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Cambiamento climatico e ideologie: quello che (non) sappiamo-K. Emanuel, M. Hulme, B. Lomborg





lunedì 21 febbraio 2011 legge Stefano Zamagni
Cosa sappiamo oggi sull’evoluzione del clima? Troppe le incertezze, e altrettanti sono i rischi. Decidere cosa fare per evitare il riscaldamento globale diventa quindi questione maledettamente complessa, che coinvolge considerazioni di carattere etico, politico ed economico. Troppo spesso le posizioni sul se, quando, e come agire contro il riscaldamento globale cercano supporto nei risultati della ricerca scientifica, finendo però con il mescolare e confondere valutazioni tipicamente normative a considerazioni di carattere puramente descrittivo. La scienza, sempre più soggetta a strumentalizzazioni mediatiche ed economiche, rischia di divenire involontaria sostituta delle convinzioni etiche ed ideologiche alla base del processo politico decisionale. Ma distinguere e separare considerazioni scientifiche da quelle politiche ed economiche è condizione necessaria per un dibattito trasparente e intellettualmente onesto.


Kerry Emanuel, Piccola lezione sul clima, ed. Il Mulino, 2008 Il mito della stabilità naturale(…) Si ritiene che l’atmosfera primordiale contenesse principalmente vapore acqueo, anidride carbonica, anidride solforosa, cloro e azoto, mentre ci sono scarsi indizi della presenza di ossigeno prima della comparsa della vita. Le prime forme di vita contribuirono a produrre ossigeno attraverso la fotosintesi e trasformarono l’atmosfera rendendola simile a quella attuale (…). Cambiando la composizione, l’effetto serra risultante si indebolì compensando il lento ma inesorabile aumento di luminosità del sole. Le prime forme di vita hanno quindi trasformato radicalmente il pianeta. Noi umani siamo soltanto la specie più recente ad averlo fatto. (…)

Perché il problema del clima è un problema difficile (…) L’effetto serra gioca un ruolo cruciale nel clima della terra, e se non se ne coglie la natura non si può sviluppare alcun discorso ragionevole sul clima. (…)
Se si potesse modificare la concentrazione di un solo gas serra mantenendo invariato il resto del sistema, sarebbe facile calcolare la conseguente variazione della temperatura superficiale. Per esempio, raddoppiando la concentrazione di CO2 la temperatura media della terra aumenterebbe di circa 1°C (…). La controversia nasce soprattutto dal fatto che in realtà modificando uno qualunque di questi gas serra, le altre componenti del sistema ne risulterebbero indirettamente modificate, inducendo quindi ulteriori effetti di retroazione a catena. (…)
Notevoli incertezze entrano in gioco (…). Ma non basta: per comprendere le variazioni climatiche a lungo termine è infatti essenziale essere consapevoli dell’impossibilità di fare previsioni dettagliate, neppure in linea di massima, che vadano oltre qualche settimana. Ciò è dovuto al fatto che il sistema climatico, almeno su scale temporali brevi, è caotico.
La proprietà fondamentale dei sistemi caotici è la tendenza delle piccole differenze a ingrandirsi rapidamente. Pensiamo a due foglie che in autunno cadano l’una vicino all’altra in un torrente impetuoso. Immaginiamo di seguirle nel loro percorso di discesa verso il mare: all’inizio rimangono vicine, poi i vortici della corrente gradualmente le separano. A un certo punto una foglia può rimanere temporaneamente intrappolata in un vortice dietro a una roccia, mentre l’altra continua la sua discesa. Non è difficile immaginare che una foglia arrivi alla foce giorni o settimane prima dell’altra. Così come non è difficile immaginare che se anche uno scienziato pazzo dotasse quel torrente degli strumenti di misurazione più incredibili per misurare il flusso dell’acqua ed elaborasse al computer un programma per stabilire il percorso delle foglie, scoprirebbe che è quasi impossibile prevedere dove sarà la foglia anche soltanto un’ora dopo l’inizio del suo viaggio. (…) Lo stesso principio vale se anziché due foglie avessimo una foglia e un modello elaborato al computer della foglia e della corrente che la trasporta. Anche nel caso in cui il modello fosse perfetto e si iniziasse con una rappresentazione ottimale dello stato del torrente, un qualsiasi errore, anche infinitesimale, nella registrazione del tempo o della posizione della foglia all’inizio del suo percorso causerebbe uno scarto (…), e scarti ancora maggiori per distanze maggiori. La previsione è impossibile oltre un certo periodo di tempo.
Non tutti i sistemi caotici sono soggetti a prevedibilità limitata, ma l’atmosfera terrestre e gli oceani quasi certamente lo sono. Si ritiene quindi che il limite massimo di predittività delle condizione atmosferiche sia di due settimane circa.
(…) Per periodi che superano qualche anno diventa sempre più difficile per gli scienziati stabilire la differenza tra le variazioni caotiche naturali e quella che i climatologi hanno definito variabilità “forzata”.
(…) Oltre alla variabilità caotica naturale “libera” delle condizioni atmosferiche e del clima ci sono alterazioni derivanti da “forzature” a loro volta variabili, che si ritiene coinvolgano fattori che non sono di per sé influenzati dal clima. Il più noto di questi fattori è l’alternarsi delle stagioni – causato dall’inclinazione dell’asse terrestre – che è di per sé indipendente dal clima.
(…) Il clima che percepiamo è quindi la risultante della combinazione della variabilità caotica libera (non forzata) e dei cambiamenti provocati da fattori forzanti esterni, alcuni dei quali, come le eruzioni vulcaniche, sono essi stessi caotici. E parte di questa variabilità climatica forzata è causata da noi esseri umani.

