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Anatomia di un istante - Javier Cercas





lunedì 06 dicembre 2010 legge Federico Enriques
Mi piace leggere qualcosa con voi. 
Un po' per ricordare Paolo Bollini e un po' perché credo che il vostro sia il modo migliore (non retorico, non burocratico) per diffondere la lettura. Per questo ho proposto il libro che avevo cominciato a leggere per conto mio. È "Anatomia di un istante", di Javier Cercas. 
È la storia del colpo di Stato tentato dal tenente colonnello Tejero, a Madrid, nel 1981: un libro molto bello, che ha a che fare con la politica, cosa che avviene raramente, nella grande letteratura. 
L'Anatomia mi ha affascinato subito per un aspetto visivo: le pagine piene, uniformi, non spezzate da continui punti a capo, come sempre più spesso capita in certi libri contemporanei: un periodare ampio, rotondo, per così dire circolare, forse aiutato dalla lingua d'origine, certo rinforzata dalla traduzione di Pino Cacucci; un testo su un episodio storico forse da noi dimenticato, che però ha non piccole analogie con quanto avviene o potrebbe avvenire oggi qui (il clima di complotto, la lentezza delle transizioni - dal franchismo al post franchismo, dal post franchismo alla democrazia); un testo in cui finzione letteraria e verità storica si inseguono, si ritrovano, si scambiano le parti, in vertiginose sovrapposizioni borgesiane; in cui il fermo macchina e l'ingrandimento del particolare sono usati come strumenti di tecnica narrativa; in cui le storie, le ricostruzioni dei pensieri dei personaggi sono approfondite in sé, per contrasto e in parallelo; in cui la "simpatia" del narratore con le vicende che racconta, dichiarata all'inizio, sprofonda carsicamente, per riemergere nel finale, se vogliamo un po' facile, ma certo indimenticabile.



(Una intervista allo scrittore al link: http://www.griseldaonline.it/percorsi/6cercas_it.htm ) 

