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Il progetto Manhattan e la responsabilità degli scienziati

 
lunedì 23 novembre 2009 legge Vittorio Capecchi
Il Progetto Manhattan fu intrapreso per battere sul tempo gli scienziati di Hitler nella costruzione della bomba atomica ed impiegò enormi risorse scientifiche ed economiche. Il prototipo della bomba fu tuttavia sperimentato oltre due mesi dopo la resa della Germania nazista, a metà del luglio 1945.
L’atomica fu lanciata su Hiroshima, e poi Nagasaki, nonostante le richieste di pace avanzate dal Giappone. L’uso della bomba, terribile emblema delle guerre moderne (che, fin dagli anni 30 del novecento, fanno più vittime nella popolazione nemica più che nell’esercito nemico) fu voluto dai politici anche pensando al contenimento dell’Unione Sovietica in Asia.
Il suo impiego, criticato da eminenti militari poiché erano venute meno le esigenze strategiche, fu salutato con entusiasmo dalla quasi totalità degli scienziati (i fisici, in primo luogo) che avevano lavorato nel Progetto Manhattan.

GLI SCIENZIATI E LA BOMBA ATOMICA
1. Le ragioni della bomba
Da Gar Alperovitz, “Le ragioni della bomba”, Technology Review (ed. italiana), novembre 1990
La Germania si era arresa l’8 maggio [1945] e le potenze alleate sapevano che la situazione del Giappone stava deteriorandosi rapidamente. (..) Gli esperti americani del servizio informazioni erano riusciti a decifrare i codici segreti usati dai Giapponesi nelle loro comunicazioni. Verso la fine dell’estate del 1945 questi esperti americani del servizio informazioni vennero a sapere che l’imperatore del Giappone stava tentando segretamente di organizzare la resa tramite la Russia. L’imperatore voleva inviare un suo rappresentante personale, il principe Konoye, a Mosca. “La missione.. era quella di chiedere al Governo sovietico di prendere parte alla mediazione per mettere fine alla guerra e di rendere nota la volontà del Giappone in questo senso. Il principe Konoye fu specialmente incaricato di Sua Maestà l’Imperatore di far sapere al Governo sovietico che desiderio esclusivo di Sua Maestà era quello di evitare lo spargimento di altro sangue”(..) Come risulta dal diario del presidente Truman nel luglio 1945. “Stalin aveva messo a conoscenza il Primo ministro del telegramma dell’Imperatore giapponese che chiedeva la pace. Stalin mi disse cosa aveva risposto. Era fiducioso. Credeva che il Giappone si sarebbe arreso prima dell’intervento russo”(..) Come risultava chiaro da questi cablogrammi e come vari alti ufficiali suggerirono al presidente [Truman], una possibilità che avrebbe potuto mettere fine alla guerra, era semplicemente quella di far sapere ai Giapponesi che una “resa incondizionata” non richiedeva la destituzione dell’Imperatore. Di fatto poiché i Giapponesi consideravano l’Imperatore un dio, gli esperti americani e britannici dei servizi segreti sostennero che, in assenza di tali assicurazioni, il Giappone si sarebbe sentito costretto a combattere fino all’ultimo sangue per conservare la propria dignità. (..) Perché allora gli Stati Uniti sganciarono la bomba atomica quando era ormai imminente la resa da parte del Giappone? (..) Il lancio delle bombe atomiche sul Giappone sarebbe stato deciso dagli Stati Uniti soprattutto per avere una posizione di vantaggio nei rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica [a guerra terminata].(..) Ci sono indizi molto forti a sostegno della tesi che gli Americani avessero un grande desiderio di mettere fine alla guerra prima che i Russi avessero il tempo di attaccare il Giappone. Truman e i suoi consiglieri sapevano che l’Armata Rossa avrebbe impegnato i Giapponesi in Manciuria e nella Cina settentrionale, una mossa che li avrebbe messi in condizione di dominare quell’area dopo la guerra. (..) Una volta che le massime autorità americane e britanniche seppero che la bomba atomica “funzionava” cercarono disperatamente di metter fine alla guerra prima che l’Armata Rossa fosse entrata in Manciuria e nel territorio cinese. (..) Il segretario di Stato americano James F. Byrnes, come è scritto nel diario privato del suo Assistente personale James F. Brown, sperava “di fare presto ritenendo che dopo il lancio della bomba atomica il Giappone si arrenderà e la Russia non avrà quindi modo di partecipare alla lotta e di far valere pretese contro la Cina” .(..) Oppenheimer testimoniò in seguito: “Nel periodo successivo alla resa della Germania i ritmi di lavoro divennero serratissimi”. E il fisico Philip Morrison osservò “Posso testimoniare personalmente che c’era una misteriosa data finale, attorno al 10 agosto, che noi che svolgevamo il compito pratico di preparare la bomba, dovevamo rispettare a qualsiasi costo”. E Albert Einstein espresse pubblicamente il sospetto che il bombardamento avesse avuto luogo a “causa del desiderio di mettere fine con ogni mezzo alla guerra nel Pacifico prima della partecipazione della Russia. Io sono certo che se ci fosse stato ancora il Presidente Roosevelt questo non sarebbe accaduto. Egli avrebbe proibito un’azione del genere”.

