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Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale - Samuel P. Huntington





lunedì 01 marzo 2010 legge Anna Cocci Grifoni
 Pubblicato nel 1996, Lo Scontro delle Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale di Samuel P. Huntington suscitò un notevole dibattito in ambito accademico ed ebbe una certa risonanza anche nel grande pubblico. Finita la Guerra Fredda, crollata l’URSS, quale ruolo internazionale si apre per l’Occidente e per gli Stati Uniti? In aperta polemica con F. Fukuyama, Huntington prefigura nuovi scenari di conflitto internazionale, fondati non più sulla divergenza ideologica ma sulla diversità culturale. Otto civiltà si confrontano tra loro e nuovi conflitti si sviluppano laddove esse si mescolano e si affrontano per la supremazia dei propri valori identitari. L’Occidente, al culmine di un processo di sviluppo che rischia di tramutarsi in un inizio di decadenza, minacciato soprattutto dalla nuova coesione culturale asiatica e islamica, deve prendere atto dell’inesistenza di un universalismo occidentale e preservare, proteggere e rinnovare le proprie autentiche radici culturali.


Samuel P. Huntington, Lo Scontro delle Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, Garzanti 1997, titolo originale The Clash of Civizations and the Remaking of World Order.
A qualsiasi livello - individuale, tribale, razziale di civiltà – l'identità è definibile esclusivamente in rapporto a un «altro», a una diversa persona, tribù, razza o civiltà. Storicamente, i rapporti tra stati o altre identità appartenenti alla medesima civiltà sono sempre stati diversi rispetto a quelli tra stati o entità di civiltà differenti. Codici diversi governano l'atteggiamento umano verso chi è «come noi» e verso i «barbari» diversi da noi. Le norme che regolavano i rapporti tra nazioni cristiane differivano da quelle che contrapponevano dette nazioni ai turchi e ad altri popoli «infedeli». I musulmani hanno agito in modo diverso nei confronti degli esponenti del Dar al-harb. I cinesi trattano gli stranieri di origine cinese in modo ben diverso da quelli di altra origine. La contrapposizione tra «noi» membri della civiltà e gli «altri» barbari è una costante nella storia del genere umano. Tali differenze di comportamento hanno le seguenti motivazioni: a. Un sentimento di superiorità (ma a volte anche di inferiorità) nei confronti di popoli ritenuti completamente diversi.
b. La paura o la mancanza di fiducia nei confronti di questi popoli. c. Le difficoltà di comunicazione con essi, dovuta alle diversità linguistica ma anche alla diversa interpretazione del concetto di comportamento civile.
d. La mancanza di familiarità con i valori, i rapporti e le consuetudini sociali di altri popoli.
Nel mondo d'oggi, i progressi conseguiti nel settore dei trasporti e delle comunicazioni hanno portato a un grado di interazione tra i popoli di culture diverse molto più ampio, intenso e paritario, il che ha a sua volta stimolato una maggiore coscienza della propria civiltà d'appartenenza. Francesi, tedeschi, belgi e olandesi vanno sempre più considerandosi cittadini europei. I musulmani mediorientali si identificano e si schierano con i bosniaci e i ceceni. I cinesi di tutta l'Asia orientale identificano i propri interessi con quelli della Repubblica popolare. I russi si identificano e si schierano con i serbi e gli altri popoli ortodossi. Questi ampi livelli di identificazione della propria civiltà si traducono in una maggiore sensibilità alle differenze che contraddistinguono una civiltà dall'altra e nel bisogno di proteggere tutto quanto distingue «noi» da «loro».