JAVIER CERCAS, ANATOMIA DI UN ISTANTE, TRADUZIONE DI PINO CACUCCI, UGO GUANDA EDITORE IN PARMA 2009

PROLOGO

Epilogo di un romanzo
(p.15)
il Congresso dei deputati approvò una dichiarazione istituzionale in cui si leggeva quanto segue: «La mancanza di qualsiasi accenno di sostegno sociale, l’atteggiamento esemplare della cittadinanza, il comportamento responsabile dei partiti politici e dei sindacati, così come quello dei mezzi di comunicazione e in particolare delle istituzioni democratiche […] furono sufficienti a far fallire il colpo di Stato». È difficile accumulare più falsità in meno parole, questo pensai leggendo quel brano: avevo l’impressione che al golpe non fosse mancato il sostegno sociale, che l’atteggiamento della cittadinanza non fosse stato esemplare, che il comportamento dei partiti politici e dei sindacati non fosse stato affatto responsabile, che i mezzi di comunicazione e le istituzioni democratiche, pur con rare eccezioni, non avessero fatto nulla per far fallire il golpe. Ma non fu la smisurata discrepanza tra il mio ricordo personale del 23 febbraio e il ricordo a quanto pare collettivo a colpire la mia attenzione, suscitando la presuntuosa sensazione che la realtà mi stesse chiedendo un romanzo, bensì qualcosa di meno incisivo, o più elementare - sebbene vincolato probabilmente a quella discrepanza. Fu un’immagine ricorrente in tutti i servizi televisivi sul golpe: l’immagine di Adolfo Suárez pietrificato nel suo scranno mentre, pochi istanti dopo l’entrata del tenente colonnello Tejero nell’emiciclo del Congresso, le pallottole sparate dalle guardie civili fischiavano intorno a lui, e tutti gli altri deputati presenti - tutti tranne due: il generale Gutiérrez Mellado e Santiago Carrillo - si gettavano al suolo in cerca di riparo.
Ovviamente, avevo visto decine di volte quell’immagine, ma per qualche motivo quel giorno la vidi come se fosse la prima volta: le urla, gli spari, il silenzio atterrito del parlamento e quell’uomo appoggiato allo schienale di pelle blu del suo scranno da presidente del governo, solo, statuario e spettrale in un deserto di scranni vuoti. A un tratto mi parve un’immagine ipnotica e luminosa, minuziosamente complessa, densa di senso; forse perché la cosa veramente enigmatica non è ciò che nessuno ha visto, bensì ciò che tutti abbiamo visto tante volte e nonostante questo si rifiuta di rivelare il proprio significato intrinseco, a un tratto mi sembrò un’immagine enigmatica. Fu come se suonasse un campanello d’allarme. Borges dice che «qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà d’un solo momento: quello in cui l’uomo sa per sempre chi è». Nel vedere quel 23 febbraio Adolfo Suárez seduto sul suo scranno mentre tutto intorno fischiavano le pallottole nell’emiciclo deserto, mi chiesi se in quel momento Suárez avesse capito per sempre chi fosse e quale significato racchiudesse quell’immagine remota, ammesso che ne racchiudesse uno. Questa doppia domanda mi avrebbe assillato per giorni, e nel tentativo di trovarvi risposta - o meglio: nel tentativo di formularla con precisione - decisi di scriverci un romanzo. Mi misi subito all’opera. Non so se è necessario chiarire che il proposito del romanzo non era offrire una rivincita alla figura di Suárez, né denigrarla e neppure rivalutarla, ma solo esplorare il significato di un gesto. Del resto, mentirei se dicessi che allora Suárez mi ispirava simpatia: quando era al potere io ero un adolescente e lo consideravo un arrivista del franchismo che aveva fatto carriera spezzandosi la schiena a furia di inchini, un politico opportunista, reazionario, bigotto, superficiale e intrigante che incarnava ciò che più detestavo del mio Paese e nel quale temo identificassi mio padre, suarista ostinato; con il tempo avrei migliorato l’opinione su mio padre, ma non su Suárez, o comunque di poco: un quarto di secolo dopo, lo consideravo un politico mediocre, il cui merito principale consisteva nell’essersi trovato nel posto giusto al momento giusto, cosa che gli aveva concesso il fortuito protagonismo di un passaggio, quello dalla dittatura alla democrazia, che il Paese avrebbe realizzato con o senza di lui, e tale reticenza è il motivo per cui guardavo più con sarcasmo che con