Determinare l’influenza dell’uomoUn aspetto importante e problematico nell’individuazione del cambiamento climatico antropogenico è il riconoscimento della differenza tra le variazioni climatiche naturali –sia libere che forzate- e quelle provocate dalla nostra attività.
Un modo per arrivarci è quello di sottolineare il fatto che l’aumento dei gas serra e degli aerosol ebbe origine solo con la rivoluzione industriale del XIX secolo: prima di allora l’influenza dell’uomo era probabilmente modesta. Se fossimo in grado di fare delle stime su come sia cambiato il clima prima di quella data, avremmo forse un’idea della sua evoluzione naturale. Purtroppo però anche la misurazione dettagliata e sistematica del clima è iniziata solo nel XIX secolo (…).
Un altro modo di riconoscere la differenza tra le variazioni climatiche naturali e quelle antropogeniche è quello di simulare il clima globale del pianeta degli ultimi cento anni con l’ausilio di modelli climatici, che rappresentano forse la sfida più impegnativa e complessa mai affrontata dall’uomo. Un modello climatico tipico consiste infatti in milioni di righe di programma che simulano un’enorme varietà di fenomeni naturali (…).
Questo esercizio [di simulazione] è stato ripetuto utilizzando numerosi modelli climatici e ha prodotto sempre il medesimo risultato qualitativo: non si può simulare l’evoluzione del clima degli ultimi trent’anni senza tenere conto dell’influenza dell’uomo sugli aerosol di solfati e sui gas serra. Ecco perché, in sintesi, i climatologi oggi ritengono che l’influenza dell’uomo sul clima sia emersa dal brusìo di fondo della variabilità naturale.

