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Il gioco letterario - Paolo Vita Finzi e Umberto Eco





lunedì 08 marzo 2010 legge Alessandro Castellari
Scriveva Geoge Bataille: “È chiaro che il mondo è puramente parodico, ossia che ogni cosa che si guarda è la parodia di un'altra, oppure la stessa cosa in forma deludente”.
Senza arrivare a questa “ontologia della parodia” e attenendoci alla semplice fenomenologia letteraria, si può dire che i plagi, i furti, le citazioni appartengono alla letteratura in barba a tutti i Copyrights che si sono succeduti dal 1709 in poi.
Questa serata della “Bottega” è dedicata all'aspetto ludico della letteratura, alla sua dimensione nobilmente parassitaria: prenderemo in esame, attraverso alcuni gustosi esempi, un aspetto (fra i tanti) della falsificazione, quello del “falso perverso”. Leggeremo Marino Moretti, Luigi Pirandello, Giovanni Pascoli, Guido Gozzano attraverso la Letteratura apocrifa di Paolo Vita Finzi, e Vladimir Nabokov attraverso il Diario minimo di Umberto Eco.


Paolo Vita Finzi, Antologia apocrifa, Roma: Formiggini 1933, Milano:Ceschina 1961

MARINO MORETTI
POESIA SENZA TITOLO
In un vagone di seconda classe, sul percorso Forlì –Savignano di Romagna, abbiamo avuto la fortuna di trovare, dimenticata sul sedile, la seguente poesia scritta col lapis:
I.
Piove. È mercoledì. Siamo a Cesena,
dov'è Marino, il piccolo Marino
(oh, quarant'anni, quarantuno, appena...)
Piove. Seduto innanzi al tavolino,
cauto poggiando su la carta suga,
Marino scrive (lui così piccino!).
Piove. Marino, or sì or no, corruga
la fronte e succhia l'esile asticciuola
nella stanza che odora di lattuga.
Che scrive? Un penso? Un compito di scuola?
Una versione? un lungo svolgimento?
(canta una donna nel tinello, sola).
No. Troppo attento è il bimbo, troppo attento
alla cannuccia, al foglio, alla scrittura
perché si tratti d'un componimento!
No: non la tema della bocciatura
fa trepido il fanciullo! Le severe
maestre ormai non gli fan più paura...
Ma sa che molti, nelle quete sere,
nei pomeriggi torpidi e indolenti
leggeran quel che ha scritto, sul Corriere.
Perciò ci mette i soliti ingredienti
(un po' di suore, un po' di fraticelli,
vecchie zie, professori, ripetenti...)
Son questi i personaggi dei più belli
fra i suoi racconti! Sarte, maestrine,
monache, cordons bleu, sposi novelli,
canzonettiste, vecchie signorine,
sale d'aspetto, tristi parlatorî,
parroci, fisarmoniche, beghine;
caffè concerto, cari ai suoi lettori,
linde cucine, care alle lettrici,
tegami lustri, magri convittori,
cani randagi, scialbe convittrici...
II.
Buone, in fila, così, come educande
escono due per due le sue novelle
(ei scrive adagio, sopra il foglio grande...)
L'ultime sono forse meno belle,
un po' fiacche, un po' vuote, un poco stente,
ma gli piaccion di più: come orfanelle!
Orfanelle che van dimessamente,
che sembran figlie d'un poeta implume,
d'uno scrittore senza la patente...
E mentre scrive sotto il blando lume
pensa ai buoni lettori provinciali
che compreranno il prossimo volume.
I suoi non son lettori dozzinali:
c'è l'ingegnere, il parroco, il prefetto,
la levatrice, il circolo ufficiali...
C'è chi sa a mente tutto un poemetto
(intero!) e al club dei «Bolognesi invece»
lo declama, così: come di getto.
Vendendo tutto il dì farina o cece
il droghiere rimastica la trama
d'una novella che lo soddisfece.
«Lei senza dote... e c'è quella madama,
quella francese... Ma la normalista
sa che Pericle è suo: ch'egli non l'ama...»
«Per me la fine è troppo pessimista»
dice il pretore; ma, da uomo pratico,
scuote la testa il grave farmacista.
«Ah, scrive bene! Dio, quant'è simpatico!»
sospiran le fanciulle: e da Cesena
giunge il loro sospiro a Cesenatico...
Quante fanciulle! quanta chiusa pena!
L'una ha viaggiato: è un'anima che sogna;
l'altra è rimasta: è un'anima serena.
Questa rimase all'umile bisogna,
quella fu a Lugo (il padre ha il permanente),
a Forlì, a Reggio, a Modena, a Bologna...
E vuol Marino: il suo Marino, o niente.
III.
Così talvolta il piccolo Marino
(mentre la vecchia zia di Bagnarola
s'appisola sul Resto del Carlino)
morde distratto l'esile asticciuola
e, tralasciando i cento temi svolti,
sogna l'amor, dimentica la scuola.
Rievocando dolci, amati volti,
le Zelinde, le Róssole, le Guende,
Marino sfrena i sogni suoi sepolti.
Oh, abbandonare l'umili vicende
d'ogni giorno! Non più gioco dell'oca,
non più tombole, compiti, merende...