stupore alle celebrazioni della sua canonizzazione in vita come grande statista della democrazia - celebrazioni nelle quali peraltro avvertivo un sentore di ipocrisia superiore a quella abituale in casi del genere, come se nessuno ci credesse davvero o come se, più che congratularsi con Suárez, gli adulatori stessero celebrando sé stessi. Ma anziché impoverirlo, lo scarso apprezzamento che provavo per lui arricchiva di complessità il personaggio e il suo gesto, soprattutto man mano che mi addentravo nella sua biografia e mi documentavo sul colpo di Stato. La prima cosa che feci fu tentare di ottenere dalla Radiotelevisión Española una copia del filmato completo dell’entrata del tenente colonnello Tejero nel Congresso. Le pratiche burocratiche risultarono più ingarbugliate del previsto, ma ne valse la pena; le riprese - realizzate per la maggior parte da due telecamere che dopo l’assalto al parlamento continuarono a funzionare finché per puro caso non si scollegarono - sono illuminanti: le immagini che vediamo a ogni anniversario del 23 febbraio durano cinque, dieci, massimo quindici secondi; le immagini al completo durano cento volte di più: trentaquattro minuti e ventiquattro secondi. Quando vennero trasmesse in televisione, a mezzogiorno del 24 febbraio, il filosofo Julián Marías dichiarò che meritavano il premio come miglior film dell’anno; quasi tre decenni dopo pensai che era stato un elogio perfino ingeneroso: sono immagini densissime, di una straordinaria potenza visiva, traboccanti di storia ed elettrizzate dalla verità, che rividi molte volte senza che il sortilegio svanisse. Nel frattempo, in quel periodo iniziale, lessi varie biografie di Suárez, diversi libri sugli anni passati al potere e sul colpo di Stato, consultai i giornali dell’epoca, intervistai alcuni politici, militari, giornalisti. Una delle prime persone con cui parlai fu Javier Pradera, un tempo editore comunista diventato un’eminenza grigia della cultura spagnola e anche una delle poche persone che il 23 febbraio, scrivendo gli editoriali di «El País», giornale che uscì in edizione straordinaria con un testo limpidamente antigolpista redatto da lui, aveva dimostrato di essere disposto a rischiare la pelle per la democrazia. Raccontai a Pradera il mio progetto (gli mentii: dissi che intendevo scrivere un romanzo sul 23 febbraio; o forse non mentii: forse fin dall’inizio immaginavo che il gesto di Adolfo Suárez contenesse la chiave di volta del 23 febbraio). Pradera si mostrò entusiasta; e non essendo lui un tipo incline agli entusiasmi, mi misi in allerta: gliene chiesi il perché. «È molto semplice» rispose. «Perché il colpo di Stato è un romanzo. Un romanzo poliziesco. Il motivo è il seguente: Cortina organizza il golpe e Cortina lo smantella. Per lealtà al re.» Cortina è il comandante José Luis Cortina; il 23 febbraio era a capo dell’unità operazioni speciali del CESID, il servizio segreto spagnolo: apparteneva alla stessa classe di leva del re, gli veniva attribuito un rapporto stretto con il sovrano e dopo il 23 febbraio era stato accusato di aver partecipato al golpe, o piuttosto di averlo scatenato, ed era stato arrestato, interrogato e infine assolto dalla corte marziale che giudicò il caso, ma i sospetti che gravavano su di lui non si dissiparono mai. «Cortina organizza il golpe e Cortina lo smantella»: Pradera rise, con fare burlone; risi anch’io: più che la trama di un romanzo poliziesco mi sembrava la trama di una sofisticata versione dei Tre moschettieri, con il comandante Cortina in un ruolo che mescolava D’Artagnan e il di Tréville. (p.18)
(p.22)
È dunque così che decisi di scrivere questo libro. Un libro che è innanzitutto - tanto vale riconoscerlo fin dall’inizio - l’umile testimonianza di un fallimento: incapace di inventare quello che so sul 23 febbraio, rischiarando con la finzione letteraria la realtà dei fatti, mi sono rassegnato a raccontarlo.
