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Nelle terre estreme




lunedì 13 dicembre 2010 legge Gian Mario Anselmi
  Tra i tanti filoni letterari che attraversano il continente letterario, uno dei più affascinanti è certamente quello del viaggio ‘ulissiaco’ nel quale l’uomo, penetrando in terre disabitate e sconosciute, va a cercare e sfidare se stesso.
Se per molti secoli i territori estremi sono stati individuati nel deserto o nell’estremo oriente di un Marco Polo o di un Matteo Ricci, nella modernità prende corpo invece un immaginario esotico che ha per principali referenti le estreme propaggini settentrionali e soprattutto quelle antartiche: i ghiacciai, le nevi, il freddo siderale si caricano di connotazioni di seducente, estrema liminarità, poco o per nulla indagata tanto dagli antichi quanto nella prima età moderna.
Film di successo come “Into the wild” sfruttano così questo tema di lunga durata, del quale si  possono individuare le radici già nella Vita di Alfieri e dopo di lui in molti altri scrittori come Edgar Allan Poe, Edmondo De Amicis,  Bruce Chatwin, Jon Krakauer, Daniele Del Giudice.



Vittorio Alfieri, Vita, Milano-Napoli, Ricciardi, 1977, (epoca III, cap. 9), pp. 96-97
Io sempre incalzato dalla smania dell’andare, benché mi trovassi assai bene in Stockolm, volli partire verso il mezzo Maggio per la Finlandia alla volta di Pietroburgo. Nel fin d’Aprile aveva fatto un giretto sino ad Upsala, famosa Università, e cammin facendo aveva visitate alcune cave del ferro, dove vidi varie cose curiosissime; ma avendole poco osservate, e molto meno notate, fu come se non le avessi mai vedute. Giunto a Grisselhamna, porticello della Svezia su la spiaggia orientale, posto a rimpetto dell’entrata del golfo di Botnia, trovai da capo l’inverno, dietro cui pareva ch’io avessi appostato di correre. Era gelato gran parte di mare, e il tragitto dal continente nella prima isoletta (che per cinque isolette si varca quest’entratura del suddetto golfo) attesa l’immobilità totale dell’acque, riusciva per allora impossibile ad ogni specie di barca. Mi convenne dunque aspettare in quel tristo luogo tre giorni, finché spirando altri venti cominciò quella densissima crostona a screpolarsi qua e là, e far crich, come dice il Poeta nostro [Inf. XXXII 30]; quindi a poco a poco a disgiungersi in tavoloni galleggianti, che alcuna viuzza pure dischiudevano a chi si fosse arrischiato d’intromettervi una barcuccia. Ed in fatti il giorno dopo approdò a Grisselhamna un pescatore venente in un battelletto da quella prima isola a cui doveva approdar io, la prima; e dicessi il pescatore che si passerebbe, ma con qualche stento. Io volli subito tentare, benché avendo una barca assai più spaziosa di quella peschereccia, poiché in essa vi trasportava la carrozza, l’ostacolo veniva ad essere maggiore; ma però era assai minore il pericolo, poiché ai colpi di quei massi nuotanti di ghiaccio dovea più robustamente far fronte un legno grosso che non un piccolo. E così per l’appunto accadde. Quelle tante galleggianti isolette rendevano stranissimo l’aspetto di quell’orrido mare che parea piuttosto una terra scompaginata e disciolta, che non un volume di acque; ma il vento essendo, la Dio mercé, tenuissimo, le percosse di quei tavoloni nella mia barca riuscivano piuttosto carezze che urti; tuttavia la loro gran copia e mobilità spesso li facea da parti opposte incontrarsi davanti alla mia prora, e combaciandosi, tosto ne impedivano il solco; e subito altri ed altri vi concorreano, ed ammontandosi facean cenno di rimandarmi nel continente. Rimedio efficace ed unico, veniva allora ad essere l’ascia, castigatrice d’ogni insolente. Più d’una volta i marinai miei, ed anche io stesso scendemmo dalla barca sovra quei massi, e con delle scuri si andavano partendo, e staccando dalle pareti del legno, tanto che desser luogo ai remi e alla prora; poi risaltati noi dentro coll’impulso della risorta nave, si andavano cacciando dalla via quegli insistenti accompagnatori; e in tal modo si navigò il tragitto primo di sette miglia svezzesi in dieci e più ore. La novità di un tal viaggio mi divertì moltissimo; ma forse troppo fastidiosamente sminuzzandolo io nel raccontarlo, non avrò egualmente divertito il Lettore. La descrizione di cosa insolita per gl’Italiani, mi vi ha indotto. Fatto in tal guisa il primo tragitto, gli altri sei passi molto più brevi, ed oltre ciò oramai fatti più liberi dai ghiacci, riuscirono assai più facili. Nella sua salvatica ruvidezza quello è un dei paesi d’Europa che mi siano andati più a genio, e destate più idee fantastiche, malinconiche, ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell’atmosfera, ove ti parrebbe quasi di essere fuor del globo.