4) Le cause di conflittualità tra stati e gruppi appartenenti a civiltà diverse sono, in larga parte, le stesse di quelle che da sempre hanno generato conflitti tra i popoli: controllo sulla popolazione, territorio, ricchezza, risorse e potere relativo, vale a dire la possibilità di imporre i nostri valori, istituzioni e canoni culturali a un altro gruppo e impedire che tale gruppo faccia lo stesso con noi. La conflittualità tra gruppi di diversa cultura, tuttavia, può anche investire questioni di carattere, appunto, culturale. Le differenze ideologiche tra Marxismo-Leninismo e democrazia liberale possono quanto meno essere discusse, se non risolte. Le vertenze di carattere materiale possono essere negoziate e spesso risolte mediante un compromesso. Nessuna di tali soluzioni è invece possibile con i problemi di natura culturale. E' poco probabile che indù e musulmani possano risolvere la disputa se ad Ayodhya debba essere costruito un tempio o una moschea costruendo entrambi, oppure né uno né l'altra, oppure erigendo un edificio sincretico che funga al contempo da tempio e da moschea. Né quella che potrebbe sembrare una questione di carattere strettamente territoriale tra mussulmani albanesi e serbi ortodossi per il Kosovo, o tra ebrei e arabi su Gerusalemme, può trovare facile soluzione, in quanto questi luoghi, hanno per entrambi i popoli un profondo significato storico, culturale ed emozionale. Allo stesso modo, né le autorità francesi né i genitori mussulmani sembrano disposti ad accettare un compromesso che consenta alle studentesse mussulmane di indossare il velo a scuola un giorno sì e uno no. Questioni culturali come questa implicano prese di posizione nette, o nero o bianco. 5) La conflittualità è universale. Odiare è umano. Per potersi definire e per trovare le opportune motivazioni, l'uomo ha bisogno di nemici: concorrenti in affari, avversari di qualsiasi tipo di competizione, rivali in politica. Egli affida istintivamente e considera un pericolo quanti sono diversi da lui e possono in qualche modo danneggiarlo. La risoluzione di un conflitto e la scomparsa di un nemico scatenano forze individuali, sociali e politiche che portano alla nascita di nuovi conflitti e nemici. «La tendenza al “noi” contro “loro”» ha osservato Ali Mazrui, «in campo politico, è pressoché universale». Nel mondo contemporaneo «loro» significa sempre più spesso popoli di diversa civiltà. La fine della Guerra fredda non ha posto fine alla conflittualità, ma ha piuttosto fatto emergere nuove identità radicate nella cultura e nuovi canoni di conflittualità tra gruppi di culture diverse e, al livello più generale, di civiltà diverse. Nel contempo, la comunanza culturale incoraggia la cooperazione tra stati e gruppi, come confermano i modelli emergenti di associazione regionale tra paesi, particolarmente in campo economico.

CAPITOLO OTTAVO
L’Occidente e gli altri: rapporti tra le civiltà
L’Universalismo occidentale
Nel mondo che sta nascendo, i rapporti tra stati e gruppi appartenenti a civiltà diverse non saranno stretti e avranno spesso carattere antagonista. Alcuni di essi tuttavia appaiono potenzialmente più conflittuali di altri. A livello regionale, o microlivello, la linea di faglia più pericolosa sembra quella che separa il mondo islamico dagli stati adiacenti ortodossi, indù, africani e cristiano-occidentali. A livello generale, o macrolivello, la frattura principale è tra «l'Occidente e gli altri», con i conflitti più intensi destinati a scoppiare tra le società mussulmane e asiatiche da un lato e quella Occidente dall'altro. Gli scontri più pericolosi del futuro nasceranno probabilmente dall'interazione tra l'arroganza occidentale, l'intolleranza islamica e l'intraprendenza sinica.
La civiltà occidentale è l'unica ad aver esercitato una profonda e a volte devastante influenza su tutte le altre civiltà. Di conseguenza, il rapporto tra potere e cultura occidentali e potere e cultura delle altre civiltà è l'elemento che maggiormente caratterizza il «mondo delle civiltà». Via via che il potere relativo delle altre civiltà viene ad aumentare, il fascino della cultura occidentale si appanna, e i popoli non occidentali sviluppano un sentimento sempre più forte di fiducia e attaccamento alle proprie culture autoctone. Dunque, il problema fondamentale nei rapporti tra l'Occidente e le altre civiltà si può riassumere nella discrepanza esistente tra i tentativi dell'Occidente, e dell'America in particolare, di promuovere una cultura occidentale universale e la sua sempre minore capacità di realizzare questo obiettivo.
Il crollo del comunismo ha accresciuto ulteriormente questa discrepanza, rinsaldando nell'Occidente la convinzione che la propria ideologia del liberismo democratico avesse trionfato a livello globale e fosse quindi universalmente valida. L'Occidente - e in particolare l'America, che è sempre stata una nazione missionaria - ritiene che i popoli non occidentali debbano convertirsi ai valori occidentali della democrazia, del libero mercato, del governo costituzionale, dei diritti umani, dell'individualismo, dello stato di diritto, e inglobare tali valori nelle proprie istituzioni. Tuttavia, pur esistendo nelle altre civiltà minoranze che abbracciano e promuovono tali valori, l'atteggiamento dominante nei loro riguardi tra le culture non occidentali varia da un diffuso scetticismo a una forte opposizione. Quello che per l'Occidente è universalismo, per gli altri è imperialismo.
