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L’incendio di via Keplero - Carlo Emilio Gadda





lunedì 14 febbraio 2011 legge Magda Indiveri
Basta un incendio preso dalla cronaca, a un grande scrittore, perché uno spazio geometrico, un caseggiato milanese degli anni venti, diventi spazio narrativo: il condominio si scoperchia, e nella frenetica fuga lascia apparire tutto quel privato solitamente nascosto.
Allora si svelano casi pietosi o grotteschi, tresche e solitudini, come se il grande corpo mettesse a nudo le sue viscere. Il fuoco, che muove i personaggi spingendoli a cercare scampo, è l’elemento che immette dinamismo nella descrizione, trasformando la rassegna di antieroi in narrazione.
E’ questo il Carlo Emilio Gadda dei primi anni trenta: sta sperimentando il suo stile, la sua tenuta narrativa, ed è già grandissimo. Il fuoco del racconto è la letteratura stessa di Gadda, che svela, accompagna, trasforma e deforma la realtà: usciamo dai suoi “incendi”, milanesi, ispanici o romani che siano, con la dolorosa eppure vitale cognizione della complessità.



Carlo Emilio Gadda, “L’incendio di via Keplero”, in Accoppiamenti giudiziosi, Milano, Garzanti, 1963Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14. Ma la verità è che neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli riuscì fatto al fuoco: che ne disprigionò fuori a un tratto tutte le donne che ci abitavano seminude nel ferragosto e la lor prole globale, fuor dal tanfo e dallo spavento repentino della casa, poi diversi maschi, poi alcune signore povere e al dir d’ognuno alquanto malandate in gamba, che apparvero ossute e bianche e spettinate, in sottane bianche di pizzo, anzi che nere e composte come al solito verso la chiesa, poi alcuni signori un po’ rattoppati pure loro, poi Anacarsi Rotunno, il poeta italo-americano, poi la domestica del garibaldino agonizzante del quinto piano, poi l’Achille con la bambina e il pappagallo, poi il Balossi in mutande con in braccio la Carpioni, anzi mi sbaglio, la Maldifassi, che pareva che il diavolo fosse dietro a spennarla, da tanto che la strillava anche lei. Poi, finalmente, fra persistenti urla, angosce, lacrime, bambini, gridi e strazianti richiami e atterraggi di fortuna e fagotti di roba buttati a salvazione giù dalle finestre, quando già si sentivano arrivare i pompieri a tutta carriera e due autocarri si vuotavano già d’un tre dozzine di guardie municipali in tenuta bianca, ed era in arrivo anche l’autolettiga della Croce Verde, allora, infine, dalle due finestre a destra del terzo, e poco dopo del quarto, il fuoco non poté a meno di liberare anche le sue proprie spaventose faville, tanto attese!, e lingue, a tratti subitanei, serpigne e rosse, celerissime nel manifestarsi e svanire, con tortiglioni neri di fumo, questo però pecioso e crasso come d’un arrosto infernale, e libidinoso solo di morularsi a globi e riglobi o intrefolarsi come un pitone nero su di se stesso, uscito dal profondo e dal sottoterra tra sinistri barbagli; e farfalloni ardenti, così parvero, forse carta o più probabilmente stoffa o pegamoide bruciata, che andarono a svolazzare per tutto il cielo insudiciato da quel fumo, nel nuovo terrore delle scarmigliate, alcune a piè nudi nella polvere della strada incompiuta, altre in ciabatte senza badare alla piscia e alle polpette di cavallo, fra gli stridi e i pianti dei loro mille nati. Sentivano già la testa, e i capegli, vanamente ondulati, avvampare in un’orrida, vivente face.