Da Wikipedia:Eisenhower scrisse nelle sue memorie The White House Years: “Nel 1945 il Segretario alla Guerra Stimson, visitando il mio quartier generale in Germania, mi informò che il nostro governo stava preparandosi a sganciare una bomba atomica sul Giappone. Io fui uno di quelli che sentirono che c'erano diverse ragioni cogenti per mettere in discussione la saggezza di un tale atto. Durante la sua esposizione dei fatti rilevanti, fui conscio di un sentimento di depressione e così gli espressi i miei tristi dubbi, prima sulla base della mia convinzione che il Giappone era già sconfitto e che sganciare la bomba era completamente non necessario, e in secondo luogo perché pensavo che il nostro paese dovesse evitare di sconvolgere l'opinione pubblica mondiale con l'uso di un'arma il cui impiego era, pensavo, non più obbligatorio come misura per salvare vite americane.” Il presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, così annunciò alla radio il bombardamento nucleare su Hiroshima: “ Il mondo sappia che la prima bomba atomica è stata sganciata su Hiroshima, una base militare. Abbiamo vinto la gara per la scoperta dell'atomica contro i tedeschi. L'abbiamo usata per abbreviare l'agonia della guerra, per risparmiare la vita di migliaia e migliaia di giovani americani, e continueremo a usarla sino alla completa distruzione del potenziale bellico giapponese.”

2. Ricordi della bomba su Hiroshima il 6 agosto 1945
Da Wikipedia
Pedro Arrupe, futuro generale dei gesuiti:
Ero nella mia stanza con un altro prete alle 8.15, quando improvvisamente vedemmo una luce accecante, come un bagliore al magnesio. Non appena aprii la porta che si affacciava sulla città, sentimmo un'esplosione formidabile simile al colpo di vento di un uragano. Allo stesso tempo porte, finestre e muri precipitarono su di noi in pezzi. Salimmo su una collina per avere una migliore vista. Da lì potemmo vedere una città in rovina: di fronte a noi c'era una Hiroshima decimata. Poiché ciò accadde mentre in tutte le cucine si stava preparando il primo pasto, le fiamme, a contatto con la corrente elettrica, entro due ore e mezza trasformarono la città intera in un'enorme vampa. Non dimenticherò mai la mia prima vista di quello che fu l'effetto della bomba atomica: un gruppo di giovani donne, di diciotto o venti anni, che si aggrappavano l'un l'altra mentre si trascinavano lungo la strada. Continuammo a cercare un qualche modo per entrare nella città, ma fu impossibile. Facemmo allora l'unica cosa che poteva essere fatta in presenza di una tale carneficina di massa: cademmo sulle nostre ginocchia e pregammo per avere una guida, poiché eravamo privi di ogni aiuto umano. L'esplosione ebbe luogo il 6 agosto. Il giorno seguente, il 7 agosto, alle cinque di mattina, prima di cominciare a prenderci cura dei feriti e seppellire i morti, celebrai Messa nella casa. In questi momenti forti uno si sente più vicino a Dio, sente più profondamente il valore dell'aiuto di Dio. In effetti ciò che ci circondava non incoraggiava la devozione per la celebrazione per la Messa. La cappella, metà distrutta, era stipata di feriti che stavano sdraiati sul pavimento molto vicini l'uno all'altro mentre, soffrendo terribilmente, si contorcevano per il dolore.