L'Occidente tenta e continuerà a tentare di preservare la propria posizione di preminenza e difendere i propri interessi identificandoli con quelli della «comunità internazionale». Questa espressione è diventata l'eufemismo d'uso comune (in sostituzione di «Mondo libero») impiegato per conferire legittimità globale ad azioni che riflettono gli interessi degli Stati Uniti e delle altre potenze occidentali. L'Occidente, ad esempio, sta tentando di integrare le economie non occidentali in un sistema economico universale sotto il suo controllo. Attraverso il Fondo monetario internazionale e altri organismi internazionali, l'Occidente promuove i propri interessi economici e impone ad altre nazioni le politiche economiche che ritiene più appropriate. Se si indicesse un referendum in una qualsiasi società non occidentale, tuttavia, il Fmi e gli altri organismi economici internazionali otterrebbero certamente l'avallo dei ministri finanziari e di pochi altri, ma sarebbero altrettanto certamente osteggiati dalla stragrande maggioranza della popolazione, che concorderebbe certo con la descrizione dei funzionari del Fmi fatta da Georgij Arbatov: «neo-bolscevichi che amano appropriarsi del denaro altrui, imporre norme di condotta politica ed economica estranee e non democratiche e soffocare la libertà economica».
I non occidentali, inoltre, non esitano a puntare l'indice sul divario esistente tra i principi propugnati dall'Occidente e i suoi comportamenti pratici. Ipocrisia, politica dei «due pesi e due misure» e dei «distinguo» sono il prezzo da pagare alle pretese universalistiche. Viene predicata la democrazia, ma non se questa manda poi al potere i fondamentalisti islamici; la non proliferazione delle armi per Iran e Iraq, ma non per Israele; il libero commercio è l'elisir dello sviluppo economico, ma non nel settore agricolo; le violazioni dei diritti umani sono motivo di scontro con la Cina, ma non con l'Arabia Saudita; l'aggressione contro i kuwaitiani, possessori di petrolio, viene stigmatizzata con veemenza, ma non quella contro i bosniaci, che di petrolio non ne hanno. La politica dei due pesi e due misure è dunque il prezzo inevitabile da pagare al principio dei valori universali.
Dopo aver conquistato l'indipendenza politica, le società non occidentali desiderano affrancarsi da quello che considerano il dominio economico, militare e culturale dell'Occidente. Le società est-asiatiche sono già in procinto di uguagliare l'Occidente dal punto di vista economico. I paesi asiatici e islamici sono alla ricerca di scorciatoie che permettano loro di uguagliarlo sul piano militare. Le aspirazioni universali della civiltà occidentale, il declinante potere relativo dell'Occidente e la sempre maggiore intraprendenza culturale delle altre civiltà creano in linea generale rapporti difficili tra l'Occidente e gli altri. La natura di tali rapporti e il grado di contrapposizione variano tuttavia considerevolmente e possono essere suddivisi in tre categorie. Con le civiltà antagoniste, Islam e Cina, l'Occidente avrà probabilmente rapporti costantemente tesi e spesso fortemente conflittuali. I rapporti con America latina e Africa, civiltà più deboli e più direttamente influenzate dall'Occidente, registreranno un livello di conflittualità di gran lunga inferiore, soprattutto nel caso dell'America latina. I rapporti tra Occidente e Russia, Giappone e India occuperanno probabilmente una posizione intermedia rispetto ai primi due gruppi, e presenteranno di volta in volta elementi di cooperazione o di conflittualità a seconda che questi tre stati guida decidano di schierarsi con le civiltà antagoniste o con l'Occidente. Definiremo tali civiltà «oscillanti» tra l'Occidente da un lato e le civiltà islamica e sinica dall'altro.