Urlarono le sirene dalle ciminiere o dagli stabilimenti vicini verso il cielo torrefatto: e la trama criptosimbolica delle cose elettriche perfezionò gli appelli disperati dell’angoscia. Dalle stazioni lontane, spalancatesi, le batterie delle autopompe fuoruscirono in corsa, impulsi pronti e celeri a sovvenire a ogni sùbito male delle fiamme, nel mentre l’ultimo pompiere del quinto drappello, spiccato un salto, gli riuscì d’abbrancare con la sinistra l’ultimo ferro del reggiscala dell’autoscala di coda già in voltata fuori dal portone, e viceversa con la destra si finiva ancora d’abbottonare la bottoniera della giacca di servizio.
La sonnolenza impomatata dei guidatori d’automobili che falciano via con il parafango i ginocchi de’ claudicanti vecchi alle svolte e, svaccati dentro macchina, ma saette pazze di fuori, stracciano via i cantoni ai più garibaldofrusti marciapiedi della metropoli, ecco sonerie elettriche premonitrici li bloccarono improvvisamente ai cantoni, poi, subito, l’avvento delle trasvolanti sirene. Inchiodati i tram, i cavalli trattenuti al morso dal cavallaro, disceso di serpa: i cavalli col carro contro il culo, l’occhio, all’angolo, imbiancato da un ignoto motivo di terrore.
Gli effetti dell’incendio, lì per lì, furono terrificanti. Una bimba di tre anni, Flora Procopio di Giovan Battista, lasciata sola in casa con un pappagallo, dal seggiolone dove l’avevano issata e imprigionata chiamava disperatamente la mamma senza poterne scendere, e grosse lacrime come disperate perle le gocciavano e rotolavano giù, dopo le gote, per il bavaglino fradicio con su scritto «Buon Appetito», fin dentro la polta papposa d’un suo caffelatte dove a poco a poco ci aveva messo a bagno tutto un bastone di pan francese evidentemente mal cotto più alcuni biscotti di Novara o di Saronno che fossero, ma di tre anni loro pure, questo è certo. «Mamma, mamma!» urlava terrorizzata; nel mentre di là dall’altro capo della tavola il variopinto uccello, col suo rostro a naso di duchessa, ch’era solito stimarsi e andare tutto in visibilio e in sollucchero non appena i ragazzi lo apostrofavano di strada «Loreto, Loreto», e anche in superbia, oppure lo prendeva una specie di malinconia e di letargo senza rimedio, o invece se lo incitavano «Voèi, Loreto, canta!… desèdes… canta Viva l’Italia!… Voèi, baüscion d’on Loreto!», allora appena sentire quel «canta» lui rimbeccava con un dolce gorgoglio «Kanta-tì», questa volta invece, povera creatura, altro che Kanta-tì! Oh Dio, sì, difatti, per vero dire, un certo sentore di bruciaticcio lui lo aveva già percepito, se pur senza troppo inquietarsene: ma quando però vide i petali di quella così sinistra magìa traversargli in diagonale diretta la finestra aperta e poi entrargli in camera come tanti pipistrelli infuocati e mettersi a lambire gli sdrusci della tappezzeria secca e la taparella gialla, di stecchi di frassino, arrotolata coi suoi cordigli frusti nella parte superiore del vano, allora prese tutt’a un tratto a squittire anche lui dal fondo del gozzo tutto quello che gli venne in mente, tutto in una volta, come fosse una radio: e sparnazzava impaurito e pauroso verso la bimba, con impeti sùbiti, mozzati ogniqualvolta, dopo mezzo metro di sbatacchiamento, dalla perfidia inesorabile della catenella che per una zampa lo legava al paletto.