Da Michihiko Hachiya, Diario di Hiroshima, SE, Milano, 2005
Michihico Hachiya, medico: 
Erano le prime ore di una bella giornata tranquilla e calda. Le foglie degli alberi riflettevano la luce del sole che splendeva in un cielo terso e, per contrasto, appariva più fresco d’ombre il mio giardino, che io guardavo distrattamente dalla porta che dava a sud, i cui battenti erano spalancati. Indossavo solo mutande e maglietta e stavo disteso sul pavimento della stanza di soggiorno, per riposarmi di una notte di veglia all’ospedale, dove ero stato di guardia come addetto alla protezione antiaerea. All’improvviso fui abbagliato da un lampo di luce, seguito immediatamente da un altro. A volte, di un evento, si ricordano i più minuti particolari: rammento perfettamente che una lanterna di pietra nel giardino si illuminò di una luce vivida. (..) Le ombre del giardino sparirono. La scena che un istante prima mi era apparsa così luminosa e gaia di sole si oscurò, gli oggetti si fecero indistinti. Fra i nembi di polvere riuscivo a stento a distinguere una colonna di legno che era servita di sostegno a un angolo della casa. Ora la colonna era contorta e il tetto pareva in procinto di rovinare. Istintivamente mi alzai per fuggire, ma mi trovai il passo sbarrato di detriti e travi crollate. Con mille precauzioni riuscii a farmi strada fino al roka [porticato] e scesi in giardino. Mi sentivo straordinariamente debole e dovetti fermarmi per riprendere fiato. Con mio grande stupore, mi accorsi che ero completamente nudo. Stranissimo, pensai. Dov’erano andate a finire mutande e maglietta? Cos’era accaduto? Lungo tutto il fianco destro ero escoriato e sanguinante. Da una ferita aperta nella coscia spuntava una grossa scheggia, e in bocca sentivo qualcosa di caldo. Avevo un taglio sulla guancia, me ne accorsi passandoci con cautela la mano e il labbro inferiore era spaccato. Un frammento di vetro piuttosto grosso mi si era infilato nel collo; riuscii a estrarlo e, reggendolo sulla mano insanguinata, rimasi a fissarlo con il distacco di chi era ancora intontito da uno shock nervoso. Dov’era mia moglie? (..) Yaeko-san, pallida di paura, le vesti lacere e sporche di sangue, sbucò dalle rovine della nostra casa tenendosi il gomito con una mano. La sua vista mi tranquillizzò, il mio panico diminuì e tentai di rassicurare anche lei. “Ce la caveremo” le dissi “ma dobbiamo andarcene al più presto”.

Intervista a Shoji Sawada, da Stefania Maurizi (a cura di) Una bomba, dieci storie. Gli scienziati e l’atomica, Bruno Mondadori, Milano, 2004.Shoji Sawada, professore di fisica all’Università di Nagoya:
Avevo tredici anni, quel giorno stavo male e dormivo nel letto di casa mia, che stava a 1400 metri di distanza dal graund zero. La bomba era esplosa in aria, 600 metri sopra quel punto. Proprio perché non stavo fuori casa non vidi il flash di luce né fui investito dall’ondata terribile di calore o dall’onda d’urto dell’esplosione. Successe tutto in un istante e quando ripresi i sensi mi ritrovai seppellito sotto le macerie della mia casa. Lottai per liberarmi e ad alzarmi, mi resi conto che fuori era come notte: la luce del sole era bloccata dall’aria marrone scuro, che poi divenne gialla, poi bianca e finalmente trasparente. (..) Subito dopo sentii mia madre che mi chiamava da sotto le macerie. La sua voce mi arrivava appena e mi disse che aveva le gambe bloccate dalle travi crollate. Cercai di liberarla con tutta la forza che avevo, ma era un’impresa più grande di me: non ce la facevo. (..) Le fiamme si stavano diffondendo ovunque e quando dissi a mia madre che il fuoco stava arrivando, mi disse “Tu devi salvarti, devi studiare sodo e diventare una bella persona”. Il fuoco era sempre più minaccioso, lei non poteva vederlo, ma mi disse. “Ora devi andartene! Non dimenticarmi mai. Vattene subito!” Scappai chiedendole perdono. Quella fu l’ultima conversazione con mia madre. (..) Scappai verso il fiume, nuotai e poi mi misi seduto su un punto del fiume in secca. Guardavo la città che bruciava: il pensiero di mia madre in mezzo alle fiamme mi spezzava il cuore e mi chiedevo in continuazione se non potesse esserci un modo per salvarla. Ancora oggi ci penso e riprovo quello stato d’animo, quando penso a lei.