Islam e Cina incarnano grandi tradizioni culturali molto diverse - e ai loro occhi infinitamente superiori - rispetto a quelle dell'Occidente. Il potere e l'intraprendenza di entrambe in rapporto all'Occidente stanno aumentando, così come vanno moltiplicandosi e crescendo di intensità i conflitti tra i loro valori ed interessi da un lato e quelli occidentali dall'altro. Mancando il mondo islamico di uno stato guida, i suoi rapporti con l'Occidente variano da paese a paese. A partire dagli anni Settanta si è andata tuttavia manifestando una costante tendenza antioccidentale caratterizzata dall'avvento del fondamentalismo, dal passaggio di potere nei paesi mussulmani, da governi filoccidentali a governi antioccidentali, dall'instaurarsi di uno stato di guerra strisciante tra alcuni gruppi islamici e l'Occidente e dall'indebolimento dei legami, fondati sulla sicurezza comune, esistenti all'epoca della Guerra Fredda tra alcuni stati mussulmani e gli Stati Uniti. Al di là delle differenze su specifiche questioni rimane tuttavia il problema di fondo circa il ruolo di queste civiltà in rapporto all'Occidente nella futura organizzazione del pianeta. Le istituzioni internazionali, la distribuzione del potere, i sistemi politici ed economici delle nazioni, alla metà del XXI secolo rifletteranno principalmente i valori e gli interessi dell'Occidente, oppure quelli del l'Islam e della Cina?
La teoria «realista» delle relazioni internazionali sostiene che gli stati guida delle civiltà non occidentali dovrebbero allearsi per controbilanciare il potere dominante dell'Occidente. In alcune regioni, ciò è già accaduto. Quella di una grande coalizione antioccidentale, tuttavia, appare per l'immediato futuro una possibilità alquanto remota. La civiltà islamica e quella sinica sono molto diverse tra loro per religione, cultura, assetto sociale, tradizioni, struttura politica e valori di fondo. Hanno probabilmente meno cose in comune tra loro di quante ne abbia ciascuna di esse con l'Occidente. Tuttavia in politica un nemico comune crea interessi comuni. Le società islamiche e siniche vedono nell'Occidente il proprio rivale e hanno dunque fondati motivi per allearsi contro di esso, così come accadde con le potenze alleate e Stalin contro Hitler. Tale cooperazione trova espressione concreta su molti punti: diritti umani, politica economica e soprattutto il tentativo - universalmente perseguito - di sviluppare il proprio potenziale militare, in particolare le armi di distruzione di massa e i missili per farle giungere a destinazione, in modo da controbilanciare la superiorità militare convenzionale dell'Occidente. Nei primi anni Novanta aveva preso vita un asse «islamico-confuciano» con Cina e Corea del Nord da un lato e - con diverso grado d'intensità - Pakistan, Iran, Iraq, Siria, Libia e Algeria dall'altro, per far fronte all'Occidente su questi problemi.
I problemi che vanno oggi assumendo sempre maggior rilevanza internazionale sono proprio quelli che dividono l'Occidente da queste altre società. Tre di essi concernono i tentativi dell'Occidente: 1) di preservare la propria superiorità militare mediante strategie di non proliferazione e di contro-proliferazione delle armi nucleari, biologiche e chimiche e dei mezzi per renderle operative; 2) di promuovere i valori e le istituzioni politiche occidentali sollecitando altre società al rispetto dei diritti umani così come sono concepiti in Occidente e all'adozione del modello democratico di stampo occidentale; e 3) di proteggere l'integrità culturale, sociale e razziale delle società occidentali limitando il diritto d'asilo agli immigrati e ai rifugiati non occidentali. In tutti e tre questi settori, l'Occidente ha avuto e continuerà probabilmente ad avere difficoltà a difendere i propri interessi contro quelli delle società non occidentali.
Alla metà degli anni Novanta l'Occidente presenta molte delle caratteristiche che Quigley identifica come propria di una civiltà matura sull'orlo del decadimento. Economicamente, è più ricco di qualunque altra civiltà, ma presenta anche bassi tassi di crescita economica, di risparmio e di investimenti, soprattutto rispetto alle società est-asiatiche. Il consumo individuale e collettivo ha priorità sulla creazione di condizioni per un futuro potere economico e militare. L'incremento naturale di popolazione è basso, soprattutto rispetto a quello dei paesi islamici. Nessuno di questi elementi, tuttavia, porta necessariamente con sé conseguenze catastrofiche. Le economie occidentali continuano a crescere; nel complesso le popolazioni dell'Occidente diventano sempre più agiate, e l'Occidente è ancora all'avanguardia nel campo della ricerca scientifica e dell'innovazione tecnologica. È difficile incrementare i bassi tassi di natalità mediante iniziative di governo (che hanno solitamente un successo ancora minore di quelle che cercano di contenere l'espansione demografica). Tuttavia, l'immigrazione è una potenziale risorsa di rinnovato vigore e di capitale umano, a patto che siano soddisfatte due condizioni: primo, che la priorità vada a persone capaci, qualificate ed energiche dotate del talento e dell'esperienza necessaria al paese ospitante; e secondo, che i nuovi immigrati e i loro figli vengano assimilati alle culture del paese ospitante e dell'Occidente in generale. L'America ha probabilmente dei problemi a soddisfare la prima condizione, i paesi europei la seconda. Ciò nonostante, l'attuazione di politiche di controllo su numero, origine, caratteristiche e grado di assimilazione degli immigranti rientra nell'esperienza e nelle competenze dei governi occidentali.