Il proposito delle pagine che seguono consiste nel conferire una certa dignità a tale fallimento. Ciò significa per prima cosa tentare di non togliere agli eventi la forza drammatica e il potenziale simbolico che possiedono, e tanto meno l’inaspettata coerenza e simmetria e geometria occasionali; significa inoltre cercare di renderli il più possibile intellegibili, raccontandoli senza nasconderne la natura caotica né cancellare le tracce di una nevrosi o una paranoia o un romanzo collettivi, ma con la massima chiarezza, con tutta l’innocenza di cui sono capace, come se nessuno li avesse raccontati prima o come se nessuno li ricordasse più, in un certo senso come se fosse assodato che per quasi tutti Adolfo Suárez, il generale Gutiérrez Mellado, Santiago Carrillo e il tenente colonnello Tejero sono ormai personaggi di finzione o quanto meno sono contaminati dall’irrealtà e il colpo di Stato del 23 febbraio è un ricordo inventato, nel migliore dei casi raccontandoli come li racconterebbe un cronista dell’antichità o venuto da un futuro remoto; e questo significa in ultima analisi tentare di raccontare il colpo di Stato del 23 febbraio come se fosse una storia marginale e al tempo stesso decisiva per gli ultimi settant’anni di storia spagnola. Ma questo libro è in ugual misura - tanto vale riconoscerlo dall’inizio - un tentativo non esente da superbia di tramutare il fallimento del mio romanzo sul 23 febbraio in un successo, perché ha l’ardire di non rinunciare a niente. O a quasi niente: non rinuncia ad avvicinarsi al massimo ai nudi fatti del 23 febbraio, e ne consegue che, pur non essendo un libro di storia e nessuno debba essere tratto in inganno illudendosi di trovarci dati inediti o apporti rilevanti per la conoscenza del nostro recente passato, non rinuncia del tutto a essere letto come un libro di storia*; e neppure rinuncia a rispondere a sé stesso oltre che alla realtà, e quindi, pur non essendo un romanzo, non rinuncia del tutto a essere letto come un romanzo, ma neanche come una stranissima versione dei Tre moschettieri; e soprattutto - e questo è forse l’azzardo peggiore -, questo libro non rinuncia del tutto a capire attraverso la realtà ciò che ha rinunciato a capire tramite la finzione letteraria, e quindi non si sofferma sullo sfondo del 23 febbraio, bensì solo su un’immagine o un gesto di Adolfo
Suárez in quel 23 febbraio e, collateralmente, su un’immagine o un gesto del generale Gutiérrez Mellado e un’immagine o un gesto di Santiago Carrillo in quel 23 febbraio. Cercare di capire quel gesto o quell’immagine significa tentare di rispondere alla domanda che mi sono posto quel 23 febbraio in cui avvertii presuntuosamente che la realtà mi stava chiedendo un romanzo; cercare di capirlo senza i poteri e la libertà della finzione letteraria è la sfida di questo libro.
* Proprio come se aspirasse a essere un libro di storia, parte dalla prima prova documentale del 23 febbraio: le riprese televisive dell’assalto al Congresso; non ho potuto usare, invece, la seconda e praticamente ultima prova: la registrazione delle conversazioni telefoniche che ebbero luogo durante il pomeriggio e la sera del 23 febbraio tra gli occupanti il Congresso e l’esterno. La registrazione fu realizzata per ordine di Francisco Laina, direttore generale della sicurezza e capo del governo di emergenza formato quel pomeriggio per ordine del re con politici appartenenti alla seconda linea dell’amministrazione statale allo scopo di supplire al governo sequestrato nel Congresso. La registrazione o parte di essa venne ascoltata nel pomeriggio del 24 dalla Giunta di difesa nazionale presieduta dal re e da Adolfo Suárez, nel palazzo della Zarzuela (e sicuramente risultò decisiva perché il governo ordinasse l’arresto immediato del leader del golpe, il generale Armada); è possibile che l’abbia ascoltata anche il giudice istruttore del processo sui fatti del 23 febbraio, che non accettò di usarla come prova perché effettuata senza il permesso dell’autorità giudiziaria; poi scomparve, e da allora non se ne hanno notizie certe. C’è chi dice che si trovi negli archivi dei servizi segreti, il che è falso. Chi sostiene che sia stata distrutta. O, nel caso non fosse stata distrutta, altri dicono che potrebbe trovarsi solo negli archivi del ministero degli Interni. C’è chi dice che da quegli archivi sarebbe successivamente scomparsa. Secondo alcuni, Adolfo Suárez avrebbe portato con sé una parte della registrazione al momento di lasciare il governo. Ci sono tante altre congetture. Io non so altro. (N.d.A.) (p.24)
(p.169)