Da Kenzaburo Oe, Note su Hiroshima,(1965), Alet Edizioni, Padova, 2008
Shoda Shinoe, poetessa colpita da radiazioni atomiche:
Hai appena vent’anni
figlia mia
e sei rimasta cieca durante l’esplosione
Ma ti farò dono dei miei occhi
quando morrò
Ti donerò i miei occhi, avevo detto
quando morrò
Ma occhi colpiti dalla bomba,
mi han detto,
non servono a nessuno

3. La storia di Sadako Sasaki e del monumento a lei dedicato
Da Wikipedia: 
Sadako Sasaki (1943-1955) aveva due anni quando ad Hiroshima la bomba esplose a circa due chilometri dalla casa in cui abitava. Frequentò regolarmente le scuole e diventò anche molto brava nelle gare di atletica ma nel 1954 quando aveva undici anni e si stava allenando per una gara di corsa fu colta da vertigini e le fu diagnosticata una grave forma di leucemia conseguenza delle radiazioni della bomba atomica. La sua migliore amica, Chizuko Hamamoto, le parlò di un'antica leggenda secondo cui, chi fosse riuscito a creare mille gru - uccello simbolo di lunga vita - con la tecnica dell’origami avrebbe potuto esprimere un desiderio. Chizuko stessa realizzò per lei la prima, Sadako continuò nella speranza di poter tornare presto a correre. Durante i 14 mesi passati in ospedale Sadako realizzò gru con qualsiasi carta a sua disposizione, comprese le confezioni dei suoi farmaci arrivando a farne 990. La sua storia è stata descritta nel 1961 nel romanzo di Karl Bruckner, Sadako will leben (Sadako vuole vivere) [il romanzo è stato tradotto in italiano con il titolo Il gran sole di Hiroscima, Bemporad Marzocco, 1962]

Da Gustav-Adolf Pagatschnigg (a cura di) Dopo Hiroschima: Esperienza e rappresentazione letteraria, Ombre corte, Padova, 2008.
 (In questa antologia Gunnhild Schneider ricorda la storia del monumento fatto a Sadako Sasaki nel Peace Memorial Park di Hiroshima):
ll 5 maggio 1958 fu inaugurata nel Peace Memorial Park di Hiroshima una statua raffigurante una bambina che, con le braccia allargate, tiene sopra la testa una gru stilizzata. Questa statua è nota con il nome senzhazuru no to- la torre delle mille gru e ha contribuito in modo significativo alla diffusione della conoscenza crica gli avvenimenti del 6 agosto 1945 e le sofferenze delle vittime. Furono dei ragazzi a lanciare l’idea di una statua o una lapide che commemorasse tutte le giovani vittime tramite la figura di Sasaki Sadako, una loro compagna di classe morta il 25 ottobre 1955 per una malattia causata dalle radiazioni della bomba atomica.. Dopo il funerale di Sadako i ragazzi cominciarono a riunirsi regolarmente nella bottega del padre e decisero di raccontare la sua storia, affinché la gente ricordasse. Durante la conferenza nazionale dei presidi delle scuole superiori che si svolgeva ad Hiroshima i ragazzi distrubuirono 2000 volantini chiedendo aiuto per la costruzione del monumento (…) Un anno dopo erano stati raccolti abbastanza soldi per decidere la costruzione della statua che fu inaugurata nel Peace Memorial Park: essa ricalca la forma di una testata nucleare, una ragazza tiene una gru dorata stilizzata, : ai lati del piedistallo un ragazzo e una ragazza simboleggiano il futuro e la speranza. La lapide a terra porta la scritta: “Ecco il nostro grido, ecco la nostra preghiera per costruire la pace nel mondo”. Intorno al monumento migliaia di ghirlande di gru di carte in tutti i colori, fatte con la tecnica degli origami, mandate da tutte le parti del mondo.