Edgar Allan Poe, La relazione di Artur Gordon Pym da Nantucket, Torino, Einaudi, 2001, pp. 102, 116, 163, 166, 216
Il brigantino ora veniva avanti sempre con grande lentezza ma con una decisione maggiore, e non riesco ancora a parlarne senza rimanerne turbato. Il cuore ci tumultuava selvaggio nel petto e urlavamo a Dio, con tutta l’anima, la nostra riconoscenza per quella santa salvezza insperata…..Ma dall’ignoto vascello, non appena si fu avvicinato ancora un altro poco, ci venne tutt’a un tratto, al di sopra delle acque, un odore, un fetore d’inferno così disgustoso che nessuna parola può illustrare, soffocante all’estremo, intollerabile oltre ogni immaginazione. Ansando mi girai verso i miei compagni e li vidi sbiancarsi in viso come marmo….Mi toglierò mai dalla memoria l’infinito orrore di quello spettacolo? Venticinque o trenta cadaveri – alcuni di donne – nello stato del più avanzato disfacimento, giacevano qua e là tra il cassero e la cucina. E potemmo vedere – senza possibilità di equivoco- che non c’era una sola anima vivente su quel vascello maledetto!....
L’alta figura dell’uomo affacciato alla murata faceva dei cenni col capo a destra e sinistra, ma il volto era girato da una parte e non potevamo vederlo. Le braccia pendevano fuori della balaustra e le mani oscillavano. Era inginocchiato su di una gomena assai tesa tra un piede del bompresso e una testa-di-gatto. La sua camicia a brandelli lasciava vedere, appollaiato sulla schiena nuda, con gli artigli affondati nella carne, un gigantesco gabbiano che ingollava, beccando, l’orribile pasto. Le penne bianchissime erano spruzzate di sangue. Continuando a girare il vascello, quasi per meglio offrirsi ai nostri sguardi, l’uccello cavò con sforzo la testa insanguinata dal buco e, osservatici un istante, come stupito, si staccò pigramente dal cadavere di cui si pasceva e quindi volò diritto al di sopra del nostro ponte e planò nell’aria un momento con un pezzo di sostanza coagulata, simile a fegato, nel becco. L’orrendo brandello cadde infine con un sinistro spiaccichìo, proprio ai piedi di Parker. Che Dio mi perdoni, ma allora, in quell’istante, un’idea mi balenò nel cervello che io, tuttavia, non scriverò mai – e mi accorsi di fare un passo incosciente verso quel punto insanguinato…
[…]
È con estrema ripugnanza ch’io mi fermo a descrivere la paurosa scena che ebbe luogo e che fin nei suoi più minuti particolari nessun avvenimento posteriore ha mai potuto cancellare dalla mia memoria. Il suo ricordo spietato incomberà lugubre in ogni istante della mia vita futura: concedetemi così di soffermarmi su questa parte della mia storia con la massima concisione possibile….Per la sinistra lotteria nella quale ognuno di noi aveva da cercare il proprio destino non avevamo altro metodo fuor che quello di trarre le paglie. Allora, mentre intagliavo i lotti, patii gli istanti più angosciosi di quel dramma tremendo. L’uomo non può passare per certe situazioni critiche senza avvertire, profondissimo, l’interesse alla conservazione della propria esistenza e questo cresce paurosamente di istante in istante, in proporzione della fragilità del filo a cui l’esistenza è sospesa.  Ma la natura ben definita, calma e severa del compito cui ero occupato, tanto dissimile dalla furia della tempesta e dagli orrori della fame, mi offriva il destro di riflettere che assai limitate erano le probabilità ch’io scampassi alla più paurosa delle morti – e paurosamente utile! – in modo che ogni particella di quell’energia che fino allora mi aveva sorretto, se ne volava via come una piuma al vento e mi lasciava preda miserabile del più abbietto e pietoso terrore….