TERZA PARTE

Un rivoluzionario di fronte al golpe

Il fermo immagine mostra l’emiciclo del Congresso deserto. No, l’immagine è ferma, ma l’emiciclo (o meglio: l’ala destra, quella inquadrata dell’immagine) non è deserto: Adolfo Suárez resta seduto nel suo scranno blu da presidente, sempre statuario e spettrale. Non è più solo: sono trascorsi due minuti dall’entrata in scena del tenente colonnello Tejero e accanto al presidente, alla sua destra, siede il generale Gutiérrez Mellado; ancora più a destra, tre ministri hanno occupato i propri seggi, anche questi blu, seguendo il loro esempio; sulla sinistra, nella sala d’ingresso, nell’emiciclo centrale, un gruppo di guardie civili intimidisce i deputati spianando le armi. Una luce acquosa, tenue e irreale, avvolge la scena, come se si svolgesse all’interno di uno stagno o di un incubo o se fosse illuminata soltanto dal lampadario barocco che pende da una parete, nell’angolo superiore destro dell’inquadratura.
Tolgo il fermo e le immagini vanno avanti. Adesso, nel silenzio trepidante e intimorito dell’emiciclo, le guardie civili vagano nella sala d’ingresso, si aggirano nella zona centrale dell’emiciclo, sulle quattro scalinate di accesso agli scranni, cercando di posizionarsi secondo il piano dell’operazione; al di sopra di Adolfo Suárez e della fila dei ministri che siedono accanto a lui, nella desolazione degli scranni vuoti, spuntano timidamente una, due, tre, quattro teste di deputati combattuti tra la curiosità e la paura. Poi l’inquadratura cambia, e per la prima volta abbiamo un’immagine dell’ala sinistra dell’emiciclo, dove oltre ad alcuni ministri siedono abitualmente i deputati del Partito socialista e del Partito comunista. Quello che vediamo adesso è curiosamente simile ma diverso da ciò che abbiamo visto finora, come se quanto sta accadendo nell’ala sinistra dell’emiciclo fosse un riflesso rovesciato di quello che succede nell’ala destra. Qui, alla sinistra, tutti gli scranni blu del governo sono vuoti; anche quelli rossi dei deputati, salvo uno: all’estremità superiore dell’immagine, nel primo scranno della settima fila, proprio di fianco alla tribuna dove si accalcano al suolo i giornalisti parlamentari, un deputato è rimasto seduto e fuma. Il deputato ha sessantasei anni; l’espressione e lo sguardo granitici dietro gli occhiali con la montatura di metallo, la fronte resa ancora più ampia dall’incipiente calvizie; indossa un completo scuro, cravatta scura, camicia bianca. È Santiago Carrillo, segretario generale del Partito comunista: al pari di Suárez e Gutiérrez Mellado, Carrillo ha disobbedito all’ordine di gettarsi al suolo ed è rimasto seduto mentre le pallottole crivellavano soffitto e pareti dell’emiciclo e i suoi compagni cercavano riparo sotto gli scranni. Ha disobbedito e adesso, trascorsi due minuti dalla sparatoria, sta per disobbedire ancora: dopo che una guardia civile gli è passata di fianco senza rivolgergli la parola, neppure un’occhiata, un sequestratore invisibile a noi gli ordina di fare come gli altri e di gettarsi a terra; Carrillo finge di obbedire ma non lo fa: si muove un po’ sullo scranno, sembra stia per sdraiarsi o inginocchiarsi, ma alla fine si sposta di lato, appoggiando il gomito al bracciolo, in una postura strana e innaturale, quasi per fingere di aver obbedito all’ordine senza averlo in realtà fatto.
L’inquadratura cambia nuovamente: l’immagine torna a mostrare l’ala destra dell’emiciclo, dove si trovano Suárez, Gutiérrez Mellado, alcuni ministri del governo e i deputati del partito che lo sostiene. Qui non è cambiato nulla di sostanziale, salvo l’aumento di teste di deputati che punteggiano il deserto di scranni vuoti: mentre l’inquadratura dell’ala destra si alterna a quella frontale della presidenza del Congresso (sulla cui scalinata di accesso è sempre accovacciato il segretario Victor Carrascal, che si è rifugiato lì quando l’assalto lo ha colto di sorpresa mentre leggeva dalla tribuna l’elenco dei deputati durante la votazione di investitura), Suárez e i ministri allineati di fianco a lui sono sempre nella stessa posizione, le guardie civili continuano a vagare su e giù per l’emiciclo, ogni tanto si sentono echeggiare ordini e commenti indecifrabili. Proprio dietro uno di loro compare, nella parte inferiore sinistra dell’immagine, mentre finisce di scendere una delle scalinate di accesso ai seggi, una donna che si regge al braccio di una guardia civile; i due attraversano il semicerchio centrale, scavalcando i corpi sdraiati al suolo di uscieri e dattilografi, e scompaiono all’estremità inferiore destra, verso l’uscita dell’emiciclo. La donna è Anna Balletbó, deputata socialista per la circoscrizione di Barcellona, che è incinta di qualche mese e che gli assalitori hanno deciso di lasciare libera. Appena uscita la deputata, nell’emiciclo echeggia un fragore di vetri infranti; il rumore allarma le guardie, che puntano i mitra verso la parte superiore della sala, anche i deputati si voltano in quella direzione, ma in un attimo tutto torna come prima - si è trattato di un banale incidente: senza dubbio una conseguenza della sparatoria iniziale -, il silenzio cala nuovamente e l’inquadratura cambia, l’immagine mostra Santiago Carrillo nel mezzo della desolazione di scranni vuoti; vecchio, disobbediente e intento a fumare, seduto da solo nell’ala sinistra dell’emiciclo.
(p.158)
23 febbraio