Le conseguenzeLe proiezioni basate sui modelli climatici indicano che nell’arco del XXI secolo la terra continuerà a riscaldarsi ulteriormente da 2 a 4 °C: più o meno l’aumento di temperatura che percepisce chi si sposta da Boston a Filadelfia (…).
Questa prospettiva è così minacciosa? Con tutta la propaganda negativa sul riscaldamento globale è facile non accorgersi dei vantaggi: servirà meno energia per riscaldare gli edifici, le terre precedentemente sterili delle alte latitudini cominceranno a produrre, le colture potrebbero crescere più in fretta e ci risparmieremmo numerose malattie causate dalle ondate di freddo.
Dall’altra parte ci sono gli svantaggi: le ondate di caldo saranno più frequenti e intense, i costi di condizionamento dell’aria saliranno, e le zone fertili sub-tropicali potrebbero diventare incoltivabili. Ci saranno certamente vincitori e vinti, ma a conti fatti il mondo risulterà veramente danneggiato?
(…) Eppure ci sono conseguenze del cambiamento climatico che non possiamo prendere tanto alla leggera. (…) È possibile che con l’aumento della temperatura delle regioni polari, grandi porzioni di ghiaccio della Groenlandia e dell’Antartide si sciolgano innalzando i livelli del mare.
(…) I modelli [prevedono] piogge più abbondanti nelle zone già piovose e allo stesso tempo siccità di maggior intensità, durata o estensione geografica. In un mondo più caldo, quindi, sia il pericolo di inondazioni che di siccità sembrano aumentare considerevolmente.
Valutare queste possibilità, alla luce dell’evidenza che oscillazioni climatiche naturali molto più modeste alla fine dell’ultima glaciazione hanno logorato e in qualche caso distrutto intere civiltà in Mesopotamia, America centrale e meridionale e nella zona sud-occidentale degli Stati Uniti, fa riflettere.
Di fronte a scenari di cambiamento così violenti e rapidi, siamo però anche consapevoli di quanto poco sappiamo su come veramente funziona il sistema climatico. Forse subentreranno meccanismi di retroazione negativi, che non abbiamo considerato o abbiamo sottostimato, a salvarci dalle conseguenze più devastanti. D’altra parte si può dire lo stesso dei meccanismi di retroazione positivi, e la situazione potrebbe rivelarsi più disastrosa del previsto.

La scienza e i media La scienza procede verificando e scartando o rivedendo continuamente ipotesi, un metodo ampiamente favorito dalla naturale inclinazione degli scienziati allo scetticismo. Siamo mossi, quasi tutti, dal desiderio di capire la natura, ma questo comporta saper prendere le distanze da posizioni di parte, poiché è probabile che lo spirito di parte –quale che sia la sua origine- venga smascherato dai nostri colleghi e produca perdita di credibilità, che è il vero valore della nostra professione.
(…) Nel 1988, James Hansen, direttore del Centro di Studi Spaziali Godard della NASA, scatenò una controversia infernale dichiarando di fronte al Congresso che era virtualmente certo che fosse emerso un segnale di riscaldamento globale dal sottofondo della variabilità climatica ordinaria. (…) La maggior parte degli scienziati era profondamente scettica nei confronti delle affermazioni di Hansen; il sottoscritto certamente lo era. È importante interpretare in questo caso il termine “scettico” in senso letterale: non significa che noi eravamo sicuri del contrario, ma soltanto che ritenevamo che il “verdetto” doveva ancora essere pronunciato.
Più o meno nello stesso periodo entrarono in scena, con secondi fini piuttosto evidenti, gruppi ambientali radicali e una manciata di scienziati che ne subì l’influenza. Questo fatto accelerò la politicizzazione del caso, chiamando al contrattacco i conservatori, finanziati dalle grandi compagnie petrolifere e dall’industria automobilistica; ma segnò anche l’inizio di un fenomeno interessante e altrettanto inquietante, che è tuttora in atto: un numero ridottissimo di climatologi assunse posizioni dogmatiche perdendo credibilità agli occhi della vasta maggioranza della comunità scientifica, che continuava a dedicarsi alla ricerca imparziale.
A sinistra si suggerì di sollecitare i colleghi scienziati a ingigantire deliberatamente i risultati delle loro ricerche per scuotere l’opinione pubblica troppo apatica, idea che fortunatamente fallì in ambito scientifico, ma che conquistò Hollywood (…)
Ma via via che i dogmatici si allontanavano dal pensiero scientifico dominante, venivano “adottati” dai gruppi politici e dai giornalisti che li riportarono alla ribalta; questo ha generato nell’opinione pubblica una grossolana deformazione nella percezione del dibattito scientifico. Sempre presi dall’urgenza di mettere in scena il teatrino del conflitto tra dottrine rivali, i media hanno ignorato quasi completamente gli scienziati della corrente dominante, le cui esitazioni non facevano notizia.