Ripresi i sensi appena in tempo per assistere allo scioglimento del dramma, alla morte di quel medesimo che n’era stato il primo autore. Egli non oppose la minima resistenza; trafitto da Peters alla schiena cadde morto sul colpo. – Non indugerò sul pauroso banchetto che seguì. – Simili accadimenti possono bensì essere evocati dall’immaginazione ma non vi sono parole sufficienti a renderne l’orrore. Basti dire che, soddisfatta in certa misura la sete rabbiosa che ci consumava col sangue della vittima, e dopo averne staccate le mani, i piedi e la testa e gettatili in mare assieme ai visceri mangiammo pezzo per pezzo, tutto il rimanente del cadavere in quei quattro giorni….
[…]
I quattro canotti – lunghi cinquanta e larghi cinque piedi – trasportavano, in tutto, centodieci selvaggi. La loro statura era quella media degli Europei ma la corporatura era assai più solida e muscolosa. La pelle era di un nero corvino, e i capelli lunghi, folti e lanosi. Vestivano la pelle di un animale dal pelo nero e assai morbido – completamente sconosciuto a noi – che adattavano al corpo in modo molto ingegnoso, cioè col pelo rivolto in dentro, tranne al collo, ai polsi ed alle caviglie. Erano armati, in massima parte, di clave d’un legno nero che, all’aspetto, dovevano essere pesanti. Vedemmo nondimeno che possedevano anche delle lance con la punta di silice e alcune fionde. Il fondo dei canotti era carico di pietre nere, grosse come uova…
Inoltrandoci nel paese, ci convincemmo man mano di trovarci su una terra del tutto diversa da quelle sino allora visitate da uomini civili. Nulla di ciò che si vedeva all’intorno ci riusciva familiare. Gli alberi non somigliavano ad alcuno di quelli conosciuti sia nelle zone torride che in quelle temperate e fredde del nord, né avevano nulla in comune con quelli delle latitudini del sud per cui eravamo già passati. Anche le rocce ci riuscivano nuove, così nella massa come nel colore e nella stratificazione e i corsi d’acqua, per quanto ciò possa sembrare bizzarro, avevano così poco le sembianze degli ordinari corsi d’acqua di tutto il mondo, che noi esitavamo a servircene per bere, né ci potevamo persuadere che le loro qualità fossero puramente naturali… L’aspetto di quell’acqua ce la fece ritenere per imputridita e rifiutammo quindi di assaggiarne…
[…]
22 marzo – La tenebra s’era ancor più infittita e solo la rompeva il riflesso luminoso della candida parete opposta a noi, nell’acqua. Una grande moltitudine di uccelli smisurati, d’un bianco livido, s’alzava in volo, senza posa, dietro alla piroga, ma non appena ci vedevano, tornavano indietro gridando l’eterno: Tekeli-li!Nu-Nu, udendo quelle strida, fece un movimento sul fondo della imbarcazione e avendolo noi toccato, ci accorgemmo che il suo spirito l’aveva abbandonato. Fu in quello stesso istante che ci precipitammo incontro all’abbraccio della cateratta, dove un gorgo si spalancò improvviso a riceverci. E sul nostro cammino si levò una figura umana dal volto velato e di proporzioni più grandi che ogni altra sulla terra. E il colore della sua pelle era il bianco perfetto della neve.
Edmondo De Amicis, Costantinopoli, introduzione di U. Eco, a cura di L. Scarlini, Torino, Einaudi, 2007, pp. 6-7.
Ma bisogna aver covato quel desiderio per dieci anni, aver passato molte sere d’inverno guardando melanconicamente la carta d’Oriente, essersi rinfocolata l’immaginazione colla lettura di cento volumi, aver girato mezza l’Europa soltanto per consolarsi di non poter vedere quell’altra mezza, essere stati inchiodati un anno a tavolino con quell’unico scopo, aver fatto mille piccoli sacrifizi, e conti su conti, e castelli su castelli, e battagliole in casa; bisogna infine aver passato nove notti insonni sul mare, con quell’immagine immensa e luminosa davanti agli occhi, felici tanto da provar quasi un sentimento di rimorso pensando alle persone care che si sono lasciate a casa; e allora si capisce che cosa voglion dire quelle parole: - Domani all’alba vedremo i primi minareti di Stambul; - e invece di rispondere flemmaticamente: - ne ho piacere – si picchia un pugno formidabile sul parapetto del bastimento.