Si diceva che in gioventù avesse appartenuto al generale Buttafava, reduce dalla Moscova e dalla Beresina, indi al compianto nobile Emmanuele Streppi: una gioventù riposata e piena d’idee, in Borgospesso: e fosse riuscito a battere in longevità non solo lo Streppi, ma tutte le più venerande figure del patriziato lombardo, di cui, del resto, andava dicendo corna ai passanti. Stavolta però, di fronte a quel volo di tàlleri affocati che parevano vaporar via dalla zecca maledetta di Belzebù, aveva perso al tutto la trebisonda: pareva impazzire: «Hiva-i-Ità-ia! Hiva-i-Ità-ia!», s’era messo a squittire a squarciagozzo, svolazzando con la catenella tesa alla zampa in una meteora di penne e fra un subisso di carta arsa e fuliggine, nella speranza d’arrivare a propiziarsi la sorte, mentre la bimba strillava «mamma, mamma!» ed urlava terrorizzata dentro il suo pianto, battendo sulla tavola con l’impugnatura del cucchiarone. Finché un certo Besozzi Achille di anni 33, pregiudicato in linea di furto e vigilato speciale della Regia Questura, disoccupato, siccome era costretto, in causa della disoccupazione, a dormir di giorno per poter esser franco a sbrigare un qualche lavoruccio nottetempo, caso mai ce ne fosse di bisogno, e nonostante la vigilanza, tanto da guadagnarsi un boccon di pane anche lui, povero cristo, così fu una vera fortuna e gran misericordia di Sant’Antonio di Padova, bisogna proprio dirlo a voce alta, e riconoscerlo, questa di questo vigilato speciale che dormiva proprio al piano di sopra e nella stanza di sopra, dalla signora Fumagalli: in una ottomana in famiglia; che appena capito il pericolo subito s’era fatto coraggio, lì per lì, tra la paura e il fumo, un fumo che ventava su dalla tromba delle scale come la fosse un camino, e tutte quelle donne precipitanti in vestaglia o in camicia di gradino in gradino, e i gridi, e i bimbi, e la sirena dei pompieri in arrivo. Sfondò l’uscio dei Procopio, a calci, a spallate, e salvò la creatura e l’uccello; e anche un orologio d’oro che c’era sul comò, che però poi quello si dimenticò di restituirlo, e tutti credettero che fosse stata l’acqua dei pompieri, con cui, per poter spegnere il fuoco, avevano inondato la casa da cima a fondo.
Il Besozzi aveva udito le grida: e sapeva che la bambina era sola: perché verso le cinque del pomeriggio era l’ora, giusto, che soleva sbarcare dall’ottomana sulle banchine della risveglia coscienza, tutte ingombre di fastidi con la questura; che si fregava gli occhi, si grattava un po’ qua un po’ là, specie dentro la zazzera, e finiva col metter la testa sotto il rubinetto dell’acquaio; che si asciugava, – con un asciugamano color topo di chiavica, – che si pettinava – con un suo mezzo pettine tascabile, verde, di celluloide: – e poi, tòltine uno a uno con gran delicatezza i capegli che vi s’erano impigliati, li contava e li consegnava uno dopo l’altro all’acquaio rigurgitante di pile di scodelle e di piatti unti della cucina alla casalinga della «pensione» della Isolina Fumagalli. Poi, sbadigliando, s’infilava quei quattro cenci, e quelle due torpediniere vecchie delle scarpe mezzo sfatte dal sudore dei piedi, finché usciva risbadigliando sul pianerottolo e prendeva stracco stracco a bazzicar giù e su le interminabili scale, pieno di pretesti, e ogni tanto saettava fuori dai buccinatorii il dardo liquido della saliva sui gradini o sul muro, svogliato e inuzzolito ad un tempo, coll’ossa ancor molli dall’ottomana, nella speranza d’un qualche buon incontro. Incontro, oh, si sa, con una qualche casigliana di quelle, e ce n’era delle stagne, e prosperose; e decise: e poi svelte a sbatacchiare i tacchi giù per i gradini tatìc e tatàc fino in fondo, e fino fuori della porta: che qualcheduna di sicura non ne mancavano davvero al numero 14, con tutto che il Keplero c’è fior di negozianti, ormai, che in questi ultimi anni ci sono andati a star di casa con la famiglia. Sicché quel giorno aveva incontrato la madre, una dispettosa!; e sapeva dunque che la bambina era rimasta sola col pappagallo. E così la salvò. E anche il Loreto. Avrebbero un po’ imparato chi era, lui, e com’era fatto di dentro; e come li compensava della superbia; e con tutte le grane che la questura andava dietro a piantargli, giorno e notte. Va be’: l’orologio: quant’a quello, è un altro conto, si sa: peggio per loro se lo avevano lasciato sul comò, nel momento proprio che gli va a fuoco la casa.