Mike HulmeLa questione climatica tra scienza e politica, rivista trimestrale ENERGIA (1/2010)Lo scrittore e attivista americano Bill McKibbin ha fondato nel 1987 l’organizzazione 350.org con un obiettivo molto preciso: fare una campagna a livello mondiale per tornare a una concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera al di sotto di 350 parti per milione (ppm), per poi mantenerla.
Poiché la concentrazione di questo particolare gas a effetto serra è già a 390 ppm e sta aumentando di circa 2 ppm/anno, l’obiettivo di McKibbin è ambizioso. Ma chiarissime sono le ragioni della sua importanza:
«Noi puntiamo su questo numero perché è il livello che gli scienziati hanno indicato come il limite superiore di sicurezza per l’anidride carbonica in atmosfera. Ma 350 è più di un numero: è un simbolo verso dove dobbiamo tendere come pianeta».

Perché 350?350.org è uno dei più chiari esempi di un movimento ambientalista popolare o sociale costruito attorno a un concetto o a un numero che trae origine dalla scienza. Ma quanto è solida la strategia di McKibbin? Gli scienziati hanno stabilito che il limite superiore di sicurezza per l’anidride carbonica è 350 ppm? La scienza è in grado di garantire un target non ambiguo per le battaglie ambientaliste?
Negli accesi dibattiti sul cambiamento climatico (…) molti sostenitori e politici invocano la scienza a sostegno della loro posizione o, come nel caso di McKibbin, usano direttamente la scienza a sostegno della loro posizione. Perché nel caso del cambiamento climatico – una questione in cui le valutazioni etiche e politiche hanno un peso certamente importante – così tante voci pubbliche sembrano desiderose di rimettere all’autorità della scienza la determinazione della loro posizione?

L’incertezza della scienzaAlla sessione plenaria di chiusura del Congresso sul cambiamento climatico svoltosi a Copenhagen nel 2009, vi è stato un interessante scambio di battute tra il Primo Ministro danese – Anders Fogh Rasmussen – e i tre climatologi che partecipavano al panel finale. Dopo averli ascoltati riassumere le nuove evidenze scientifiche presentate alla Conferenza, Rasmussen ha rivolto loro questo consiglio:
«Io penso che, in questo campo, la scienza dovrebbe essere la base di ogni decisione. I politici possono agire solo su quello che noi conosciamo, e pertanto il vostro contributo è fondamentale. (...) Vorrei darvi questo consiglio: non dateci troppi target mobili, perché questo è un processo già molto, molto complicato. Ho bisogno del vostro aiuto per spingere questo processo nella giusta direzione, e a questo scopo mi servono obiettivi fissi e numeri certi, non troppe considerazioni su incertezza, rischio e cose di questo genere».
Con queste parole Rasmussen ha dimostrato di avere una visione sbagliata sia della scienza che della politica. Chiedendo ai climatologi di ignorare le incertezze e di dare ai politici obiettivi chiari, fissi, certi, Rasmussen ha dimostrato in modo evidente di non rendersi conto delle continue incertezze che affliggono la climatologia. (...)
La scienza non scrive mai libri definitivi. Non offre «sacre scritture», infallibili e complete. Non può fornire quei «numeri fissi e certi» che Rasmussen ha chiesto.
(…) Certo, la scienza ha chiaramente detto che l’uomo sta influenzando il clima e che continuerà a farlo, ma non conosciamo la piena dimensione dei rischi che ne derivano, né la velocità con cui evolvono, e neppure conosciamo con chiarezza i ruoli relativi di tutte le forze in gioco coinvolte a diversi livelli.
Ugualmente, si fanno analisi sugli effetti economici del cambiamento climatico con eccessiva sicurezza. Certo, sappiamo che le misure di mitigazione o di adattamento al cambiamento climatico, compreso il non far nulla, comportano costi a non finire, ma molti di questi costi sono fortemente influenzati dai nostri giudizi etici sul valore delle cose, oggi e in futuro. Queste sono valutazioni che la scienza non è in grado di dare.