Non più furtive visite alla cuoca
che ha sedici anni, e, innanzi alla padella,
non nega un breve bacio a chi l'invoca!
No: un'altra vita, avventurosa e bella,
un infinito andar pel vasto mondo,
fino a Faenza, fino a Brisighella!
Essere forte, libero e giocondo,
arrivare ogni giorno più lontano,
come l'allegro zingaro errabondo...
Talor così fantasticando invano
la sua mente di bimbo si trastulla,
che non vide al di là di Savignano.
Ma è vano sogno d'anima fanciulla,
e, desto, egli ben sa che il suo destino
una fata segnò fin dalla culla.
Chiacchierar col pacifico vicino,
far la partita al parroco, e al pretore
mostrare l'aritmetica o il latino;
mentre tedioso il pingue agrimensore
espone i suoi pensieri sulla vita
e sulle donne al mite professore...
Triste esistenza, e sola, e inacidita!
Solo si può, per alleviar la pena,
scrivere poesie con la matita:
versi ch'abbian la lenta cantilena
d'un organino tisico ed asmatico
sotto il piovoso cielo di Cesena,
nelle consuete vie di Cesenatico...

LUIGI PIRANDELLO
LA DONNA DAL FIORE AL NASO
Un brufolino...
Che cos'è, in fondo, un brufolino? Un'escrescenza minuscola: un puntino rosso con un puntino bianco in cima. Cosa, davvero, da non preoccuparsene più che tanto.
Né, in circostanze normali, il prof. Saro Lapápera si sarebbe preoccupato minimamente di quel bitorzolino sul naso della sua fidanzata Tuzza. Anzi! Fresco dei suoi studi filologici, che gli avevano valso, per i lavori scientifici profondi, pregiatissimi, la libera docenza all'Università di Messina, si sarebbe compiaciuto nel fare una breve digressioncina etimologica, di quelle che lasciavano tutti incantati - ma sì, a bocca aperta! - nel salotto della baronessa Micciché-Cassarà, intesa la Colonnella.
— Brufolino! Così dite voi, signore gentilissime! Ma il vero nome di codesta importuna escrescenza, che è poi una volgare glandoletta sebacea, il nome scientifico sarebbe — ma sì! — comedone, da cum edere, mangiare... E perché? Ma perché gli antichi credevano si trattasse della testolina di un vermiciattolo roditore! E guardate: i tedeschi, grazie alla loro lingua flessibile, atta a foggiare parole composte, hanno tradotto pari pari: Mitesser... Eh, ci sarebbero da fare dei confronti curiosi... Anch'io, modestamente e di sfuggita — si sa! — ne ho trattato, nella mia tesi di Halle: Laute und Lautentwicklung der Mundart von Montelusa...
Così avrebbe detto il prof. Lapápera, aggiustandosi il sellino delle lenti d'oro sul naso, o le staffe dietro le orecchie, e agitando vezzosamente le mani calzate di filo di Scozia; ammiratissimo, come sempre, dalla baronessa, dal baronello, da tutte quelle brave signore, ancora restie a capacitarsi che una simile perla di marito fosse toccato a Tuzzidda: brava ragazza, se vogliamo, ma un po' - come dire? - un po' incantata, ecco.
E va bene.
Ma questo — badiamo! — questo avrebbe detto, sorridendo, il prof. Saro Lapápera in condizioni normali: vale a dire, se quella meschinissima escrescenza si fosse limitata a deturpare - momentaneamente, certo, momentaneamente! - il visino di Tuzza. Né, di sicuro, il suo amore, amore caldo, rugghiante, sarebbe diminuito. Che anzi avrebbe raddoppiato di cure, d'attenzioni perché Tuzza superasse il leggiero avvilimento che in una bella donna produce per forza l'eclissi (momentanea, va bene; ma per questo appunto diciamo eclissi!) della sua bellezza.
Già. Ma poteva il prof. Lapápera immaginare che uno straccioncello di stafilococco - disoccupato, se vogliamo - si sarebbe annidato in quel porretto insignificante, trasformandolo, pochi giorni dopo le nozze, in un foruncolo di prima qualità, rosso e fiammante come un vulcano! E che - qui viene il peggio! - e che il destino burlone e maligno sarebbe riuscito, per l'irritazione spasimosa, per il rodio causato da quel fiore di nuovo genere, a rendere Tuzzidda un'altra!
Un'altra, sicuro! Questo tiro, quest'infamia gli aveva preparato il Destino burlone: e d'un casetto comico aveva fatto, per lui, una tragedia. Perché la vita è come un'erma bifronte, che da una parte ride, e piange dall'altra: ed anzi piange proprio — badiamo! — del riso della parte opposta.
- Ah sì? — aveva detto il destino a questo suo fantoccetto buffo, Saro Lapápera, libero docente e filologo - ah sì, tu credi che Tuzza sia una? Ma una, nessuna, centomila è! Una oggi e un'altra domani! Perché ammetterai, bello mio, che essa è una - va bene - per te, qua, che ne sei innamorato cotto; ma un'altra, anche, per il baronello Cecè, laggiù, che la vede con tutt'altri occhi. E dunque, perché ribellarti a un nuovo sdoppiamento? La dolce signorina Tuzza, fidanzata esemplare; e questa virago col bitorzolino fiammeggiante, spettinata, in ciabatte, che agita la scopa e batte - sissignori, batte: col manico! - il suo caro sposo! La signorina Tuzza: una e due.