4. Scienziati a favore della bomba atomica
Intervista al fisico Sam Cohen che a Los Alamos lavorava sul progetto di bomba al plutonio.
Da Stefania Maurizi (a cura di) Una bomba, dieci storie. Gli scienziati e l’atomica, Bruno Mondadori, Milano 2004.
Robert Oppenheimer Era il pomeriggio del 6 agosto 1945 e nel laboratorio fu annunciato che una delle nostre “unità” era stata lanciata sul Giappone e che in serata Oppenheimer avrebbe parlato allo staff scientifico. A Los Alamos Oppenheimer organizzava normalmente degli incontri che si tenevano con frequenza regolare in una sala conferenze. Il direttore entrava con calma dall’ingresso laterale e, in modo molto tranquillo, presentava il conferenziere che relazionava su un certo argomento. Ma quella sera, Oppenheimer non passò dall’ingresso laterale, fece invece una entrata trionfale come Napoleone al ritorno di una grande vittoria. Mentre entrava, tutti – a eccezione forse di una o due persone – si alzarono in piedi applaudendo e battendo i piedi; erano veramente orgogliosi che ciò che avevano costruito avesse funzionato ed erano orgogliosi di sè stessi e di Oppenheimer, che a sua volta gongolava. Oppenheimer placò la sala e disse che si sapeva ancora poco del bombardamento: tutto ciò che si sapeva era che ai giapponesi la bomba non era piaciuta e che, in ogni caso gli dispiaceva tanto di non aver potuto finire la bomba in tempo per usarla contro i nazisti. Di nuovo scoppiò l’euforia generale. E alla maggior parte di quella gente non passò per la testa che quel laboratorio aveva appena ammazzato centomila civili innocenti. Aveva una personalità volubile il direttore, poteva essere affascinante, raffinato, crudele, arrogante o molto umile; non credo di aver visto una persona più arrogante di Oppenheimer in quella occasione. Come gli altri la mia reazione fu di totale euforia. Non avevo dimenticato Pearl Harbor e come fossimo entrati in guerra. E mai durante la guerra, mi ero preoccupato delle bombe incendiarie lanciate sui giapponesi; non avevo scrupoli di coscienza. Ma guardando indietro credo che avrei dovuto averne e ora sono una persona diversa.

Da Claudio Bartocci, Enrico Fermi la scienza e il potere
2002
http://www.dima.unige.it/~bartocci/testi/fermi.html 
Enrico Fermi, Emilio Segrè
L'evento che dimostrò incontestabilmente l'enorme potere della scienza – e consacrò la scienza al potere – fu la costruzione della bomba atomica. Questa realizzazione – che avvenne in tempi brevissimi – non fu l'esito diretto e inevitabile delle nuove conoscenze scientifiche sulla struttura del nucleo atomico: richiese gli sforzi congiunti e organizzati di una folta compagine di scienziati - fisici, chimici, matematici, ingegneri - che misero le proprie competenze specifiche e il proprio ingegno al servizio dei militari, consapevoli di lavorare alla costruzione di un ordigno di immane potenza distruttiva. Altre volte nella storia gli uomini di scienza – da Archimede a Leonardo, fino a Fritz Haber – avevano prestato il proprio sapere alla causa bellica, ma il progetto Manhattan rappresentò un salto di qualità: non solo per le dimensioni colossali dell’impresa (oltre 5000 persone vi presero parte), ma per il travisamento collettivo del senso etico, per l'entusiasmo irresponsabile con il quale si riempirono lavagne e lavagne di calcoli come se la progettazione di un ordigno nucleare rientrasse nella normale routine di lavoro scientifico. Le foto che ritraggono questi scienziati giovani e famosi - Fermi, Oppenheimer, Segrè, Hans Bethe, Victor F. Weisskopf, Carl David Anderson - tranquilli e sorridenti davanti al laboratorio di Los Alamos o in gita domenicale sulle montagne del New Mexico, con gli occhiali da sole e l'aria del turista che si gode un meritato riposo [D. Cooper, Fermi and the revolutions of modern physics, Oxford Universiity Press 1999, p. 71; E. Segrè, Personaggi e scoperte della fisica contemporanea, Mondadori, Milano 2000, p. 209], sono la testimonianza tragica della ragione scientifica svuotata di ogni principio etico. Così come tragiche, e sconvolgenti, sono le parole con le quali Fermi, in una lettera ad Amaldi del 28 agosto 1945 [E. Amaldi, Da Via Panisperna all’America, Editori Riuniti, Roma, 1977, pp. 158-160] - poche settimane dopo le stragi di Hiroshima e Nagasaki - commenta il suo lavoro a Los Alamos: “…è stato un lavoro di notevole interesse scientifico e l'aver contribuito a troncare una guerra che minacciava di tirar avanti per mesi o per anni è stato indubbiamente motivo di una certa soddisfazione”. Non diversamente, si esprime Segrè nella sua autobiografia: “…Io certamente mi rallegrai per il successo che aveva coronato anni di duro lavoro e fui sollevato dalla fine della guerra”. Si deve senza dubbio ricordare che entrambi i genitori di Segrè erano morti nei campi di concentramento nazisti, come anche i genitori di Laura Capon, la moglie di Fermi. Ma la tranquilla sicurezza delle dichiarazioni dei due grandi fisici italiani, nelle quali non si insinua nemmeno l'ombra di un dubbio, è sconvolgente. (…) Va detto che Fermi, dopo la guerra, cambiò la propria posizione: insieme con I. Rabi e Oppenheimer si dichiarò contrario alla costruzione della bomba all’idrogeno (in favore della quale era invece il “falco” Edward Teller).