Non so se il successo o il fallimento di un colpo di Stato si decidano nei primi minuti; so che alle sei e trentacinque del pomeriggio, dieci minuti dopo l’inizio, il colpo di Stato era un successo: il tenente colonnello Tejero aveva occupato il Congresso, i carri armati del generale Milans del Bosch pattugliavano le strade di Valencia, quelli della Divisione corazzata Brunete si apprestavano a uscire dalle caserme, il generale Armada attendeva la telefonata del re nel suo ufficio al quartier generale dell’esercito; alle sei e trentacinque tutto marciava come previsto dai golpisti, ma alle sei e quaranta i loro piani si erano incrinati e il golpe si avviava al fallimento. La sorte di quei cinque minuti cruciali si giocò nel palazzo della Zarzuela. Se la giocò il re.
A partire da quel 23 febbraio non si è cessato di accusare il re di aver organizzato il golpe, di esserne in qualche modo implicato, di averne desiderato il successo. È un’accusa assurda: se il re avesse organizzato il golpe, o se ne fosse stato comunque partecipe, il golpe avrebbe indubbiamente trionfato. La verità è evidente: il re non organizzò il golpe ma lo fermò, per la semplice ragione che era l’unica persona in grado di farlo. Affermare ciò non equivale a dire che il comportamento del re riguardo al 23 febbraio sia stato irreprensibile; non lo fu, come del resto quello della maggioranza della classe politica: e al pari della classe politica, anche al re si possono concedere le attenuanti - la giovane età, l’immaturità, l’inesperienza, la paura -, ma la realtà è che nei mesi precedenti fece cose che non avrebbe dovuto fare. Non doveva violare la stretta neutralità del suo ruolo costituzionale di arbitro fra le istituzioni. Non doveva istigare alla destituzione di Suárez. Non doveva cercare soluzioni alternative a Suárez. Non doveva parlare con nessuno né permettere che nessuno parlasse con lui della possibilità di sostituire il governo di Suárez con un governo di unità nazionale presieduto da un militare. Non doveva esercitare pressioni oltre ogni limite sul governo perché accettasse il generale Armada come vicecapo di Stato maggiore dell’esercito, autorizzandolo a concepire e propagare l’idea che lo faceva venire a Madrid per nominarlo presidente di un governo di unità nazionale. Non doveva essere ambiguo bensì chiaramente risoluto: non doveva permettere che nessun politico, imprenditore, giornalista, militare - soprattutto nessun militare - immaginasse neppure lontanamente di poter appoggiare manovre al limite dell’incostituzionalità che rischiavano di lacerare il tessuto ancora fragile della neonata democrazia aprendo spiragli a un esercito desideroso di schiacciarla. Al pari di quasi tutta la classe politica, nei mesi precedenti al 23 febbraio il re si comportò in maniera come minimo imprudente - perché per i militari lui era non solo il capo di Stato, ma anche il capo dell’esercito e l’erede di Franco -, e la sua imprudenza, molto più di quella della classe politica, mise le ali ai sostenitori del golpe. Ma il 23 febbraio fu il re a tagliarle.
Non risulta facile ricostruire quanto accadde alla Zarzuela durante i primi quindici minuti del golpe; furono momenti di enorme confusione: non solo perché le testimonianze dei protagonisti sono scarse o si contraddicono tra loro; il punto è che a volte i protagonisti contraddicono sé stessi. Uso deliberatamente il plurale: il protagonismo non spetta soltanto al re, ma anche - in modo secondario ma fondamentale - al suo segretario, Sabino Fernández Campo, in teoria la terza autorità della casa reale, ma in pratica la prima. Fernández Campo era all’epoca un generale con esperienza politica, conoscenze giuridiche e vaste relazioni militari, che non apparteneva all’aristocrazia monarchica e che quattro anni prima aveva sostituito nell’incarico il generale Armada, con cui all’inizio manteneva eccellenti rapporti che si erano però deteriorati nei mesi precedenti al golpe, forse perché, dopo qualche anno di lontananza dal palazzo, Armada era riuscito a riavvicinarsi al re e la sua ombra aveva ripreso ad aleggiare sulla Zarzuela. Fu Fernández Campo che il 23 febbraio, dopo aver sentito alla radio la notizia della sparatoria nel Congresso, avvisò il re, che stava giocando a squash con un amico e che, al pari del suo segretario, fin dal primo momento capì di trovarsi di fronte a un colpo di Stato. Quello che succede in seguito alla Zarzuela - quello che succede nell’arco dell’intera nottata a palazzo - avviene in pochi metri quadrati, nello studio del re e in quello di Fernández Campo, che era l’anticamera dell’anticamera del re. Questi, arrivato lì, viene a sapere quasi al contempo dell’assalto al Congresso e del fatto che Milans del Bosch ha appena diffuso un bando in cui dichiara lo stato d’assedio a Valencia e, dato che Milans è un militare solidamente monarchico la cui fedeltà si è sempre preso la briga di ostentare, lo chiama al telefono; Milans lo tranquillizza o almeno ci prova: non ha motivo di preoccuparsi, lui è come sempre ai suoi comandi, ha solo assunto tutti i poteri nella regione per salvaguardare l’ordine finché non viene risolto il sequestro del Congresso. Mentre il re parla con Milans, Fernández Campo riesce a mettersi in contatto con Tejero grazie a un membro della guardia reale che assisteva in borghese alla seduta di investitura del nuovo presidente del governo e che lo informa di quanto sta accadendo da una cabina telefonica e gli fornisce un numero: Fernández Campo parla con Tejero, gli intima di non abusare del nome del re, come pare abbia fatto al momento dell’irruzione, e gli ordina di lasciare immediatamente il Congresso; ma prima che finisca di parlare, Tejero riattacca. Allora Fernández Campo chiama il generale Juste, a capo della Divisione corazzata Brunete. Lo fa perché sa che la Brunete - l’unità più poderosa, moderna e agguerrita dell’esercito, e la più vicina alla capitale - è determinante per il trionfo o il fallimento di un golpe; e poi con Juste ha un rapporto di amicizia che dura da molti anni. Dopo l’imprevista sparatoria nel Congresso, che ha conferito a quello che voleva essere un golpe morbido la scenografia di un golpe duro, il dialogo tra Juste e Fernández Campo costituisce il secondo rovescio per i golpisti e l’atto iniziale di smantellamento del colpo di Stato. All’inizio della conversazione nessuno dei due generali parla apertamente, anche perché ignorano entrambi da che parte stia l’altro, ma soprattutto perché con Juste, nel suo ufficio, ci sono il generale Torres Rojas e il colonnello San Martín, che insieme al comandante Pardo Zancada capeggiano la sedizione nella Brunete e che lo hanno convinto a lanciare le sue truppe su Madrid sostenendo che l’operazione è stata ordinata da Milans, conta sull’appoggio del re ed è pilotata da Armada dalla Zarzuela; Torres Rojas e San Martín vigilano su quanto dice Juste a Fernández Campo, che è in difficoltà, usa giri di parole tortuosi e pieni di sottintesi, finché il comandante della Brunete menziona Armada e di colpo tutto sembra quadrare: Juste chiede a Fernández Campo se Armada si trova alla Zarzuela e Fernández Campo risponde di no; poi Juste gli chiede se aspettano Armada alla Zarzuela e Fernández Campo risponde nuovamente di no; a questo punto Juste dice: Ah. Questo cambia tutto.
Comincia così il contro golpe. (p.161)
(p.411)