*
Come s'è ridotto, in due sole settimane, Saro Lapápera, povero fantoccetto del destino! Gli abiti strappati, i guanti di filo bucati, le gotine scrostate, la boccuccia piangente... Una pietà! Ma ancora il destino burlone non è contento: le buffe giravolte del pagliaccetto non sono finite.
Filologo? Ma anche filosofo è il prof. Lapápera, addottorato in filosofia in Germania, con una tesi sul solipsismo berkeleyano. E se potesse parlare, mentre che - guardatelo! - il pianto gli fa groppo alla gola, ed egli se lo tira su dal naso, adagio, mestissimamente; se potesse parlare, spiegherebbe con acconcie parole il suo caso pietosissimo, griderebbe la ragione profonda della sua sventura, a tutti, a tutti; anche alle signorine, al baronello, alla Colonnella - e perché no? - a tutti gli assidui di casa Micciché-Cassarà!
— Noi non viviamo, signori miei! Noi ci costruiamo; ci caliamo in una forma, prendiamo una maschera (involontariamente, magari; badiamo! involontariamente) oppure son gli altri ad imporcela — ma sì — e noi non ce ne accorgiamo... Prigionieri, prigionieri, signori miei! prigionieri di quel che abbiamo fatto e di quel che gli altri han fatto; dei loro costumi, della nostra fortuna, della nostra e altrui mentalità... Ma ogni forma è una morte, e chi la raggiunge comincia a morire, benché non si conosca per morto e creda d'esser vivo: e tanto più — figurarsi! — sarà morto, una volta che si sia conosciuto, una volta che il destino burlone gli abbia strappato... Che cosa? Ma la maschera, santo Dio, la maschera! E gli abbia mostrato, allo specchio, quel che veramente è: la sua realtà! Realtà di oggi, del resto, che può riscoprirglisi falsa domani...
Questo avrebbe detto. Ma l'avrebbero capito? Avrebbero capito come la sua sposa avesse potuto mutare di tanto, d'un subito — da così a così! — per un volgarissimo, passeggero offuscamento della sua bellezza? Certo, se l'avessero vista, durante le frequentissime scenate domestiche, così discinta, così sciamannata, ancora coi diavolini di carta fra i capelli, e quel naso fiammeggiante, a urlare parolacce da trivio... oh, allora avrebbero compreso che l'altra Tuzza, la Tuzza numero uno era morta... o almeno lontana, così lontana, così vaga nel ricordo da non potersi nemmeno pensare - ma che! ma che! - a un suo ritorno...
E che volete di più? Lei stessa, lei, Tuzzidda, non si riconosce più. Che non solo è mutato il suo viso, ormai - e s'intende - irriconoscibile davvero, dopo quel leggiadro fiorellino che il destino maligno le ha seminato sul naso, e che pare ci provi gusto a fiorire più gagliardo che mai; ma tutto, tutto, santo Dio! : gli atti, la voce, il contegno. Insieme al fiorellino, sembra che il destino burlone le abbia fatto il dono - intermittente, se vogliamo - di uno specchio: di uno specchio dell'anima, badiamo! E capisce, finalmente, Tuzzidda, che gli altri vedono in lei una lei che non è lei, ma che solo gli altri possono conoscere, vedendola con occhi che non sono i suoi, bensì i loro e che perciò le danno - a lei! - un aspetto destinato a restarle per sempre estraneo, pur essendo suo, di lei, - ma un suo che non è per lei, una vita che pur essendo la sua, non è la sua, cioè è la sua per loro - non per lei! E come, innanzi allo specchio di cristallo, stravolta, piangente, ella grida: - Come? Così? Questa sono io? Questi sono i miei occhi? Questo è il mio naso? San Francescuccio di Padova! con questo fiorellino in cima?... - così, così, non diversamente grida, scoprendosi talvolta in un atto sguaiato, in un'espressione sconcia, volgare: - Questa? Questa sono io? E chi l'ha fatta così, questa donna che figura me? Chi la fa muovere e parlare così? Ma quando mai...
Già. Ma Tuzza allo specchio, per sua fortuna, si vede di rado. E di solito s'immagina d'avere ancora quella maschera d'aggraziata fanciulla che il foruncoletto, spingi e spingi, le ha fatto cadere. Ma suo marito, ormai, così la vede sempre: senza maschera, nella sua miseria e nudità morale. Cose da pazzi!
E cerca, Saro, un rifugio nel bere.
Fa male? Ma signori miei, bisognerebbe comprendere prima di condannare. Quella verità, quell'orrida verità simboleggiata dal fiorellino rosso, ecco qua: sparisce, dilegua, per un dito di vino — rosso anche lui. E dunque non è verità, o è verità anche quest'altra, che dipinge al povero Saro una Tuzza amabile e bella; e anzi è tanto vera, questa verità numero due, che corrisponde alla verità di prima - di prima del fiorellino. Ma svanisce presto, purtroppo, questa verità enologica; e ne resta un gran mal di testa e un arrossamento alla punta del naso, che quasi quasi...