Obiettivi numerici(...) Il target forse più frequentemente dichiarato è l’idea dei «due gradi», ovvero limitare la crescita della temperatura media globale rispetto al livello del XIX secolo non oltre i 2 ºC. Le origini scientifiche di questo obiettivo sono oscure. Alcuni ne hanno rintracciato le basi negli anni 1980 o 1970. Altri lo collegano più strettamente alle recenti analisi dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). Comunque sia, fu adottato inizialmente come esplicito obiettivo politico nel 1996 dal Consiglio dell’Unione Europea e, più di recente, è stato adottato come un importante obiettivo politico dai leader dei Paesi, maggiori responsabili delle emissioni di gas serra, al G-8 tenutosi nel luglio 2009 a L’Aquila. Il concetto dei due gradi si ritrova anche nell’Accordo di Copenhagen, il documento politico che alla fine è emerso dalla COP 15:
«Per raggiungere l’obiettivo finale della Convenzione... rafforzeremo la nostra cooperazione di lungo termine per combattere il cambiamento climatico, riconoscendo il parere scientifico secondo cui l’aumento della temperatura globale dovrebbe essere inferiore ai 2 gradi Celsius, sulla base dell’equità e nel contesto dello sviluppo sostenibile».
(...) Uno dei principali problemi decisionali è come tradurre un obiettivo di temperatura globale – qualunque esso sia – in un obiettivo di concentrazione dei gas serra o, ancora di più, in target di emissioni, che si tratti di riduzioni su un certo anno base o di permessi per future emissioni. L’incertezza della scienza sul sistema Terra diviene a questo punto l’aspetto centrale della questione. Dato lo stato attuale della conoscenza, l’obiettivo dei 2 gradi è coerente con un ampio spettro di concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera e pertanto di numerosi profili di emissioni. L’analisi dell’IPCC suggerisce, ad esempio, che 2 gradi di surriscaldamento possono provenire da una concentrazione di gas serra compreso tra 350 e 700 ppm. Piuttosto del target «fisso e certo» richiesto dal Primo Ministro Rasmussen, il meglio che la scienza può offrire è un insieme di valutazioni di esperti sulle probabilità, del tipo: «Se la concentrazione dei gas serra raggiunge il picco di 500 ppm, vi è grosso modo il 50% di probabilità di limitare il surriscaldamento a 2 ºC». Queste valutazioni differiscono a seconda degli esperti che le formulano e mutano nel tempo.
Mano a mano che la scienza procede nelle sue ricerche, l’unica certezza è che muteranno queste affermazioni probabilistiche. Più sappiamo, più sappiamo quante cose non conosciamo. La climatologia spesso produce «conoscenza mobile e incerta», l’opposto della «conoscenza fissa e certa » richiesta da Rasmussen.
Che gli obiettivi politici siano fissati come limite alla temperatura globale, come concentrazione massima dei gas serra, o come riduzione delle emissioni o di budget, alla loro base non vi è il fondamento di alcuna certezza scientifica chiara, fissa, non ambigua. Vi sono, invece, mutevoli valutazioni di esperti sui rischi e sulle incertezze del cambiamento climatico.


Rendere espliciti valori(...) La scienza non può dare numeri certi né probabilità fisse. Né è in grado di fare ciò che Bill McKibbin pretende che faccia: determinare quale sia «il limite superiore di sicurezza dell’anidride carbonica in atmosfera». L’idea della sicurezza – e del «pericolo» come suo opposto correlato – non può essere scissa dalle valutazioni etiche e politiche, individuali o collettive, che stabiliscono che cosa sia sicurezza e cosa sia pericolo.
L’analisi scientifica può rivelare e quantificare (talvolta approssimativamente) le relazioni tra causa ed effetto in termini fisici, ma non può «scoprire » quelle che sono valutazioni umane circa la sicurezza e il pericolo. Sostenere che la scienza «richiede» a noi determinate azioni, o impone che si debbano fare determinate cose per scongiurare il pericolo e raggiungere la sicurezza, è chiedere che la scienza e gli scienziati adottino posizioni fortemente normative. Significa cancellare la distinzione tra capire come è il mondo (quel che la scienza fa egregiamente) e stabilire come il mondo dovrebbe essere (un ambito nel quale la scienza non ha alcuna particolare richiesta da fare).
(...) Questo è il problema della strategia di Bill McKibbin che definisce la sua battaglia politica sulla base di un singolo numero che trae dalla scienza la sua validità. Non solo l’evidenza scientifica dietro questo numero è incerta e incompleta, ma sostenerlo come affermazione definitiva di cosa debba intendersi per «sicurezza», comporta un enorme flusso di valutazioni normative. La sua asserzione annulla la distinzione tra la ricerca scientifica su possibili effetti biogeofisici del cambiamento climatico da un lato e le valutazioni normative non-scientifiche necessarie a raggiungere una data definizione di «sicurezza» dall’altro.