 Un gran piacere per me e per il mio amico era la profonda certezza che la nostra immensa aspettazione non sarebbe stata delusa. Su Costantinopoli infatti non ci son dubbi; anche il viaggiatore più diffidente ci va sicuro del fatto suo; nessuno ci ha mai provato un disinganno. E non c’entra il fascino delle grandi memorie e la consuetudine dell’ammirazione. È una bellezza universale e sovrana, dinanzi alla quale il poeta e l’archeologo, l’ambasciatore e il negoziante, la principessa e il marinaio, il figlio del settentrione e il figlio del mezzogiorno, tutti hanno messo un grido di maraviglia. È il più bel luogo della terra a giudizio di tutta la terra. Gli scrittori di viaggio, arrivati là, persono il capo. Il Perthusier balbetta, il Tournefort dice che la lingua romana è impotente, il Pouqueville crede d’esser rapito in un altro mondo, il La Croix è inebriato, il visconte di Marcellus rimane estatico, il Lamartine ringrazia Iddio, il Gautier dubita della realtà di quello che vede; e tutti accumulano immagini sopra immagini, fanno scintillare lo stile e si tormentano invano per trovare un’espressione che non riesca miseramente al disotto del proprio pensiero. Il solo Chateaubriand descrive la sua entrata in Costantinopoli con un’apparenza di tranquillità d’animo che reca stupore; ma non tralascia di dire che è il più bello spettacolo dell’universo; e se la celebre Lady Montague, pronunziando la stessa sentenza, ci premette un forse, è da credersi che l’abbia fatto per lasciare tacitamente il primo posto alla propria bellezza, della quale si dava molto pensiero. C’è persino un freddo tedesco il quale dice che le più belle illusioni della gioventù e i sogni stessi del primo amore sono pallide immagini in confronto del senso di dolcezza che invade l’anima alla vista di quei luoghi fatati; e un dotto francese afferma che la prima impressione che fa Costantinopoli è lo spavento. Immagini chi legge il ribollimento  che dovevano produrre tutte queste parole di foco, cento volte ripetute, nel cervello d’un bravo pittore di ventiquattr’anni; e in quello di un cattivo poeta di vent’otto! Ma nemmeno queste lodi illustri di Costantinopoli ci bastavano, e cercavamo le testimonianze dei marinai. E anch’essi, povera gente rozza, per dare un’idea di quella bellezza, sentivano il bisogno d’esprimersi con qualche similitudine o parola straordinaria, e la cercavano volgendo gli occhi qua e là e stropicciando le dita, e facevano dei tentativi di descrizione con quel suono di voce che par che venga di lontano e quei gesti larghi e lenti con cui la gente del popolo esprime la meraviglia quando non le bastano le parole. – Entrare con una bella mattinata in Costantinopoli, - ci disse il capo dei timonieri, - credete a me, signori: è un bel momento nella vita d’un uomo.
Bruce Chatwin, In Patagonia, Milano, Adelphi, 1982, tr. it. di M. Marchesi, pp. 198-202
Eravamo vicini al Capo Horn, correndo con tutte le vele gonfiate da un forte vento a dritta. Era una domenica mattina. Camminavamo su e giù lungo il boccaporto principale con Chips il carpentiere. Chips disse: «Le ragazze, a casa, tirano con tutte e due le mani».
È una vecchia idea dei marinai che ogni nave ha una cima con un capo legato a prua e l’altro tenuto in mano, a casa, dalle loro ragazze. Quando la nave ha il vento favorevole, i marinai dicono che le ragazze tirano con forza la cime. Ma quando il vento è cattivo, dicono che c’è un nodo o un cappio nella cima, che perciò non può scorrere nel bozzello; oppure che le ragazze stanno amoreggiando con dei soldati, dimenticando i loro marinai.