«L’incendio», dissero poi tutti, «è una delle cose più terribili che sia.» Ed è vero: fra la generosità e la perplessità de’ pompieri d’oro: fra cataratte d’acqua potabile sopra le ottomane pisciose e verdi, ma stavolta minacciate da un ben brutto rosso, e, sopra i cifoni e i credenzoni, custodi magari d’un mezz’etto di gorgonzola sudato, ma leccati già dalla fiamma come il capriolo dal pitone: con zampilli, spilli liquidi, dai serpi inturgiditi e fradici dei tubi di canapa, e lunghe, lancinanti zagaglie dagli idranti d’ottone, che finiscono in bianche zazzere e nube nel cielo dell’agosto torrido: e isolatori di porcellana semi-usti cader giù a pezzi a frantumarsi del tutto contro il marciapiede patatràf!: e fili di telefoni bruciati che svolavano via nella sera dalle lor mensole fatte roventi, con penisole nere e volanti di cartone e mongolfiere di tappezzeria carbonizzata, e giù, tra i piedi degli uomini, e dietro le scale mobili, anse e rigiri e impennate di tubi che sprizzano zampilli parabolici da tutte le parti nella mota della strada, vetri in briciole in un pantano d’acque e di melma, pitali di ferro smaltato ripieni di carote buttati giù di finestra, ancora adesso!, contro gli stivaloni dei salvatori, i gambali dei genieri, dei carabinieri, degli ingegneri comandanti dei pompieri: e il protervo e indefesso cic-ciàc, e cicìc e ciciàc, delle ciabatte femminine a raccoglier pezzi di pettine, o schegge di specchio, e immagini benedette di San Vincenzo de’ Liguori dentro lo sguazzo di quella catastrofica lavanderia.
Una donna incinta, altro caso pietosissimo, ed era già al quinto mese!, dal panico e dall’angoscia del trambusto e forse anche, però, soffocata da quel fumo delle scale, che appena aprir l’uscio glie ne soffiò dentro una ventata da far paura, si sentì venir male e svenne: proprio sul pianerottolo, nel tentar di scappare. E questa la salvò per miracolo certo Pedroni Gaetano del fu Ambrogio di anni 38, facchino alla stazione centrale, dove aveva da riprendere il turno alle sei e mezza. Inviato da Dio! se si pensa che, per portare o smuovere un baule così, bisogna esser gente puranche pratici. Egli stava per uscire, sufolando come un merlo, dall’uscio disopra ancora della Isolina Fumagalli, reduce da una certa robusta galanteria, sulla quale il Signore è quasi certo che dovesse aver chiuso almeno un occhio. E, dopo il congedo, si sentiva liberato e leggiero e incline più che mai alla protezione dei deboli, dei derelitti: prese su la paglietta, se l’aggiustò in capo, e accendendo un mezzo toscano sognava già il governo e l’incanalamento totalitario di tutti e venticinque i bauli e le valigie e le cappelliere d’una qualche americanessa rognosa, di quelle spirlunghe e prepotenti, che vanno intorno con il bastone da uomo, fra il Venezia e il Gottardo, il Bologna e il T.P.