Ben più importanti dei problemi economici e demografici sono quelli legati al degrado morale, al suicido culturale e alla frammentazione politica che investono l'Occidente. Le manifestazioni di degrado morale più spesso rilevate comprendono:
1. l'aumento di comportamenti antisociali, quali atti criminali, uso di droga e violenza in generale;
2. il decadimento dell'istituzione della famiglia, l'aumento del numero di divorzi, di figli illegittimi, di gravidanze premature e di famiglie formate da un unico genitore;
3. almeno negli Stati Uniti, un declino del «capitale sociale», vale a dire una riduzione degli iscritti alle associazioni di volontariato e della fiducia interpersonale correlata a queste associazioni;
4. un generale indebolimento dell' «etica del lavoro» e la nascita di un culto dell'autoindulgenza;
5. un minore impegno nei confronti della cultura e dell'attività intellettuale, che negli Stati Uniti si è palesato in un abbassamento del livello medio di rendimento scolastico.
La futura prosperità dell'Occidente e la sua influenza su altre società dipendono in considerevole misura da come saprà rispondere a queste tendenze che alimentano, ovviamente, le rivendicazioni di superiorità morale da parte di musulmani e asiatici.
La cultura occidentale è minacciata da gruppi operanti all'interno delle stesse società occidentali. Una di queste minacce è costituita dagli immigrati provenienti da altre civiltà che rifiutano l'assimilazione e continuano a praticare e propagare valori, usanze e culture delle proprie società d'origine. Questo fenomeno prevale soprattutto tra i musulmani in Europa, che sono, comunque, una piccola minoranza, ma è presente anche, in minor misura, tra gli ispanici degli Stati Uniti, che invece sono una minoranza molto nutrita. In questo caso, se il processo di assimilazione fallirà, l'America diventerà un paese diviso, con tutti i rischi di frammentazione e disgregazione interna che questo comporta. In Europa, la civiltà occidentale potrebbe essere minacciata anche dall'indebolimento della sua componente principale, il cristianesimo. Il numero di europei che si professa credente, osserva le pratiche e partecipa alle attività religiose è infatti in costante declino. Nei confronti della religione prevale un sentimento non tanto di ostilità, quanto piuttosto d'indifferenza. Ciò nonostante, precetti, usanze e valori cristiani pervadono la civiltà europea. «Gli svedesi sono probabilmente il popolo meno credente d'Europa», ha osservato un commentatore svedese, «ma non è possibile capire nulla di questo paese se non ci si rende conto che le nostre istituzioni, costumi sociali, famiglie, strategie politiche e modi di vita sono profondamente influenzati dalla nostra tradizione luterana». A differenza degli europei, gli americani credono profondamente in Dio, si ritengono un popolo religioso, e un gran numero di essi frequenta le chiese. Se alla metà degli anni Ottanta non c'era alcun segno di rinascita della religione in America, il decennio successivo ha invece registrato un 'intensificazione della fede religiosa. L'erosione del cristianesimo tra gli occidentali appare nella peggiore delle ipotesi una minaccia estremamente remota alla prosperità della civiltà occidentale.