Proprio in quel momento la campana suonò quattro volte. Erano le dieci, l’ora in cui dovevo dare il cambio al timoniere. Avevo appena afferrato per bene la ruota del timone quando il vento si spostò un paio di gradi verso nord, così che anche le vele quadre presero un po’ di vento oltre alle vele auriche. Il carpentiere stava ancora camminando su e giù quando la nave rullò con violenza a sinistra. La vela si straglio principale non prendeva vento e la scotta pendeva allentata sul ponte. Il rollio fece perdere l’equilibrio al carpentiere che, per errore, mise il piede sulla scotta. Col seguente rullio sopravvento la vela si gonfiò di nuovo e tese la scotta come una corda di violino, prendendo Chips fra le gambe e buttandolo in mare.
Lo vidi cadere. Lasciai la ruota del timone per un istante e gli buttai un salvagente. Mettemmo la barra al centro e portammo la nave al vento. Mentre alcuni marinai liberavano la scialuppa di salvataggio, gli altri cominciarono a serrare le vele più alte e in meno di dieci minuti la scialuppa stava in mare diretta verso il carpentiere che vedevamo nuotare energicamente.
Al grido di «Un uomo in mare!» tutti quelli che erano di quarto sottocoperta erano saliti sul ponte. Per primo nella scialuppa era salito il mozzo Walter Paton. Spence, il secondo ufficiale, sapeva che Paton non nuotava bene e gli disse di scendere, e Philip Eddy, un altro mozzo, saltò dentro al suo posto. Ma Walter, che non voleva essere scartato, riuscì a salire di nuovo. L’imbarcazione fu in acqua prima che Spencer potesse vederlo, e sentii Spence rimproverare il mozzo mentre ci passavano sotto la poppa. Poi li perdemmo di vista nel mare grosso che infuriava.
La scialuppa lasciò la nave alle 10.15 e tutti gli uomini indossavano le cinture di salvataggio. Noi dovemmo lavorare un po’ di tempo per ridurre la velocità della nave. Il capitano, in alto sulla crocetta dell’albero di mezzana, teneva d’occhio l’imbarcazione che dovette percorrere un lungo tratto sopravento e solo alle 10.30 si riavvicinò a noi, tornando. Ma non potemmo vedere se avevano con loro il carpentiere.
Il capitano diede l’ordine di accostare, per portare sottovento la fiancata della nave con il paranco di imbarcazione e poter così ricuperare la scialuppa, e tutti vedemmo Spence che stava in piedi e agitava le braccia. Se per dire che avevano con loro il carpentiere o perché pensava che non li avevamo visti, non si saprà mai. Ma in quel fatale istante distolse la sua attenzione dalla scialuppa che volse violentemente la prua in direzione del vento e si rovesciò. Era vicina a noi, a non più di due gomene, e li vedemmo tutti nuotare nell’acqua.
Mettemmo di nuovo la barra al centro e portammo la nave al vento. Ci affrettammo ad approntare la seconda scialuppa, ma in una nave a vela questa è una faccenda molto più complicata che mettere in mare la prima. Una scialuppa era sempre pronta, ma le altre erano tutte capovolte sul ponte e non solo capovolte ma completamente riempite di mercanzia. In una c’erano i polli del capitano; in un’altra tutti i cavoli per il viaggio, con secchi da incendio e paglioli stipati in modo da impedire che le onde li spazzassero via.
Gli uomini si occuparono prima della scialuppa di sinistra. Ma proprio quando l’avevano messa su, una grossa ondata investì la nave, due di loro scivolarono e la barca crollò pesantemente, sfasciandosi. Intanto io, con un cannocchiale, non perdevo di vista gli uomini in mare. Ne vidi alcuni che aiutavano altri a salire sul fondo della barca capovolta. Poi vidi Eddy e uno dei marinai scelti staccarsi e nuotare verso la nave. Si avvicinarono tanto che potevamo vedere chi erano a occhio nudo. Ma noi andavamo alla deriva più in fretta di quanto loro potessero nuotare e così restavano indietro.
Dopo aver capovolto la scialuppa di dritta dovemmo fissare un paranco alle sartie per issarla al di sopra della battagliola. E io non so se l’uomo che fissò lo stroppo alle sartie fu inabile o fece la cosa troppo in fretta, ma ogni momento lo stroppo scivolava e ogni volta la barca veniva giù. E la nave andava alla deriva, andava alla deriva sottovento, e noi perdemmo di vista la scialuppa con quei poveretti aggrappati alla chiglia. Ma sapevamo dov’era per via degli uccelli – albatri, mollymauks e procellarie – che roteavano sui naufraghi senza posa.