Impegnarsi per un dibattito onestoIl problema del nostro errato rapporto con la scienza è semplice. Noi ci aspettiamo che essa fornisca troppe certezze, e quindi chiarezza, su quello che si dovrebbe fare e, di conseguenza, non ci impegniamo a sufficienza in un’onesta ed efficace discussione sulle nostre contrastanti visioni politiche, ideologie, convinzioni etiche. Peggio ancora, adducendo la scienza a giustificazione delle nostre prescrizioni politiche – anzi, «è la scienza che lo chiede» – rischiamo di indebolire la sua vera forza: l’essere una ricerca aperta, imparziale e critica riguardo i modi in cui opera il mondo fisico.
Questo comporta un’ulteriore conseguenza. Se costruiamo le fondamenta delle nostre politiche climatiche in modo così fiducioso e unidirezionale sulle affermazioni scientifiche circa quello che il futuro ci riserva e su ciò che pertanto «bisogna fare», la scienza diventerà inevitabilmente terreno di scontro politico. (…) I climatologi, consapevoli o meno, diventano proxies politiche, mentre vengono ignorati gli ambiti più opportuni per un confronto sulle ideologie e sui valori.
(...) Il principale terreno di scontro su cui dobbiamo dibattere nel dettaglio le implicazioni politiche del cambiamento climatico riguarda la gestione del rischio, la valutazione economica, l’ideologia politica. Dobbiamo spostare su questi temi l’ambito dell’argomentazione pubblica, non perché la scienza in certo qual modo «ha fatto » o «ha stabilito». La scienza non sarà mai nessuna di queste cose, anche se essa può fornire formidabili forme di conoscenza altrimenti non disponibili.
Invece di sostenere che i nostri obiettivi di politica climatica sono quelli «richiesti dalla scienza», dobbiamo essere onesti sulle tante valutazioni etiche, politiche e ideologiche che assumiamo a sostegno delle nostre posizioni. Questo consente ai nostri oppositori di dissentire legittimamente dalle nostre proposte, senza dover inventare false ragioni per screditare l’evidenza scientifica sul cambiamento climatico riconducibile all’attività umana.