Quand’ecco che, invece dell’americana, ti cominciano le urla e il casino e il fumo su dalle scale appena aprir l’uscio, che a momenti non era da vederci. Fu un momento brutto, raccontava quella sera, uno dei più brutti proprio della sua vita. Diede subito una voce alla donna, ch’era ancora alle prese col rubinetto, con un bigoncioletto-bidet, con certe sue pentoline e gran travasi d’acqua, ma piantò lì subito ogni cosa, sapone e salvietta e mastello e acqua e tutto, e la si infilò in un battibaleno una specie di vestaglia cinese, o giapponese che fosse, e senza por tempo in mezzo la si mise immediatamente a strillare «ah! Madonna, ah, Madonna!, la mia pelizza, la mia pelizza!», e volle prender fuori la borsetta dal comò, e lui allora la prese per un braccio e la trascinò fuori così com’era, con addosso quel kimono di Porta Volta e senza neanche le mutande, in zoccoletti da camera che però uno lo seminò subito giù per le scale; e tirandosela dietro per una mano cercarono scampo sprofondando tutt’e due in quell’asfissia paurosa. Lui, poi, con due o tre calci, così, d’istinto, mandò in frantumi la prima vetrata, passandoci davanti: e il fumo, allora, fuori anche di là. Poi, sotto, a momenti inciampavano nella donna svenuta, riversa contro lo stipite; e allora con l’aiuto dell’altra, che zoppicava dal piede senza zoccolo e voleva scappare per conto suo, a ogni costo, ma lui invece l’abbrancò e la tenne forte e le gridò sulla faccia «devi aiutare, o tr…», riuscirono tutt’e due dopo una fatica e un terrore e un sudore infiniti a portarla fin da basso, dove c’era già la lettiga e gli infermieri della Croce Verde, se Dio volle, e oramai i pompieri.
Invece la signora Arpàlice Maldifassi, cugina del famoso baritono Maldifassi, Eleuterio Maldifassi! ma sì!… andiamo! che aveva cantato anche alla Scala, in del 1908… nel «Mefistofele»… durante la stagione primaverile, oh! un trionfo, un vero trionfo! e una gloria autentica della nostra Milano, quella nel cercare di precipitarsi in salvo insieme a tutti gli altri, urtata e sballottata dall’«egoismo», secondo raccontò poi, «degli inquilini del quinto», che piovevano giù dalle scale come tanti lepri, non va a prendere con la scarpetta, brutti vigliacchi! tra il gradino di marmo di Carrara e il ferro storto e mal combinato della ringhiera? Ma sicuro! Ed ecco perché la si era rotta una gamba, diceva lei: ma in realtà s’era soltanto slogata una caviglia al primo gradino, scivolando nello spavento e perché non sapeva dove mettere i piedi, col tacco tatàcco tutto ambizioso di guadagnare quei sei o sette centimetri, come ce li hanno le donne. E tutto, poi, perché aveva voluto salvare a ogni costo il ritratto del suo Eustorgio, povera donna, e i suoi preziosi, ch’erano anche quelli un ricordo del suo povero Eustorgio, ed era rientrata di corsa a riprenderli fuori dal comò: che proprio quella mattina li aveva liberati dal Monte, col denaro restituitole dalla Menegazzi. Quando si dice le combinazioni! Immaginarsi quello che dovette provare anche lei, Dio! Dio!, si inorridisce solamente a pensarlo, non dico poi a riferirlo, quando in uno spavento e in una confusione di quel genere la si sentì sbatacchiata contro la ringhiera, e poi contro il muro, dallo «spietato egoismo della natura umana», e poi di nuovo contro la ringhiera a rischio di precipitare nel vuoto! e allo spavento e alla debilità del sesso si aggiunse tutt’a un tratto anche lo strappo al piede, quello spasimo improvvisamente lancinante seguito da un dolore orribile di tutta la gamba, per cui cadde seduta sull’orlo d’un gradino e poi slittò giù con il culo ancora per un poco, in un tobòga orribile, a ogni nuovo tracollo di gradino in gradino acciaccandosi e riacciaccandosi di bel nuovo l’osso sacro ogni volta, o coccige che dir si voglia, che andava così poco difeso dalla deficienza dei glutei, di cui fin da giovane era tanto dolorosamente mal provveduta, povera signora Maldifassi! Tossiva e starnutiva nella fuliggine acre e strillava «Sofèghi! Sofèghi; ahi ahi la mia gamba, salvatemi! per caritàa del Signor! ahi, ahi! Madonna, Madonna, la gamba, la gamba, sofèghi! sofèghi!» E non finiva più di emettere senari a coppie dalla bocca scontorta; dall’anima terrificata, dal corpo straziato. E la dovette trascinar giù per le scale, fra urla inaudite di dolore e in quella tosse e in quel fumo orrendo, il bravo garzone muratore e avanguardista Ermenegildo Balossi di Gesualdo, d’anni 17, da Cinisello, il quale, in mutande, e con un pallore nel viso, era in procinto di salvare le sue proprie gioie anche lui, non impegnabili queste, ahimè!, a nessun Monte. Almeno monti di pietà, dal momento che si sta parlando di quelli. Anche qui… si vide proprio il dito del Signore. Perché il Balossi era piovuto a piedi nudi dal tetto dove accudiva a rigovernare le marsigliesi malconce, dopo la furibonda grandinata della settimana avanti, ch’era stata sui diversi tetti della zona imparziale e solenne, come tutti i malanni che si dan l’aria di discendere dalla divina provvidenza, o giustizia che sia.