No, no! Meglio, meglio, come distrazione, la lettura!
Chiuso nella sua camera, in maniche di camicia, con la barba irta, raschiosa, di tre giorni, il prof. Lapápera legge, un volume dopo l'altro, instancabilmente, la Bibbia, i Cinque Codici, le Mille e una Notte, l'Enciclopedia Britannica, le Novelle per un anno: tuttavia, attento a non ridere, a non commuoversi, non dare in certe sue esclamazioni celerissime: - Bello! bello! bello! bello! - di gioia per i tratti di squisita proprietà, o d'efficacia rappresentativa, o d'umorismo fine, delicato, che incontra leggendo. Perché anche questo dà ai nervi a sua moglie: egli teme di vederla comparire, brutta, ridicola, in ciabatte, col naso in fiamme e i capelli incartocciati, a minacciarlo col della scopa:
- Ah, tu ridi? -
*
E anche la questione del Cimitero...
Già. Perché il professore abita ora in un casalino che dà - ma sì, che c'è di male? - sul Cimitero. Non è una vista allegra? Ma, santo Dio, se vi paion allegre le strade di Montelusa, sporche, sconnesse, sparse di buche, coi porcellini e i bambini che vi grufolano insieme, tra i piedi dei passanti inzaccherati... E invece al casalino - si potrebbe anche chiamarlo villino, pulito, grazioso com'è - al casalino, ecco qua: luce, aria e, aperte le finestre, la vista d'un bel giardinetto verde, con tanti fiori, ben tenuto, ornato di marmi. E tutt'intorno, campagna.
Però, dice, è il Cimitero... Ebbene? Ma dieci volte meglio, signori miei, godere la quiete dei poveri morti piuttosto che soffrire la vicinanza dei vivi e udire le loro vane, meschine querele.
Eppure Tuzza da quest'orecchio non ci sente.
- Villino? Bel villino! Pezzo di somaro! Sul Camposanto...
E il prof. Lapápera, sbuffando, deve cercar rifugio al Caffè Pedoca, giù in paese, tra i soliti sfaccendati, che l'esortano a non crucciarsi, a non buttarsi giù - lui che era antenna di bandiera! - perché le donne si sa come sono, santo diavolone...!
Oppure s'inerpica sino al Palazzo Vescovile, da Mons. Caltanissetta, che lo conosce da tanti anni, e lo conforta con la sua squisita bontà:
-Donne... Eh, si sa, donne... Pazienza, Saro, pazienza! Il dolore ti salva, figliuolo!
*
Pure, se la signora Lapápera ha doppio volto; e se si è mostrata, dopo il matrimonio e dopo quel bitorzolo maledetto, la Tuzza sgarbata e impresentabile che sappiamo, perché mai ora, scomparsa quella noiosa appendice - non si sa per virtù delle cartine di zolfo o delle fervide preci al patrono San Gerlando, protettore di Montelusa - perché mai ora non ritorna la dolce Tuzzidda, fidanzata esemplare: la Tuzzidda buona e ingenua di prima?
Mah! Fors'anche è così: fors'anche ella è ritornata amabile e dolce. Ma Tuzza non può far sì che il fatto sia come non fatto; e che non resti, quel che ha fatto, come una prigione per lei, che l'avviluppa con spire e tentacoli; e che non rimanga, di lei, nell'opinione di tutti, una... come dire? una metafora, ecco, una fittizia interpretazione del suo io che è, invece, un altro, che non ha nulla a che vedere con lei: con quella lei, voglio dire, che tutti conoscono, non con quell'altra lei che a noi - ed anche a lei, ora! - è purtroppo ignota... E ormai Saro non la vede più se non colla realtà, colla falsa e pur vera realtà che gli eventi sciagurati le hanno dato, col volto deturpato, e l'animo bisbetico di questi ultimi mesi: prigioniera, sì, prigioniera di quella forma non sua, ma che la rappresenta quale essa è, ora, per lui; attaccata a quel brufolino, agganciata, inchiodata, sospesa per l'eternità — là, alla gogna! - a un disgraziato momento - ma sì, un momento, in fondo, anche s'è durato un anno - della sua esistenza! « Ma questa è perfidia!» Eh, sì, signora Tuzza, forse è perfidia, atroce ingiustizia, anzi! Ma certo perfidia, ingiustizia involontaria. Così egli vi vede ormai: e che farci? Distrarsi, forse; pensare - che so io? - immergersi, sprofondarsi, annegarsi nella certezza d'una realtà di vita altrove, diversa, lontana, da contrapporre alla realtà presente che vi opprime. Così faceva anche vostro marito, signora Tuzza, durante la vostra - chiamiamola così - malattia: e pensava intensamente, con la testa fra le mani... a che cosa? Ma alla Luna, per esempio; gelida, spenta, incantata, con quei suoi mari dai nomi strani: Mare tranquillitatis, mare serenitatis...
— ...O alle stelline, lassù, nel cielo: che sembran così piccole e pure sono sì grandi: perché noi uomini siamo dannati alla di vedere grandi, grandissime le cose piccole, qua, dalla terra, e, piccole, piccolissime le cose grandi, là, del cielo; vedere, ad esempio, grandissimo quel famoso brufolino e quei dispiaceri che ne son derivati... Cose, davvero, ben piccole se paragonate a questo roteare infinito di mondi.