Ben più immediata e pericolosa per gli Stati Uniti è invece un'altra minaccia. Storicamente, l'identità nazionale americana è stata definita culturalmente dal patrimonio della civiltà occidentale e politicamente dai principi della dottrina americana cui la maggioranza del popolo aderiva: libertà, democrazia, individualismo, uguaglianza dinanzi alla legge, costituzionalismo, proprietà privata. Alla fine del xx secolo, entrambe le componenti dell'identità americana sono state sottoposte a un massiccio e sostenuto attacco da parte di un ridotto ma influente gruppo di intellettuali e pubblicisti. In nome del pluralismo culturale essi hanno attaccato l'identificazione degli Stati Uniti con la civiltà occidentale, negato l'esistenza di una comune cultura americana e promosso lo sviluppo di gruppi ed identità razziali, etniche e particolaristiche in generale. Hanno denunciato, secondo le parole di uno di loro, il «sistematico pregiudizio a favore della cultura europea e dei suoi derivati» in campo pedagogico e «il dominio della visione monoculturale euro-americana». I fautori del pluralismo culturale sono, come ha affermato Arthur M. Schlesinger Jr. «molto spesso dei separatisti etnocentrici i quali nella tradizione occidentale non vedono altro che i crimini perpetrati dall'Occidente». La loro «inclinazione è quella dì affrancare gli americani dalla peccaminosa tradizione europea e di cercare redentive infusioni di culture non occidentali».
Questa tendenza multiculturale si manifestò anche in una serie dì atti legislativi susseguenti alle leggi sui diritti civili degli anni Sessanta, e negli anni Novanta l'amministrazione Clinton ha fatto dell'incoraggiamento alla diversità uno dei suoi slogan principali. Il contrasto rispetto al passato è quanto mai stridente. I Padri fondatori considerarono la diversità una realtà di fatto e un problema, da cui il motto nazionale e pluribus unum, scelto da un comitato del Congresso continentale costituito da Benjamin Franklin, Thomas Jefferson e John Adams. Successivi leader politici anch'essi timorosi dei pericoli insiti nella diversità razziale, etnica, economica e culturale (che, di fatto, produssero la più grande guerra del secolo che va dal 1815 al 1914), risposero all'appello all' «unificazione» e fecero della promozione dell'unità nazionale il loro principale obiettivo. «L'unico modo assolutamente sicuro di portare la nazione allo sfascio, di negarle qualsiasi possibilità di continuare a esistere come nazione», ammonì Theodore Roosevelt, «sarebbe quello di permetterle di diventare un coacervo di litigiose nazionalità». Negli anni Novanta, tuttavia, i governanti degli Stati Uniti non solo hanno permesso che ciò accadesse, ma hanno addirittura assiduamente incoraggiato la diversità, anziché l'unità, del popolo da essi governato.
I leader di altri paesi hanno a volte tentato, come abbiamo visto, di disconoscere il patrimonio culturale del proprio paese e di assumere l'identità di un'altra civiltà. Fino a oggi hanno sempre fallito, riuscendo a creare soltanto dei paesi divisi e schizofrenici. Allo stesso modo, i fautori americani del pluralismo culturale rifiutano il patrimonio di civiltà del proprio paese, ma anziché tentare di identificare gli Stati Uniti con un'altra civiltà, essi desiderano creare un paese composto da più civiltà, vale a dire un paese che non appartiene a nessuna civiltà e privo di un suo nucleo culturale costitutivo. La storia dimostra che nessuna nazione così costruita può durare a lungo come società coesa. Se gli Stati Uniti diventassero un paese costituito da più civiltà, non sarebbero più gli Stati Uniti, bensì le Nazioni Unite.
3) La diversità di culture e civiltà contrasta con la certezza occidentale – e americana in particolare – della rilevanza universale della cultura occidentale. Una certezza espressa sia al livello espositivo sia normativo. Nel primo caso, sostiene che le popolazioni di tutte le società desiderano adottare valori, istituzioni e pratiche occidentali. Laddove sembrano non manifestare questo desiderio e restare fedeli alle proprie culture tradizionali, essi sono vittime di una falsa coscienza paragonabile a quella rilevata dai marxisti tra i proletari che sostenevano il capitalismo. A livello normativo, il credo universalista occidentale afferma che i popoli di tutto il mondo dovrebbero abbracciare cultura, valori e istituzioni occidentali perché essi rappresentano la forma di pensiero più alta , più illuminata, più liberale, più razionale, più moderna e più civile di tutta l'umanità.
Nell'emergente mondo di conflittualità etnica e di scontri tra civiltà, la fede occidentale nella validità universale della propria cultura ha tre difetti: è falsa, è immorale, è pericolosa. La sua non veridicità costituisce la tesi centrale di questo libro, una tesi ben riassunta da Michael Howard: «la diffusa convinzione occidentale secondo cui la diversità culturale sia una curiosità della storia sempre più velocemente erosa dallo sviluppo di una comune cultura mondiale anglofona ed orientata a Occidente, che modella tutti i nostri valori di fondo... è semplicemente infondata». Chiunque non sia ancora convinto della saggezza delle osservazioni di sir Michael vive in un mondo completamente estraneo a quello descritto in questo libro.