Lavorava verso il tardi, dacché nel pieno meriggio su quelle tegole arroventate c’era da morir cotti, e col cervello insolato; la testa stretta nella benda d’un suo fazzolettone rosso e giallo, e meglio che mai riparata dalla spessezza de’ capelli, ch’erano come il vello di una pecora, ma incipriato di calce: e si teneva anche, come s’è veduto, piuttosto leggero di panni, con una canottiera color celeste stinto sul dorso, di tessuto Viscosa e trasparente, e tutta buchi, che pareva una cartavelina infradiciata nel sudore. I suoi piedoni enormi, tozzi e carnosi, dai diti corti, carnosi, e divaricati e aperti a ventaglio, offerivano alla porosità biscottata dei tegoli un attrito particolarmente pregiato dai capimastri e dagli assistenti edili di tutta quanta Milano, ed erano insomma quanto di più adatto ci fosse in tutta la muratorìa e garzoneria milanese da mandarlo su per i pioventi per sette lire al giorno ad aggirare i camini come una fantasima, a strusciarsi, come un gatto impavido, lungo le grondaie e i colmigni. Il suo «posto nel mondo» dunque, a dirla con Virgilio Brocchi, se l’era guadagnato per titoli, non ammanigliato alle raccomandazioni, e al per via della via. E durante tutto sto laborioso pane perdeva ininterrottamente 4 bindelli dalle caviglie, come un Ermes di Cinisello cui gli si fossero sfrigolate in bindelli le ali dei piedi.
Il maestro, impillaccherato di calce i baffi e la risecca faccia, tutta rughe, con quella fiorita di nèi bianchi, ma adesso stanco e vinto dal pandemonio, lo chiamava lamentosamente dal fondo pauroso delle scale: «Oh, Gioànn! oh, Gioànn!» e spiegava piagnucolando a tutte quelle frenetiche in fuga dentro le lor ciabatte, cariche di terrore e di fagotti e bimbi urlanti, che c’era ancora un ragazzo sul tetto, «el magütt, el mè magütt», che su in solaio ci doveva essere «el Gildo, el magütt, el Balòss de Cinisèll»: e poi si dava di nuovo a ingiovannare la tromba fumosa di quelle infernali scale, di sotto in alto, ma sopraffatto dalle urla di tutti. Nessuno tornava indietro di certo all’idea del magütt, e le più, poi, non lo udivano neppure. Finché apparve anche lui sull’ultima rampa, stravolto, rosso, macero nel suo sudore, con quella benda rossa e gialla del fazzolettone intorno alla testa, con un baffo nero sulla guancia, con in braccio la signora Maldifassi ululante «ahi ahi! la mai gamba!, la gamba la gamba! Signor madonna jutèmm vi alter!» e intanto però la stringeva in d’una mano un sacchettino di tela e la si vedeva che non lo voleva mollare a nessun patto: e lui con le mutande in posizione bassa di estrema demergenza, che quasi quasi stavano già per venir meno, inciampando a ogni nuovo gradino nei bindelli coi ditoni aperti dei piedi, come due pettini. L’aveva presa e la reggeva per le ascelle, da dietro, e con un ginocchio, o con l’altro, a ogni gradino le faceva come un seggiolino momentaneo sotto il sedere magro, derelitto, badando a serbar l’equilibrio e a non ruzzolar giù tutt’e due uno sopra l’altro fino in fondo alla rampa. Tanto che poi gli diedero l’encomio, il giorno dello Statuto!, al valor civile; povero e bravo ragazzo! che se l’era proprio meritato.