Un clima intellettuale favorevole alla bomba atomica
Da: Giuliano Toraldo di Francia: La nascita dell’atomica. Ricordi e Riflessioni, in Luigi Cortesi (a cura di), 1945: Hiroshima in Italia , CUEN, Napoli, 1995
Come accolsero gli intellettuali la notizia dell’esplosione delle due prime bombe atomiche? (…) Il mondo libero – diciamolo pure – in sostanza si rallegrò: era finita. Certo quei morti erano tanti: ma a qualcuno non sembrava che distruggere una città tutta in una volta fosse molto peggio che spianarla con cento successivi bombardamenti al tritolo. Ormai all’idea che per vincere bisognasse colpire abbastanza indiscriminatamente la gente si era rassegnata. Forse sembrava che fosse stata addirittura la provvidenza divina a mettere una meravigliosa potenza a disposizione del bene contro il male . Non pochi si spingevano a disquisire che alla lunga la democrazia è sempre più forte della dittatura: lo dimostrava anche la bomba atomica, non intuita in tempo dai tedeschi che avevano cacciato Einstein e dagli italiani che avevano spinto Fermi ad andare via. Era la fine: la fine di un incubo. Tutti erano presi dall’ansia di ricominciare a vivere e a ricostruire. Pochissimi si resero conto che era anche il principio di un nuovo incubo. Ricordo bene il momento in cui ebbi la percezione di quello che stava accadendo. Fu quando un eminente professore della mia università – un professore, si badi bene, che non mi era mai sembrato particolarmente retrivo – esclamò guardandomi negli occhi: “Ma cosa aspettano gli americani a buttare la bomba atomica sull’Unione Sovietica?” e capii che non scherzava.

Da Wikipedia :E’ importante ricordare l'appoggio dato all'azione degli americani da parte de l’Unità, organo ufficiale dell'allora Partito Comunista Italiano, all'indomani dello sgancio delle bombe. Il 10 agosto 1945, infatti, l’Unità pubblicò un articolo dal titolo Al Servizio della civiltà in cui era scritto: “Le notizie che l'Aviazione americana ha usato la bomba atomica sono state accolte in certi ambienti con senso di panico e con parole di riprovazione. Questo ci sembra uno strano complesso psicologico, una formale obbedienza ad un astratto umanitarismo.”

5. Scienziati contro la bomba atomica
Da Wikipedia:
Albert Eistein e Leo Szilard
Due dei principali critici del bombardamento furono Albert Einstein e Leo Szilard che assieme avevano spronato la prima ricerca sulla bomba nel 1939 con una lettera scritta a quattro mani indirizzata al presidente Franklin D. Roosevelt per poi cambiare idea una volta saputo dell'effettivo potere distruttivo della bomba (inizialmente Einstein sottovalutò questa capacità). Szilard, che in seguito avrebbe giocato un ruolo importante nel Progetto Manhattan, sostenne che “Se i tedeschi avessero gettato bombe atomiche sulle città al posto nostro, avremmo definito lo sgancio di bombe atomiche sulle città come un crimine di guerra, avremmo condannato a morte i tedeschi colpevoli di questo crimine a Norinberga e li avremmo impiccati”. Einstein ha scritto “La non cooperazione con l’industria militare dovrebbe essere un principio morale assoluto per tutti i veri scienziati che si sono impegnati nella ricerca fondamentale.”