EPILOGO
Prologo di un romanzo

Il 17 luglio 2008, il giorno prima che Adolfo Suárez comparisse per l’ultima volta sui giornali, fotografato nel giardino di casa a La Florida in compagnia del re - quando sembrava ormai morto da molto tempo o comunque tutti ne parlavano come se fosse morto -, io ho seppellito mio padre. Aveva settantanove anni, tre più di Suárez, ed era morto il giorno prima a casa sua, seduto sulla solita poltrona, in modo dolce e indolore, probabilmente senza capire che stava morendo. Al pari di Suárez, era un uomo comune: veniva da una famiglia di ricchi decaduti che vivevano da tempi immemorabili in un paese dell’Extremadura, aveva studiato a Cordova e negli anni Sessanta era emigrato in Catalogna; non beveva, era stato un accanito fumatore ma aveva smesso da tempo, da giovane aveva aderito all’Azione cattolica ed era stato falangista; anche lui era un ragazzo di bell’aspetto, simpatico, presuntuoso, donnaiolo e giocatore, un bravo ballerino da sagra di paese, anche se non credo fosse un galletto. Era, questo sì, un veterinario competente, e suppongo che avrebbe potuto arricchirsi, ma non lo fece, se non quanto bastava per mantenere la famiglia e offrire una carriera a tre dei suoi cinque figli. Aveva pochi amici, nessun passatempo particolare, non viaggiava e negli ultimi quindici anni ha vissuto della sua pensione. Come Suárez, era moro, magro, elegante, frugale, trasparente; a differenza di Suárez, cercava di passare inosservato, e credo ci sia riuscito sempre. Non sarò così presuntuoso da affermare che non commise certe cialtronate tipiche di quell’epoca di cialtroneria diffusa, ma posso assicurare che, per quanto ne so, mai nessuno ebbe ragione di non considerarlo un uomo onesto. Ci siamo sempre intesi bene, salvo forse, fatalmente, durante la mia adolescenza. Credo che in quegli anni mi vergognassi un poco di essere suo figlio, perché pensavo di essere migliore di lui, o che lo sarei diventato. Non discutevamo molto, ma quando succedeva era invariabilmente di politica, il che è curioso, perché a mio padre la politica non interessava granché, e neppure a me, e dunque ne deduco che fosse il nostro modo di comunicare in un periodo in cui non avevamo molto da dirci, o non risultava facile farlo. Ho già detto all’inizio del libro che a quei tempi mio padre era suarista, come del resto mia madre, mentre io disprezzavo Suárez, un collaborazionista del franchismo, un arrivista ignorante e superficiale che a furia di colpi di fortuna e sotterfugi era riuscito a prosperare sotto la democrazia; forse pensavo qualcosa di simile di mio padre, e quindi mi vergognavo di lui. Di fatto, in qualche discussione finivamo per alzare la voce, e in alcuni casi me ne andavo sbattendo la porta (mio padre, per esempio, si indignava inorridito per gli omicidi dell’ETA; io non ero a favore dell’ETA, o non troppo, ma ritenevo che la colpa di tutto fosse di Suárez, che non lasciava all’ETA altra scelta che uccidere); comunque, passata l’adolescenza, erano finite le discussioni. Però continuavamo a parlare di politica, immagino perché a forza di fingere che ci interessasse avevamo finito per interessarcene davvero. Quando Suárez si dimise, mio padre continuò a restare suarista, votava a destra e qualche volta a sinistra, e pur non smettendo di trovarci in disaccordo, a quel punto avevamo capito che era meglio così che trovarci d’accordo, perché la conversazione durava di più. In realtà, la politica era ormai il principale, se non unico, argomento di conversazione; ricordo che non parlavamo quasi mai del suo lavoro, e ancor meno dei miei libri: mio padre non leggeva romanzi e, nonostante sapessi che i miei li leggeva e che era orgoglioso che fossi uno scrittore e ritagliava e metteva da parte gli articoli che mi riguardavano, non gli ho mai sentito dare un’opinione su nessuno di quelli che avevo scritto. Negli ultimi anni aveva perso gradualmente l’interesse per qualsiasi cosa, compresa la politica, ma l’interesse per i miei libri cresceva, o almeno questa era la mia impressione, e quando ho iniziato a scrivere questo gli ho raccontato di cosa trattava (sono stato sincero con lui: gli ho detto che si incentrava sul gesto di Adolfo Suárez, non sul 23 febbraio, perché fin dall’inizio volevo immaginare che il gesto di Adolfo Suárez contenesse il senso intrinseco del 23 febbraio); mi ha guardato: per un attimo ho pensato che stesse per fare qualche commento o per mettersi a piangere o a ridere, invece ha fatto una smorfia vaga, non so se volesse esprimere sarcasmo. Poi, negli ultimi mesi della malattia, quando era ormai ridotto pelle e ossa e riusciva a malapena a muoversi e ad articolare qualche parola, ho continuato a raccontargli cose riguardo a questo libro. Gli parlavo degli anni del cambiamento politico, del 23 febbraio, di fatti e personaggi sui quali avevamo discusso anni addietro fino allo sfinimento; adesso mi ascoltava distrattamente, ammesso che mi ascoltasse davvero, e per attirare la sua attenzione ogni
tanto gli ponevo delle domande, a cui non rispondeva. Ma una sera gli ho chiesto perché lui e mia madre avessero confidato in Suárez, allora è sembrato risvegliarsi di colpo dal suo letargo e, cercando invano di raddrizzarsi nella poltrona, mi ha guardato sgranando gli occhi e ha mosso nervosamente le mani scheletriche, quasi con rabbia, come se quell’impeto potesse restituirgli per un istante il ruolo di capofamiglia o riportarci ai tempi della mia adolescenza, quasi fossimo da sempre invischiati in una discussione senza senso e si presentasse finalmente l’occasione di risolvere l’annosa questione. «Perché era come noi » ha detto con quel poco di voce che gli rimaneva. Stavo per chiedergli cosa intendesse dire, quando ha aggiunto: «Era uno del popolo, aveva aderito alla Falange, all’Azione cattolica, non avrebbe fatto nulla di male, lo capisci, no?»
Lo capivo. Quella volta credo di averlo capito. E perciò pochi mesi dopo, quando la sua morte e la resurrezione di Adolfo Suárez sui giornali hanno formato un’ultima simmetria, l’ultima scena di questa storia, non ho potuto evitare di chiedermi se ho cominciato a scrivere questo libro non per tentare di capire Adolfo Suárez o un gesto di Adolfo Suárez, bensì per tentare di capire mio padre, se ho continuato a scriverlo per continuare a parlare con mio padre, se ho voluto terminarlo perché mio padre lo leggesse e sapesse che avevo finalmente capito, che avevo capito che non avevo del tutto ragione e lui non si sbagliava del tutto, e che io non sono migliore di lui, né mai lo sarò.