Bjorn LomborgOpinioni di un ambientalista scettico Dopo anni in cui mi si accusava di credere a qualcosa a cui non credevo – o, più precisamente, di non credere a qualcosa a cui in realtà credevo – lo scorso mese ho fatto notizia per aver cambiato opinione, sebbene non l’avessi fatto. Confusi? Immaginatevi come mi possa sentire io.
Spiegare cosa mi sia successo può essere utile a capire qualcosa di importante sul perché il dibattito intorno al riscaldamento globale abbia prodotto così pochi risultati.
(...) Dal 2001, anno in cui pubblicai “L’ambientalista scettico”, sono stato erroneamente accusato di essere un negazionista. L’aver sempre sostenuto le origini antropogeniche alla base del cambiamento climatico non sembra aver mai avuto alcuna influenza sulle critiche rivoltemi. Ciò che importava era che io avessi avuto la temerarietà di mettere in discussione due dogmi dell’opinione pubblica: ero scettico dell’idea che saremmo stati prossimi a un’apocalisse, e non accettavo come unica soluzione l’imposizione di tagli drastici sulle emissioni carboniche.
Ma è così che funziona con l’eresia – non c’è via di mezzo. O credi che il riscaldamento globale sia il peggiore dei problemi che il genere umano abbia mai affrontato, e che ridurre le emissioni sia la unica soluzione, oppure sei un ignorantone anti-scientifico che probabilmente crede ancora che la terra sia piatta.
La mia reputazione tra gli attivisti ambientali peggiorò nel 2008, quando il Copenaghen Consensus Center, del quale sono direttore, chiese a un gruppo di esperti economisti di identificare quali investimenti avrebbero aiutato di più il pianeta. Gli esperti, tra cui 5 premi Nobel, compararono diversi possibili modi di utilizzare 75 miliardi di dollari tra più di 30 possibili interventi, tra cui ridurre la malnutrizione, accrescere le opportunità di educazione, rallentare il riscaldamento globale, ridurre l’inquinamento atmosferico, prevenire conflitti, combattere malattie, migliorare l’accesso ad acqua e servizi sanitari, ridurre le barriere del commercio e dell’immigrazione, contrastare il terrorismo, favorire la parità di genere.
Guidati dalle loro considerazioni sui relativi costi e benefici, e lasciando da parte fattori come l’attenzione dei media, gli esperti identificarono i migliori investimenti: quelli per cui anche un relativamente modesto ammontare di soldi genererebbe ritorni significativi in termini di salute, prosperità e benessere sociale.
Dal momento che gli impegni per contrastare il riscaldamento globale vengono inclusi nella comparazione, il contrasto tra salvare vite oggi e guardare a quelle future diventa chiaro. Dove potremmo spendere al meglio 10 dollari? Dovremmo ridurre le emissioni o fornire maggiore integrazione vitaminica?
Esprimendo tutti i benefici individuali, comunitari e nazionali in termini monetari, fu possibile comparare le diverse opzioni. I ricercatori del Copenaghen Consensus stabilirono che investire 10 dollari in riduzione emissiva eviterebbe un danno ambientale quantificabile in circa 3 dollari. Al contrario, spendere 10 dollari nell’integrazione di vitamina A porterebbe a benefici in salute e prosperità di lungo periodo superiori a 170 dollari. Scoprimmo che, comparata a soluzioni di altri problemi, i tagli diretti alle emissioni erano tristemente inefficaci. Una lezione da imparare è che, mentre il riscaldamento globale rischia di esacerbare problemi come la malnutrizione, comunità con un adeguato nutrimento, generalmente saranno meno vulnerabili alle minacce legate al cambiamento climatico. Complessivamente, il miglior aiuto può essere fornito attraverso interventi diretti, compresa l’integrazione di micronutrienti.
Quando pubblicammo la lista degli investimenti che ritenemmo avere la priorità, il taglio delle emissioni era quasi in fondo. Ancora una volta, fui messo alla gogna come negazionista.
Nel 2009, riunimmo un nuovo gruppo di economisti per analizzare la varietà di possibili soluzioni al cambiamento climatico oltre al semplice taglio emissivo. I nostri esperti (tra cui tre premi Nobel) identificarono un numero di altri approcci al problema che risultavano economicamente realizzabili e capaci di avere un impatto più efficace. Il più promettente richiedeva aumenti significativi di fondi in Ricerca & Sviluppo in tecnologie energeticamente sostenibili e geo-ingegneria. Ho passato una buona parte dell’anno scorso e quasi tutto quest’anno sostenendo questo approccio sensibile per mitigare il cambiamento climatico che è “uno dei principali problemi che il mondo sta affrontando oggigiorno” come ho detto in un’intervista datata 31 Agosto al quotidiano britannico The Guardian.