*
Già. Ma la signora Tuzza non ha un'anima filosofica. Queste consolazioni non le giovano. E poiché, malgrado ella sia tornata la Tuzza numero uno, suo marito persiste a vederla agganciata, sospesa, fissata per l'eternità a quel bitorzolo, a quel momento vergognoso della sua vita; e poiché non la guarda nemmeno più, rintanato nella sua camera, spettinato, colla barba lunga di quattro giorni, a leggere - che so io? - il XVII o XVIII volume delle Novelle per un anno, ella ha trovato il rimedio. O le sembra.
Veramente le dispiace di finir tutto così, ora che il suo volto è di nuovo grazioso e la sua animuccia gentile; e si attarda, con dolce mestizia, a rimirarsi nello specchio, a incipriarsi un poco...
Via, via, pagliacciate!
Un tonfo breve, sordo. Ed eccola arrivata.
Giace — un po' scomposta, se vogliamo — in uno dei vialetti del Cimitero, così ben inghiaiati, così carini: un giardinetto! Arriva gente, trafelata, urlando. E la larga faccia della luna, sorta appena dal folto dei cipressi, lassù, sembra riaccenderle, illuminandola, quel bizzarro fiorellino rosso sul naso...
Cos'è un brufolino, in fondo? Un punto rosso, con un puntino bianco in cima.
E cos'è, ora, Tuzzidda? Una macchia sul bianco del vialetto, rischiarato dalla luna.
E quella gente, per così poco, tutto quel baccano...

GIOVANNI PASCOLI
LE CARAMELLE
Oggi ho impastato le caramelle,
le caramelle d'erba trastulla:
gocce di miele, raggi di stelle,
lievi che sembran fatte di nulla.
Colto ho le bacche sulla pendice
presso la Torre, del rivo a specchio;
tratto ho la scorza dalle myricae
nei praticelli di Castelvecchio.
D'ogni sapore, d'ogni profumo,
ho messo un poco, senza far torti:
polpa di pesche, spire di fumo,
voci di bimbi, brusìo degli orti.
E v'ho mischiato rose e mortella,
zirli di tordi, fiocchi di neve,
l'erica, il vischio, la pimpinella
e il blando e uguale suon della pieve.
Poi con lo zucchero sciolto nel pianto
coperto ho il nòcciolo d'ogni pastiglia:
le asciuga il vento del Camposanto
che fra i cipressi freme e bisbiglia.
Mentre singhiozza da presso il rivo
fra il gracidare delle ranelle,
dolce è il mio piangere senza motivo
assaporando le caramelle.
Volete ribes, menta, lampone,
gusto di fragola, gusto d'arancia?
Son dolci e acidule quelle al limone
come le lacrime lungo la guancia.
C'è la cedrina, ci son le more,
c'è l'amarena, c'è il ratafià:
e chi le succhia sente nel cuore
una dolente felicità.
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LE CIARAMELLE DI GIOVANNI PASCOLI
(IL TESTO ORIGINALE)

Udii tra il sonno le ciaramelle,
ho udito un suono di ninne nanne.
Ci sono in cielo tutte le stelle,
ci sono i lumi nelle capanne.
Sono venute dai monti oscuri
le ciaramelle senza dir niente;
hanno destata ne' suoi tuguri
tutta la buona povera gente.
Ognuno è sorto dal suo giaciglio;
accende il lume sotto la trave;
sanno quei lumi d'ombra e sbadiglio,
di cauti passi, di voce grave.
Le pie lucerne brillano intorno,
là nella casa, qua su la siepe:
sembra la terra, prima di giorno,
un piccoletto grande presepe.
Nel cielo azzurro tutte le stelle
paion restare come in attesa;
ed ecco alzare le ciaramelle
il loro dolce suono di chiesa;
suono di chiesa, suono di chiostro,
suono di casa, suono di culla,
suono di mamma, suono del nostro
dolce e passato pianger di nulla.
O ciaramelle degli anni primi,
d'avanti il giorno, d'avanti il vero,
or che le stelle son là sublimi,
conscie del nostro breve mistero;
che non ancora si pensa al pane,
che non ancora s'accende il fuoco;
prima del grido delle campane
fateci dunque piangere un poco.
Non più di nulla, sì di qualcosa,
di tante cose! Ma il cuor lo vuole,
quel pianto grande che poi riposa,
quel gran dolore che poi non duole;
sopra le nuove pene sue vere
vuol quei singulti senza ragione:
sul suo martòro, sul suo piacere,
vuol quelle antiche lagrime buone!
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GUIDO GOZZANO
LA PRONIPOTE DI NONNA SPERANZA
I.
Il living-room col balcone, i quadri a stracci di Burri,
il muro a rettangoli azzurri con qualche trapezio arancione,
l'irta scultura in lamiera che geme sbilenca a ogni passo,
il molto falso Picasso della seconda maniera,
la stampa barocca col cupio dissolvi fra teschi ed ossami,
gli sgabelletti un po' grami, le seggiole a semicupio,
le basse acquattate poltrone che sembrano strani batraci,
i nuovi libri un po' audaci nello scaffale d'ottone,
Miller... Genêt.. Peyrefitte... il bar dai liquori lucenti,
immobili sull'attenti come soldati in garitte,
la grassa esotica pianta ch'è tutta spine all'intorno...