CHI GOVERNAVA IL 23 FEBBRAIO 1981

Italia          Governo Arnaldo Forlani (dall'ottobre 1980 )
Italia          Presidente della Repubblica: Sandro Pertini (dal 1978)
USA            Presidente dal 20 gennaio Ronald Reagan (primo mandato)
UK              Margaret Tatcher (dal 1979)
URSS          Leonid Breznev (dal 1964 - muore nel 1982)
Santa Sede  Papa Giovanni Paolo II (dal 1978 - attentato nel maggio 1981)
India          Indira Gandhi (tornata al potere nel 1980)
Cina            Deng Xiaoping (dal 1978)
Francia       Presidente Giscard d'Estaing (Mitterand sarà eletto in aprile)
Jugoslavia   morte di Tito maggio 1980

ALTRI FATTI 1981Italia
marzo: inizio inchiesta P2
base missili a Comiso
referendum sull’aborto
altrovenozze principe Carlo d'Inghilterra - Lady Diana
lancio del primo pc IBM
uccisione del Presidente Sadat
Jaruzelski al potere




Date della storia della Spagna
(dalla morte di Franco)

Morte di Franco 1975
Adolfo Suarez 1976 - 1981
prime elezioni 1977
Leopoldo Calvo Sotelo 1981 - 1982
Ingresso nella Nato 1982
Felipe Gonzàlez 1982 - 1996
Ingresso in UE 1986
José Maria Aznar 1996 - 2004
José Luis Zapatero 2004 –
 ____________________________________
Reddito medio procapite
                    2009          1981

Spagna       100         26,5
Italia          100         34,1