Da Edoardo Amaldi, Ricordi di un fisico italiano in Luigi Cortesi (a cura di) 1945: Hiroshima in Italia , CUEN, Napoli, 1995.
Il Manifesto Einstein–Russell
Il 28 novembre 1945, ossia pochi mesi dopo l’impiego delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki il matematico e filosofo Bertrand Russell pronunciò un discorso alla Camera dei Lord a Londra in cui, rilevando il tremendo potere distruttivo dell’arma atomica, ne prevedeva la conseguente minaccia per la civilizzazione dell’uomo e suggerì che si tenesse un convegno con lo scopo di aprire una cooperazione generale fra le due parti e giungere a stabilire un sistema di controllo internazionale. (…) Il 23 dicembre 1954 parlò alla radio inglese su “Il pericolo per l’Uomo” dando una vivida descrizione della situazione determinata dal recente sviluppo delle armi nucleari e delle conseguenze catastrofiche di una prossima guerra. Subito dopo preparò il testo di un “Manifesto” destinato alla firma di scienziati di diversi paesi e che rappresentassero diverse opinioni politiche. Uno dei primi con cui Russell prese contatto fu Albert Einstein che lo firmò due giorni prima di morire. Il Manifesto diventato noto come Manifesto Einstein-Russell con le firme di 11 scienziati, la maggior parte premi Nobel, fu letto da Russell ad una conferenza stampa il 9 luglio 1955 e fu riportato da tutta la stampa internazionale. Nel manifesto si scrive che “Noi parliamo in questa occasione non come membri di questa o quella nazione, continente o credo religioso ma come esseri umani, membri della specie Uomo la cui sopravvivenza è resa incerta”.

Da: Claudio Bartocci, Enrico Fermi la scienza e il potere 2002 
http://www.dima.unige.it/~bartocci/testi/fermi.html 
Franco Rasetti
“Rasetti fu l'unico che si rifiutò di collaborare al progetto della bomba a fissione per ragioni morali” [E. Amaldi, Da Via Panisperna all’America, Editori Riuniti, Roma 1997]. Rifugiatosi in Canada, aveva impiantato un laboratorio per svolgere ricerche prima in fisica nucleare e successivamente sui raggi cosmici. Contattato per entrare a far parte di un gruppo di fisici britannici che sarebbero poi stati assorbiti nel progetto Manhattan, declinò l'offerta: “ci sono poche decisioni mai prese nel corso della mia vita – scrive Rasetti – per le quali ho avuto un minor rimpianto. Ero convinto che nulla di buono avrebbe potuto scaturire da nuovi e più mostruosi mezzi di distruzione, e gli eventi successivi hanno confermato in pieno i miei sospetti. Per quanto perverse fossero le potenze dell'Asse, era evidente che l'altro fronte stava sprofondando a un livello morale (o immorale) simile nella condotta della guerra, come testimonia il massacro di 200000 civili giapponesi a Hiroshima e Nagasaki”. Del tutto “disgustato per le ultime applicazioni della fisica”, Rasetti decise di abbandonare la fisica e dedicarsi a ricerche di biologia e geologia (e divenne un grande specialista, pubblicando memorie di paleontologia e una grande monografia sulla flora alpina). La condotta di Rasetti fu quasi messa in ridicolo da molti suoi colleghi: Amaldi in una lettera a Fermi del 5 luglio 1945 parla di “un particolare processo di isolamento psichico del nostro amico” e sollecita Fermi ad intervenire per costringerlo a dimettersi dalla cattedra di spettroscopia che ancora occupava a Roma (“non vediamo la ragione di avere un professore di spettroscopia che abita a circa 6000 miglia cercando trilobiti”). Eppure Rasetti aveva le sue buone ragioni: come scrive in una lettera a Enrico Persico “tra gli spettacoli più disgustosi di questi tempi ce ne sono pochi che uguagliano quello dei fisici che lavorano nei laboratori sotto stretta sorveglianza dei militari per preparare mezzi più violenti di distruzione per la prossima guerra”.