Mio cuore, ritorno, ritorno nel milnovecentosessanta!
II.
Oggi alla sala in gran fretta irrompono i fratellini:
hanno sfilato il bikini d'una ridente ninfetta
e quel trofeo molto egregio mostrano fieri alla madre
che a tali imprese leggiadre li crebbe in eletto collegio.
Giunta è frattanto Lolita con la cugina Brigitta;
bella è ciascuna e diritta qual rosa appena fiorita.
Ha l'una florido il seno come l'attrice famosa
che in ogni plaga più ascosa acclamano e l'anglo e l'armeno.
Pubere appena da poco, più fine è l'altra e men bella:
forse in ardita novella l'avrebbe cantata Nabókov.
Riso di perla perfetto balena fra labbra d'arancia;
ombreggia la pallida guancia la chioma alla Mastro Geppetto
Entrambe il fiore più raro celano in fogge virili:
guizzano i glutei gentili nel pantalone corsaro.
Già parla tutto il paese del loro esame un po' strambo:
l'una è Regina del Mambo, e l'altra Miss Canavese.
Ecco, ora fanno le prove (nessuno a far chiasso s'arrischi):
le amiche provano in dischi un fascio di musiche nuove.
È l'onda che mai non stanca del fervido Novecento,
nel ritmo un po' vïolento di Presley e di Paul Anka.
Some like it hot
around the clock...
Wonderful guy
Like in Hawai...
Better the bali
with rock and roll...
Aquí ya está
el cha-cha-cha.
O musica! ritmo affannoso! Dagli aspri suoni trafitta
Pensa all'amore Brigitta, sogna Lolita lo sposo.
III.
«A quando il divorzio nel Messico?» «Purtroppo è cosa lontana:
la moglie non scuce la grana» (assai forbito è il suo lessico).
«E quel regista?» «È un insonne, un genio vigile e scaltro...»
«È bello?» «Non bello, tutt'altro. Gli piacciono poco le donne...»
«Ma il tuo?» «Se vedessi che bei doni!» «Maturo?» «Piuttosto».
«Piazzato?» «Spera in un posto dall'ingegnere Mattei...»
«Ieri mi ha fatto il provino» «A me ha promesso la villa»
«Come la notte scintilla! guarda che cielo divino...»
E benché ignori ciascuna il carme premiato a Stoccolma
volge, di sogni ricolma, lo sguardo alla candida luna.
O bianca diva splenetica, già non più casta e inviolata,
leggera in cielo ed arcata come la falce sovietica,
il sogno di tutto un futuro s'avvera, o mite Selene:
quando alle sterili arene verrà il turista in siluro?
Frattanto, mentre dai valchi tu baci pioppi e betulle,
sognan le vaghe fanciulle la gloria dei rotocalchi.
IV.
Lolita! Nome non brutto, ma un poco sofisticato,
che lasci in fondo al palato un gusto acerbo di frutto...
Forse Carlotta è più fine, ma ormai non ho preferenze,
né più rimpiango l'essenze, gli scialli, le crinoline.
Per chi lasciato ha la lotta e la caduca sembianza
Brigitta è come Speranza, Lolita vale Carlotta.
In parte non lieta né tetra ora pacato m'assido
e può riporre Cupido la sua dorata faretra.
Uguali per chi le terrene sue scorie per sempre deterse
son le ninfette perverse e le fanciulle dabbene.
Se curïoso un momento volli tornare alla soglia
fu molto breve la voglia e il desiderio è già spento.
Nulla terrestre od umano vale sì lungo vïaggio:
questo l'estremo messaggio che firma guidogozzano.


Umberto Eco, Diario minimo, Milano, Mondadori, 1963
NONITA
[Il presente manoscritto ci è stato consegnato dal guardiano capo delle carceri comunali di un paesino del Piemonte. Le notizie incerte che l'uomo ci diede sul misterioso prigioniero che lo abbandonò in una cella, la nebbia di cui è avvolta la sorte dello scrittore, una certa complessiva, inspiegabile reticenza di coloro che conobbero l'individuo che vergò queste pagine, ci inducono ad accontentarci di ciò che sappiamo come ci appaghiamo di quel che del manoscritto rimane - il resto roso dai topi - e in base al quale pensiamo che il lettore possa farsi un'idea della straordinaria vicenda di questo Umberto Umberto (ma non fu forse, il misterioso prigioniero, Vladimiro Nabokov paradossalmente profugo per le Langhe, e non mostra forse questo manoscritto l'antivolto del proteico immoralista?) e possa infine trarre da queste pagine quella che ne è la lezione nascosta - sotto le spoglie del libertinaggio una lezione di superiore moralità.]
Nonita. Fiore della mia adolescenza, angoscia delle mie notti. Potrò mai rivederti. Nonita. Nonita. Nonita. Tre sillabe, come una negazione fatta di dolcezza: No. Ni. Ta. Nonita che io possa ricordarti sinché la tua immagine non sarà tenebra e il tuo luogo sepolcro.
