusasi in parte col 15 giugno. Cosa dedurre da tutto questo? Che la «cancrena» non si diffonde da alcuni strati della borghesia (romana) (neofascista) contagiando il paese e quindi il popolo. Ma che c'è una fonte di corruzione ben più lontana e totale. Ed ecco mi alla ripetizione della litania. È cambiato il «modo di produzione» (enorme quantità, beni superflui, funzione edonistica). Ma la produzione non produce solo merce, produce insieme rapporti sociali, umanità. Il «nuovo modo di produzione» ha prodotto dunque una nuova umanità, ossia una «nuova cultura»: modificando antropologicamente l'uomo (nella fatti specie l'italiano). Tale «nuova cultura» ha distrutto cinicamente (genocidio) le culture precedenti: da quella tradizionale borghese, alle varie culture particolaristiche e pluralistiche popolari. Ai modelli e ai valori distrutti essa sostituisce modelli e valori propri (non ancora definiti e nominati): che sono quelli di una nuova specie di borghesia. I figli della borghesia sono dunque privilegiati nel realizzarli, e, realizzandoli (con incertezza e quindi con aggressività), si pongono come esempi a coloro che economicamente sono impotenti a farlo, e vengono ridotti appunto a larvali e feroci imitatori. Di qui la loro natura sicaria, da SS. Il fenomeno riguarda così l'intero paese. E i perché ci sono e sono ben chiari. Chiarezza che certo, lo ammetto, non risulta da questa tabella che ho qui stilato come un telegramma. Ma tu sai bene come documentarti, se vuoi rispondermi, discutere, replicare. Cosa che finalmente pretendo che tu faccia.
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