La convinzione che i popoli non occidentali dovrebbero adottare cultura, valori e istituzioni occidentali è immorale per le conseguenze che essa implicherebbe. Il dominio quasi universale del potere europeo nel tardo Ottocento e quello planetario degli Stati Uniti nel tardo Novecento hanno diffuso moltissimi aspetti della civiltà occidentale in tutto il mondo. L'universalismo europeo, tuttavia, non esiste più. L'egemonia americana si sia riducendo, se non altro perché non più necessaria, a proteggere gli Stati Uniti da una minaccia militare sovietica. La cultura, come abbiamo già detto, segue il potere. Se le società non occidentali torneranno un giorno ad essere modellate sulla cultura occidentale, ciò accadrà solo come conseguenza di un'espansione e dispiegamento del potere occidentale. L'imperialismo è l'inevitabile corollario dell'universalismo. Inoltre, in quanto civiltà matura l'Occidente non ha più il dinamismo economico o demografico necessario per imporre la propria volontà ad altre società, senza contare che qualsiasi tentativo in tal senso è contrario ai valori occidentali di autodeterminazione e democrazia. Via via che la civiltà asiatica e quella mussulmana inizieranno ad affermare con sempre maggior forza il carattere universale delle proprie culture, gli occidentali finiranno col rendersi conto sempre più chiaramente del rapporto che esiste tra universalismo e imperialismo.
L'universalismo occidentale, infine, è pericoloso per il mondo perché potrebbe portare ad una grande guerra tra stati guida di civiltà diverse ed è pericoloso per l'Occidente perché da questa guerra potrebbe uscire sconfitto. Con il crollo dell'Unione Sovietica, gli occidentali vedono la propria civiltà in una posizione di incontrastato dominio, mentre le società asiatiche, musulmane e altre, oggi più deboli, stanno iniziando ad acquisire forza, e potrebbero dunque essere indotte ad applicare la logica di Bruto:
Le legioni son più che al completo,
la nostra causa matura.
Il nemico ogni giorno s'ingrandisce;
noi, giunti all'apice, siamo avviati al declino.
C'è negli affari degli uomini un flusso riflusso di marea,
presa al suo apice, conduce alla fortuna
intermessa, tutto il viaggio della vita umana
è costretto in secche e in pene.
Sopra un simile gondio mare noi ora galleggiamo ,
e dobbiamo prendere la corrente quando giova,
o perdere il carico che abbiamo rischiato
Questa logica, tuttavia, causò la sconfitta di Bruto a Filippo, e per l'Occidente sarebbe prudente non tentare di arrestare il processo di mutamento degli equilibri di potere ma di imparare a navigare nelle secche, patire le pene, moderare i carichi e salvaguardare la propria cultura.
Tutte le civiltà attraversano processi simili di nascita, espansione e declino. L'Occidente si differenzia dalle altre civiltà non per il modo in cui si è sviluppato, ma per la peculiarità dei propri valori e delle proprie istituzioni. Queste comprendono in particolare il cristianesimo, il pluralismo, l'individualismo e lo stato di diritto, che ha permesso all'Occidente di inventare la modernità, espandersi in tutto il mondo e suscitare l'invidia di altre società. Nel loro complesso queste caratteristiche sono peculiari dell'Occidente. L'Europa, ha affermato Arthur M. Schlesinger Jr., è «la fonte, l'unica fonte» degli «ideali di libertà individuale, democrazia politica, stato di diritto, diritti umani, libertà culturale... Tutti questi sono ideali europei, non asiatici, africani, né mediorientali, se non per adozione». Essi fanno della civiltà occidentale qualcosa di unico e la rendono dunque importante non perché universale ma perché unica. La principale responsabilità dei leader occidentali, dunque, non è tentare di rimodellare altre civiltà a immagine e somiglianza dell'Occidente – cosa che va al di là delle loro sempre più ridotte capacità – bensì preservare, proteggere e rinnovare le qualità peculiari della civiltà occidentale. Essendo il più potente tra i paesi occidentali, questa responsabilità ricade in grandissima parte sugli Stati Uniti d'America.