Mi chiamo Umberto Umberto. Quando accadde il fatto soccombevo arditamente al trionfo dell'adolescenza. A detta di chi mi conobbe, non di chi mi vede ora, lettore, smagrito in questa cella, coi primi segni di una barba profetica che mi indurisce le gote, a detta di chi mi conobbe allora ero un efebo valente, con quell'ombra di malinconia che penso di dovere ai cromosomi meridionali di un ascendente calabro. Le giovinette che conobbi mi concupivano con tutta la violenza del loro utero in fiore, facendo di me la tellurica angoscia delle loro notti. Delle fanciulle che conobbi poco ricordo, perché ero preda atroce di ben altra passione e i miei occhi sfioravano appena le loro gote dorate in controluce da una serica e trasparente peluria.
Amavo, amico lettore, e con la follia dei miei anni solerti, amavo coloro che tu chiameresti con svagato torpore "le vecchie". Desideravo dal più profondo intrico delle mie imberbi fibre quelle creature già segnate dai rigori di una età implacabile, piegate dal ritmo fatale degli ottant'anni, minate atrocemente dal fantasma desiderabile della senescenza. Per designare costoro, sconosciute ai più, dimenticate dalla indifferenza lubrica degli abituali usagers di friulane sode e venticinquenni, adoprerò, lettore - oppresso anche in questo dai rigurgiti di una impetuosa sapienza che mi atterrisce ogni gesto di innocenza che mai tenti - un termine che non dispero esatto: parchette.
Che dire, voi che mi giudicate (toi, hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère! ) della mattutina cacciagione che si offre nel padule di questo nostro mondo sotterraneo al callidissimo amatore di parchette! Voi che correte per i giardini pomeridiani alla caccia banale di giovinette appena tumescenti, cosa sapete della caccia sommessa, umbratile, ghignante che l'amatore di parchette può condurre sulle panchine dei vecchi giardini, nell'ombra odorosa delle basiliche, pei sentieri ghiaiosi dei cimiteri suburbani, nell'ora domenicale all'angolo degli ospizi, sulle porte degli asili notturni, nei filari salmodianti delle processioni patronali, alle pesche di beneficenza, in un amoroso serratissimo ahimè inesorabilmente casto agguato, per spiare dappresso quei volti scavati da vulcaniche rughe, quelle occhiaie acquose di cataratta, il vibratile moto delle labbra riarse, depresse nell'avvallamento squisito di una bocca sdentata, solcate talvolta da un rivolo lucente d'estasi salivare, quelle mani trionfanti di noduli, nervose nel tremolio lubrico e provocante dello sgranare una lentissima corona!
Potrò mai parteciparti, amico lettore, il languore disperato di quelle fuggevoli prede degli occhi, il fremito spasmodico di certi contatti labilissimi, un colpo di gomito nella ressa del tram ("Scusi signora, vuole sedersi?" Oh, satanico amico, come osavi raccogliere l'umido sguardo di riconoscenza e il "Grazie, buon giovine", tu che avresti voluto inscenare lì stesso la tua bacchica commedia del possesso?), lo sfiorare un ginocchio venerando strisciando, col tuo polpaccio, tra due file di sedie nella solitudine pomeridiana di un cinema rionale, lo stringere con tenerezza trattenuta - sporadico momento del più estremo contatto! - il braccio ossuto di una vegliarda che aiutavo ad attraversare il semaforo con aria contrita di giovane esploratore!
Le vicende della mia beffarda età mi inducevano ad altri incontri. Lo dissi, apparivo piuttosto affascinante, con le mie gote brune e un volto tenero di fanciulla oppressa da una morbida virilità. Non ignorai l'amore di adolescenti, ma lo subii, come un pedaggio alle ragioni dell'età. Ricordo che una sera di maggio, poco prima del tramonto, quando nel giardino di una villa gentilizia - era nel varesotto, non lontano dal lago rosso del sole che calava - giacqui nell'ombra di un cespuglio con una sedicenne implume tutta efelidi, presa in un impeto di amorosi sensi veramente sconfortante. E fu in quell'istante, mentre le concedevo svogliatamente l'ambito caduceo della mia pubere taumaturgia, che vidi, lettore, quasi indovinai da una finestra del primo piano, la sagoma di una decrepita nutrice piegata curvamente in due mentre si dipanava lungo la gamba l'ammasso informe di una nera calza di cotone. La vista fulgorante di quell'arto ingrossato, segnato di varici, accarezzato dal moto inabile delle vecchie mani intese a srotolare il groppo dell'indumento mi apparve (occhi miei concupiscenti!) come un atroce ed invidiabile simbolo fallico blandito da un gesto virginale: e fu in quell'attimo che, preso da un'estasi irrobustita dalla distanza, esplosi rantolando in un'effusione di biologici consensi che la fanciulla (improvvida ranocchietta, quanto ti odiai!) raccolse gemebonda come un tributo ai propri fascini acerbi.