La seconda scialuppa, comandata da Flynn, partì, ma era quasi l’una quando passò sotto la poppa. Doveva compiere un più lungo percorso controvento e gli uomini erano ostacolati dalle cinture di salvataggio. Ed ebbe un ancor più lungo percorso da compiere al ritorno poiché la nave continuava ad andare alla deriva sottovento.
La perdemmo di vista dopo venti minuti e allora cominciò per noi una logorante attesa, sapendo che cinque dei nostri compagni facevano del loro meglio per restare aggrappati alla chiglia capovolta. Il capitano mise la nave su una rotta e poi su un’altra, ma alla fine decise di rimettersi al vento per evitare di allontanarsi dai naufraghi. Così stavamo lì, aguzzando gli occhi per vedere se la scialuppa riappariva.
Alle tre e mezzo la vedemmo ritornare. Arrivò sotto la poppa, ma il vento e il mare si erano sollevati e ci volle un po’ di tempo prima che osasse accostarsi alla fiancata. Ormai ci eravamo resi conto che il peggio era avvenuto e manovrando in silenzio i paranchi recuperammo l’imbarcazione. Due o tre uomini, quelli i cui copricapi non erano stati ben legati, avevano la testa sanguinante. Quando la nave riprese la rotta ci fu possibile fare delle domande. Era andata così:
Avevano trovato la scialuppa. Avevano riportato il salvagente che io avevo gettato al carpentiere e tre delle cinque cinture di salvataggio, e avevano visto gli altri due marinai in mare, ma nessun segno di altri. Poi gli uccelli li assalirono e dovettero difendersi usando i puntapiedi. Piombavano sulle teste e strappavano via i berretti, e quelli che sanguinavano erano stati feriti dal crudele becco degli albatri. Quando esaminarono le cinture di salvataggio e trovarono tutti i lacci slegati, capirono cosa era successo. Gli uccelli si erano lanciati contro gli uomini in acqua, contro i loro occhi. E quei poveretti, vedendo che gli aiuti non arrivavano, avevano preferito slegare i lacci e lasciarsi andare a fondo perché non avevano nessuna speranza di vincere la lotta contro gli uccelli. Il salvagente provava che avevano salvato il carpentiere prima che avvenisse il secondo infortunio. Sapere che erano riusciti a compiere la loro missione ci rese tutti ancora più tristi.
Dopo sei ore e mezza mi diedero il cambio al timone. Fu il turno più lungo che mi capitò di fare. Scesi sottocoperta per mangiare qualcosa, ma quando vidi i loro letti in disordine, coi calzoni posati sull’armadietto e gli stivali in terra, proprio come li avevano lasciati quando era echeggiato il grido «Un uomo in mare!» non mi seppi controllare, non pensai più alla fame e non potei far altro che singhiozzare. Più tardi il capitano disse al terzo ufficiale di portarmi via e di farmi dormire nella sua cabina.
«Potrebbe far impazzire il ragazzo, star lì con tutte quelle cuccette vuote».
Jon Krakauer, Nelle terre estreme, tr. it. di L. Ferrari e S. Zung, Milano, Corbaccio, 2008, pp. 214-217
Il carico più pesante nello zaino mezzo vuoto era costituito dalla piccola biblioteca: nove o dieci tascabili, molti dei quali ceduti da Jan Burres a Niland. Fra i volumi spiccavano titoli di Thoreau, Tolstoj e Gogol, ma McCandless non era un lettore snob, aveva semplicemente scelto quello che pensava di poter apprezzare, inclusi best-seller di Michael Crichton, Robert Pirsig e Louis l’Amour. Avendo scordato di portare carta per scrivere, cominciò un laconico diario su alcune pagine vuote alla fine della guida botanica.
Durante l’inverno a Healy, all’estremità dello Stampede Trail, girano parecchi sciatori, appassionati di motoslitte e slitte trainate da cani, ma soltanto fino a marzo o al principio di aprile, quando il ghiaccio sui fiumi comincia a rompersi. All’arrivo di McCandless nella foresta l’acqua scorreva già copiosa in buona parte dei corsi principali e da due o tre settimane nessuno era più passato di lì. Non gli restavano da seguire che le tracce ormai vaghe di una pesante motoslitta.