E anche un altro poveraccio, il vecchio Zavattari, la scampò per un pelo. Soffriva d’asma e di catarro bronchiale, costui, da anni. Una forma grave, tanto che neppur l’agosto milanese poteva mitigare le sue sofferenze, ed erano tutti più che persuasi, oramai, che fosse un caso incurabile. Un qualche blando lenimento a tanta pena se lo procurava con l’osservare il letto fino a mezzogiorno, e la tavola poi fino alle sei della sera, dove ci rimaneva tutto il dì la tovaglia, lercia, e un fiascone di Barletta, «la mia medesìna», come lo chiamava, senza far caso delle macchie di vino e di pomodoro, e di caffè, né inquietarsi del macello di stecchi piegati in due e di tutto il briciolame sopravanzato a quel po’ di gorgonzola e di luganeghino fino alle tarde ore. Da quel fiasco – seduto a tavola, con un gomito sulla tovaglia da cui penzolava la sinistra inerte – il vecchio Zavattari andava mescendosi via via per tutto l’assonnato e ciondoloso pomeriggio un mezzo bicchiere via l’altro, «on mezz biceròtt» e «on alter mezz biceròtt» , e con mano oscillante, la destra, a quando a quando se lo recava sotto i baffi, il biceròtt; e così non la finiva più di centellinare e di assaporare (lunghi assaporamenti e clamorose stappature del palato), come fosse nettare ambrosio, quel panerone rosso, maturato su a ferragosto dalle cantine della Martesana, che gli lasciava due millimetri d’una polta violacea sulla lingua barbugliosa: e grosse stille vermiglie, poi, sui baffoni pioventi, di Belloveso rincoglionito nel catarro. Che parevano, tant’eran vive e vermiglie, le stille del Sacro Cuore o dell’Addolorata in una pittura del Cìgoli. E anche lo sguardo, del resto, velato, immalinconito, affisato lontan lontano dentro il cielo della slóngia, con le due metà superiori dei bulbi celate dalle palpebre ricadenti, in una specie di sonno-della-fronte, anche lo sguardo assumeva una tal quale intonazione di Sacro Cuore, così, un po’ alla Keplero, ma era invece il sacro fiasco che funzionava in pieno. Così, ore e ore, col gomito su quel letamaio della tovaglia pomodoro-Barletta, con la mano a penzolare, e l’altra, se non mesceva o centellinava, a grattarsi il ginocchio; così grugnolava e ronfava di gola per delle ore intere, lungo tutto il declino del pomeriggio, sudato, dentro l’afa e il lezzo della camera, ch’era piena di polvere, con il letto ancora da prender aria, la federa color lepre; coi pantaloni sbottonati da cui usciva una cocca della camicia di notte, con due ciabattazze fruste infilate nei piedi nudi e verdastri, con il respiro breve che pareva scorrere su biglie di muco, coccolando con l’amorevolezza d’una mammina giovine quel suo catarro sommesso di catacomba, una colla che barbugliava, a lente bolle, in un pignattone dimenticato sul fuoco.