Hai mai dunque compreso, stolido mio strumento di differita passione, che tu fruisti del cibo di un'altrui mensa, oppure la ottusa vanità dei tuoi anni incompiuti mi ti si presentò come un focoso indimenticabile peccaminoso complice? Partita con la famiglia il giorno appresso mi inviasti dopo una settimana una cartolina firmata "la tua vecchia amica". Intuisti la verità rivelandomi la tua perspicacia nell'uso accurato di quell'aggettivo, o fu la tua l'argotica bravata di una liceale in guerra con le filologiche creanze epistolari?
Come da allora fissai tremando ogni finestra nella speranza di vederne apparire la silhouette sfasciata di una ottuagenaria al bagno! Quante sere, seminascosto da un albero, consumai le mie solitarie deboscie, lo sguardo volto all'ombra profilata su di una tendina di un'ava soavissimamente intenta a un pasto biascicante! E l'orrida delusione, subitanea e folgoratrice (tiens, donc, le salaud!) della figura che si sottrae alla menzogna dell'ombre cinesi e si rivela al davanzale per quello che è, una ignuda ballerina dai seni turgidi e dalle anche ambrate di cavalla andalusa!
Così per mesi ed anni corsi insaziato alla caccia illusa di adorabili parchette, teso ad una ricerca che, lo so, traeva l'indistruttibile sua origine dal momento ch'io nacqui, ed una vecchia sdentata ostetrica - infruttuosa ricerca del padre mio che a quella ora di notte non fu capace di trovare altro che costei, un piede sull'orlo della fossa! - mi sottrasse alla prigionia vischiosa del grembo materno e mi mostrò alla luce della vita il suo volto immortale di jeune parque.
Non cerco giustificazioni per voi che mi leggete (à la guerre comme à la guerre), ma voglio almeno spiegarvi quanto fatale fosse stato il concorrere di eventi che mi portò a quella vittoria.
La festa cui ero stato invitato era uno squallido petting party di giovani indossatrici e impuberi universitari. La flessuosa lussuria di quelle giovinette invogliate, il negligente offrirsi dei loro seni da una blusa sbottonata nell'impeto di una figura di danza, mi disgustava. Già pensavo di lasciare di corsa quel luogo di banale commercio d'inguini ancora intatti, quando un suono acutissimo, quasi stridulo (e potrò mai esprimere la frequenza vertiginosa, il roco digradare delle corde vocali già spossate, l'allure suprème de ce cri centenaire?) un lamento tremulo di femmina vecchissima piombò nel silenzio l'accolta. E nel riquadro della porta vidi lei, il viso della lontana parca dello choc prenatale, segnato dall'entusiasmo spiovente della chioma canutamente lasciva, il corpo rattrappito che segnava di angoli acuti la stoffa dell'abituccio nero e liso, le gambe ormai esili piegate inesorabilmente ad arco, la linea fragile del femore suo vulnerabile profilata sotto il pudore antico della gonna veneranda.
La scipita giovinetta che ci ospitava ostentò un gesto di sopportata cortesia. Alzò gli occhi al ciclo e disse: "È mia nonna"...
[A questo punto termina la parte intatta del manoscritto. Da quel che è dato di inferire dalle linee sparse che se ne possono ancora leggere, la vicenda dovrebbe procedere come segue. Umberto Umberto rapisce dopo pochi giorni la nonna della sua ospite e fugge con lei, portandola sulla canna della bicicletta, verso il Piemonte. Dapprima la conduce in un ospizio di poveri vecchi, ove la notte la possiede, apprendendo fra l'altro che la vecchia non è alla sua prima esperienza. Sul far del giorno mentre sta fumando una sigaretta nella semi-oscurità del giardino, viene avvicinato da un giovinetto dall'aria ambigua che gli domanda sornionamente se la vecchia sia effettivamente sua nonna. Preoccupato lascia l'ospizio con Nonita ed inizia una vertiginosa peregrinazione per le strade del Piemonte. Visita la Fiera dei vini di Canelli, la Festa del Tartufo di Alba, prende parte alla sfilata di Gianduja a Caglianetto, al mercato del bestiame di Nizza Monferrato, all'elezione della Bella Mugnaia di Ivrea, alla corsa nei sacchi per la festa patronale di Condove. Al termine di questo folle peregrinare per l'immensità del paese che lo ospita, si accorge che da tempo la sua bicicletta è seguita sornionamente da un giovane esploratore in lambretta, che elude ogni appostamento. Il giorno in cui, ad Incisa Scapaccino, porta Nonita da un callista e si allontana un istante a comperare le sigarette, quando torna si trova abbandonato dalla vecchia, fuggita col rapitore. Passa alcuni mesi in una profonda disperazione, e finalmente ritrova la vegliarda, reduce da un istituto di bellezza dove è stata condotta dal seduttore. Il suo viso è privo di rughe, i capelli tinti di un biondo rame, la bocca rifiorita. Umberto Umberto è colto da un senso di abissale pietà e queta disperazione alla vista di tanto sfacelo. Senza dir motto acquista una doppietta e va alla ricerca dello sciagurato. Lo trova ad un campeggio mentre sta soffregando due legnetti per accendere il fuoco. Gli spara una, due, tre volte, sempre mancandolo, sinché non viene afferrato da due sacerdoti in basco nero e giacca di cuoio. Prontamente arrestato viene condannato a sei mesi per porto d'armi abusivo e caccia fuori stagione.]