Al secondo giorno di cammino approdò sul fiume Teklanika. Malgrado le sponde fossero ancora bordate di ghiaccio, ormai sull’acqua non rimaneva nessun ponte gelato e McCandless fu costretto a guardarlo. Quell’anno, all’inizio di aprile, si era verificato un forte disgelo e i ghiacciai si erano sciolti in anticipo, ma in seguito il freddo si era fatto risentire, quindi il livello dell’acqua si era mantenuto piuttosto basso – probabilmente non oltre l’altezza della coscia -, e Chris poté raggiungere la sponda opposta senza grosse difficoltà. Il ragazzo non sospettò che quello sarebbe stato il suo Rubicone, nulla suggerì al suo occhio ingenuo che un paio di mesi dopo, quando col caldo estivo i ghiacciai e le distese innevate alla sorgente del Teklanika si sarebbero sciolti, la portata del fiume sarebbe aumentata di nove, dieci volte, trasformando il gentile ruscello che allegramente aveva guadato nel mese di aprile in un torrente profondo e impetuoso.
Dal diario apprendiamo che il 29 aprile McCandless scivolò sul ghiaccio, probabilmente nell’attraversare una serie di laghetti di castoro in disgelo appena oltre la riva occidentale del Teklanika, ma nulla lascia intendere che l’incidente abbia avuto serie conseguenze. Il giorno seguente, quando il sentiero per la prima volta si arrampicava su una cresta, Chris ebbe modo di ammirare gli alti versanti innevati del monte McKinley, e quello dopo ancora, il primo maggio, a una trentina di chilometri circa dal punto in cui l’aveva lasciato Gallien, s’imbatté nel vecchio autobus accanto al fiume Sashana. Quel rifugio improvvisato era fornito di cuccetta e fornello, e precedenti visitatori avevano lasciato una scorta di fiammiferi, insetticida e altri generi essenziali. «Giornata del bus magico» scrisse McCandless sul diario, e decise di godersi un po’ le spartane comodità del veicolo.
Trovarsi in quel luogo gli procurava una grande esaltazione. All’interno, su un malconcio pannello di compensato che ricopre un finestrino rotto, scarabocchiò un’esultante dichiarazione d’indipendenza:
Da due anni cammina per il mondo. Niente telefono, niente biliardo, niente animali, niente sigarette. Il massimo della libertà. Un estremista. Un viaggiatore esteta la cui dimora è la strada. Scappato da Atlanta. Mai dovrai fare ritorno perché the west is the best. E adesso, dopo due anni a zonzo, arriva la grande avventura finale. La battaglia climatica per uccidere l’essere falso dentro di lui e concludere vittoriosamente il pellegrinaggio spirituale. Dieci giorni e dieci notti di treni merci e autostop lo hanno portato fino al grande bianco del Nord. Per non essere mai più avvelenato dalla civiltà, egli fugge, e solo cammina sulla terra persmarrirsi nella foresta.
                                   Alexander Supertramp
                                   Maggio 1992
Comunque, presto le fantasticherie si scontrarono con la realtà. Ammazzare la selvaggina non era cosa facile e nel corso della prima settimana passata nella foresta i commenti quotidiani presenti sul diario dicono «Debolezza», «Neve» e «Disastro». Il 2 maggio avvistò un grizzly, ma non gli sparò, il 4 sparò, ma mancò alcune anatre e il 5 finalmente colpì e mangiò un gallo cedrone, ma non catturò più nulla fino al 9 maggio, quando abbatté un piccolo scoiattolo, e ormai sul diario era arrivato a scrivere «quarto giorno di carestia».
Di lì a poco, tuttavia, la fortuna girò dalla sua parte. A metà maggio il sole cominciò a levarsi alto nei cieli, inondando la taiga di luce. Ogni giorno scompariva dietro l’orizzonte, a nord, per meno di quattro ore e a mezzanotte ancora si poteva leggere. La coltre di neve si era sciolta ovunque, fatta eccezione per i versanti a bacìo e le gole ombrose, e dal terreno affioravano i mirtilli e i cinorrodonti della stagione precedente, che McCandless raccoglieva e mangiava in grande quantità.
Registrò anche maggiore successo nella caccia e nelle seguenti sei settimane banchettò regolarmente con scoiattoli, galli cedroni, anatre, oche e porcospini. Il 22 maggio gli cadde la capsula di un molare, ma l’evento non sembrò demoralizzarlo troppo perché il giorno dopo non indugiò ad arrampicarsi su uno spuntone senza nome, a forma di gobba e alto circa mille metri, che s’innalza poco a nord dell’autobus. Da lassù McCandless ebbe modo di ammirare l’intera portata della Catena d’Alaska e chilometri e chilometri di paesaggi glaciali e disabitati. L’annotazione del diario risulta tipicamente sintetica ma inequivocabilmente gioiosa: «Montagne da scalare!»