Questo Zavattari, consocio della ditta Carabellese Pasquale, in via Ciro Menotti 23, esercitavano tra tutt’e due un negozio di pesce atlantico a buon mercato della Genepesca, pescato coi motopescherecci «Stefano Canzio» e «Gualconda» e qualche volta il «Doralinda»; ma tenevano a prezzi molto convenienti anche le ostriche di Taranto, e frutti di mare in ghiaccio di entrambe le sponde. E la gli andava anche abbastanza mica male, rifilando quei pezzi di mostri verdi delle profondità marine alle massaie esterrefatte del Cir Menott; le quali, tutte prese dentro l’idea del risparmio, erano poi assolutamente sprovviste de’ più pallidi requisiti necessari a poterli cucinare come che fosse, dei liocorni simili.
Ma tutto questo non c’entra: quel che si voleva dire è che il vecchio, al primo sopravvenire dell’idea del brucio e alle prime grida di spavento su dalle scale e dal cortile, il vecchio Zavattari, per quanto arrivato oramai alla stupefazione e al torpore più consolanti, aveva tentato anche lui, in una sorta d’allucinata angoscia del fisico, di dirigersi verso la finestra per tentare di aprirla, perché nella raggiunta ebetudine la credette chiusa, mentre era sempre stata aperta durante tutto il pomeriggio: un’angoscia fisica, primordiale, che gli aliava come una fiamma fatua d’attorno a quel moncone d’istinto: ma non gli riuscì se non di rovesciare il fiasco del Barletta, semivuoto e imbecillito anche lui; e gli si erano invece spalancate tutt’a un tratto le cataratte dei bronchi e allentati, nel contempo, i più valorosi anelli inibitivi dello sfinctere anale, sicché fra urti di tosse terribili, mentre un fumo acre, nerissimo, gli principiò a filtrare in casa dalla toppa della serratura e da sotto l’uscio, nello spavento e nella congestione improvvisa, preso dall’orrore della solitudine e del sentirsi le gambe così di pasta frolla proprio nel momento del maggior bisogno, finì, anzitutto, con l’andar di corpo issofatto dentro la veste notturna: a piena carica: e poi per estromettere dalle voragini polmonari tanta di quella buona roba, che son sicuro che non ce la farebbe di certo neanche il mar di Taranto, con tutte le sue ostriche, a poterne pescar fuori di compagne.
Lo salvarono i pompieri, con le maschere, abbattuto l’uscio a colpi di accetta. «Se ved ch’el foeugh el gh’à dàa la movüda», sentenziò il capo drappello Bertolotti a salvataggio ultimato.
Penosissimo, e purtroppo ferale, il caso del cavalier Carlo Garbagnati, l’ex-garibaldino del quinto piano: uno proprio dei mille di Marsala, e dei cinquantamila del cinquantenario di Marsala. Perché, non ostante le urla della domestica Cesira Papotti, s’era ostinato a voler portare a salvazione le sue medaglie, contro ogni evidente criterio di opportunità, e perfino i dagherròtipi e due piccoli ritratti a olio di quando era giovine, cioè all’epoca di Calatafimi. Ora, il trasporto del medagliere d’un garibaldino, specie in una contingenza di panico totale come fu quella, non è un problema così semplice come potrebbe parere a prima vista. Finì che anche lui fu colto dall’asfissia, o da un qualche cosa di simile, e lo dovettero andar a portar via i pompieri anche lui, se vollero salvargli la pelle, a rischio di lasciarcela loro. Ma le cose purtroppo precipitarono, data anche l’età, ottantotto anni!, e il vizio di cuore, e un penoso restringimento uretrale di cui soffriva da tempo. Sicché l’autolettiga della Croce Verde, al quinto viaggio, si può dire che non era arrivata ancora alla guardia medica di via Paolo Sarpi, che già l’avevano fatta voltare indietro di volata verso l’obitorio della clinica universitaria, là in fondo alla città degli studi di dietro del nuovo Politecnico, macché in via Botticelli! più in là, più in là! in via Giuseppe Trotti, sì, bravi, ma passato anche via Celoria, però, passato via Mangiagalli, e poi via Polli, via Giacinto Gallina, al di là di Pier Gaetano Ceradini, di Pier Paolo Motta, a casa del diavolo.