Daniele Del Giudice,  Orizzonte mobile, Einaudi 2009
A forza di osservarli mi sono convinto che il segreto dei pinguini è nel loro essere al tempo stesso impeccabili e impacciati. Questi animali dotati di grazia e autoironia, virtù che attribuiamo alle specie più evolute, sono in realtà dei grandi incompiuti. Non ce l’hanno fatta a diventare pesci, dato che l’acqua non è il loro elemento definitivo; pur essendo uccelli non volano più, e come bipedi sono lenti e preoccupati. Rimasero bloccati in questa ambiguità in ere antichissime e da allora non sono cambiati più. Ma nei ghiacci, nel vento ruggente, con i pinguini si finisce per perdere la testa. Soprattutto d’inverno, nella notte perenne, notte di notte e notte di giorno, buio totale, quel buio costante che scardina la mente, distrugge il sonno, inutile guardare l’orologio, tanto è sempre l’ora dello stesso buio.
E in una di quelle notti che non sono notti alla rookery di Cape Crozier nei sessanta gradi sotto zero, in pieno buio polare, andammo in cinque o sei a vedere la cova delle uova dei pinguini Imperator. Curiosamente la cova è compito dei maschi, non delle femmine. Per prendere le uova bisogna alzare di lato gli animali, che cercavano di trattenerle sdrucciolando a piedi uniti sul ghiaccio. C’era bufera e non si vedeva quasi niente. Jeremy scostò un pinguino, allungò la mano e sentì una cosa ovale e fredda. Era un uovo sì, ma di ghiaccio. Perfettamente modellato. Il pinguino s’era perso l’uovo, si vergognava, se n’era fatto uno finto. Jeremy e il pinguino si guardarono, sconvolto l’umano, mortificato l’animale, chissà se perché scoperto in quella sua struggente finzione o perché sapeva che gli sarebbe stata portata via anche quella.
Fu allora, in quel giorno-notte, che Jeremy con l’uovo di ghiaccio in mano scoppiò in lacrime, cominciò a gridare, si mise a correre, e più correva e più si spogliava, buttò via il berretto, buttò il giaccone termico, si tolse perfino la camicia di lana cotta e tutto il resto, piangendo e inciampando nei ‘sastrugi’, dune di ghiaccio formate dal vento. Lo rincorremmo, lo trovammo a terra quasi nudo. Gli sollevai la testa, gli misi addosso il mio giaccone, gli gridai nel vento <<Sei pazzo, vuoi morire?>> e nel vento Jeremy mi rispose <<Tanto se muoio qui nemmeno Dio se ne accorgerà>>
[…]
Ho provato più volte a descrivere lo spazio, compreso il cielo con il suo cinema celeste dove si producevano forme a colori o si riflettevano quelle sottostanti, e così si poteva indovinare una terra lontana attraverso l’iceblik, il biancore dei ghiacci riflesso, ma lo spazio era ancora niente in confronto al tempo, i meridiani si avvicinavano via via che si scendeva, e a cinquecento chilometri dal Polo finivano per convenzione. Lì la distanza tra un meridiano e l’altro era di una cinquantina di chilometri, ogni settantacinque cadeva un fuso orario, volando lungo quella circonferenza si poteva rimettere ogni dieci minuti l’orologio, un’ora avanti o un’ora indietro, come vuoi, tanto è quasi sempre giorno e quasi sempre notte, e passare e ripassare il ‘date line’, illudersi di precedere il mondo di un paio di giorni nel calendario e aspettarlo poi da qualche parte.
Nonostante i prodigi ebbi l’impressione di un senso di esilio: non delle persone, che è ovvio, ma dell’Antartide in sé, si sentiva che tutto questo una volta era altrove, allacciato ad altre terre e ad altri climi, c’era una condanna e un sospiro che solo quegli incoscienti surreali dei pinguini custodivano come angeli, e mi chiedevo in che modo Dante avesse capito che il Purgatorio era quaggiù, dove lo collocò, esattamente sotto il cielo australe.