Ciò che accadde dopo è sorprendente. Il Guardian interpretò la mia osservazione comune come evidenza dell’ “apparente inversione a U” da parte del “negazionista sul cambiamento climatico di alto livello più famoso al mondo” e ciò suscitò una disordinata fuga di notizie tra i media. I giornali di tutto il mondo fecero a gara per riferire il mio cosiddetto cambiamento di cuore. Ho provato a spiegare come io abbia sempre pensato che il cambiamento climatico costituisse un problema. L’unica cosa che è cambiata da allora era che finalmente avevamo alcune buone soluzioni da prendere in considerazione. Alcune persone colsero il nocciolo della questione, ma altrettante non lo fecero. Per quest’ultimo gruppo, io avevo finalmente visto la luce, e questo era tutto.
Presumo che dovrei trarre qualche conforto dal fatto che sia stato accusato di essere sia un negazionista che un allarmista. Ma la natura polarizzata del dibattito sul riscaldamento globale è cosa seria, tutt’altro che oggetto di ilarità. Limitare la discussione a sole due posizioni valide – favorevole o contrario – impedisce un dibattito costruttivo. Se davvero vogliamo compiere dei progressi in materia di cambiamento climatico dobbiamo riconoscere una via di mezzo, ed essere consapevoli che, se dobbiamo fare i conti con la realtà del cambiamento climatico, politiche e soluzioni che vertono sui peggiori scenari possibili creeranno più danni che benefici. L’elegante giusto mezzo sta nel rendere l’energia pulita così conveniente che ognuno la vorrà. E su questo, non c’è nulla di poco chiaro.
***
In soli pochi anni, il cambiamento climatico è passato dall’essere il tema più caldo nell’agenda politica globale ad argomento appena preso in considerazione. (...) Oggigiorno le conferenze sul clima dell’ ONU vanno e vengono senza nemmeno la partecipazione dei leader mondiali; la possibilità di un serio accordo internazionale è stata abbandonata a se stessa.
Lo slittamento dell’importanza del riscaldamento globale nell’agenda politica è avvenuta per diverse ragioni; una di queste è la semplice constatazione che con il crescere dei problemi economici odierni, diventa naturale interessarsi meno alle lontane sfide ambientali. (...) Ma la principale ragione per cui i politici hanno preso le dovute distanze dalle iniziative di riduzione emissiva è l’imbarazzante realtà che, dopo 19 anni, non sono nemmeno vicini all’aver contribuito anche in minima parte ad evitare l’aumento delle temperature.
Riuniti a Rio di Janeiro nel 1992, i politici dei paesi sviluppati prima promisero di ridurre le emissioni entro il 2000. Non lo fecero. A Kyoto, nel 1997, i leader mondiali promisero addirittura riduzioni più stringenti entro il 2010. Le emissioni invece continuano ad aumentare. I leader non sono nemmeno riusciti a raggiungere un accordo vincolante quando si incontrarono a Copenaghen, nel 2009. E così, lo scorso anno, hanno ben pensato di stare alla larga dal summit di Cancun, lasciando la platea ai burocrati, dimostratisi incapaci come i loro capi di elaborare un piano significativo.
Perché tutti questi tentativi di tenere a freno il cambiamento climatico si sono rivelati così infruttuosi? Alcuni ambientalisti sosterranno che è la mancanza di volontà. Se solo avessimo la spina dorsale, insistono, la smetteremmo di pompare milioni di tonnellate di gas serra nell’atmosfera ogni anno.
Ma la ragione per cui continuiamo ad utilizzare combustibili fossili non è perché siamo deboli o perché ci piace irritare Al Gore. È una semplice questione economica. Le fonti fossili sono molto più convenienti ed efficienti di qualunque altra fonte alternativa, come l’eolico o il solare.
Questa è la ragione per cui paesi emergenti come Cina e India sono così riluttanti all’idea di tagliare drasticamente le proprie emissioni. Senza energia a buon prezzo, non sarebbe possibile continuare a far emergere miliardi dei loro cittadini dalla soglia della povertà. E questo è il motivo per cui i paesi avanzati hanno trovato impossibile essere all’altezza della magnifica retorica sul taglio emissivo delle ultime due decadi.
(...) Ma c’è una risposta più intelligente al cambiamento climatico. Invece di provare a rendere i combustibili fossili più costosi, perché non concentrare le risorse per rendere le energie alternative più convenienti?
(tratto da: U turn on climate? Hardly, Wall Street Journal, 15 settembre 2010; The best dollar you can ever spend, Project

Syndicate 13 gennaio 2011Cooling-off period, The Daily, 3 Febbraio 2011)

Kerry Emanuel (21 Aprile 1955)
 è professore di Scienze dell’atmosfera presso il Massachusetts Institute of Technology (Cambridge, USA). Esperto di uragani e cambiamento climatico, nel 2007 è stato eletto membro della U.S. National Academy of Sciences

Mike Hulme è professore di “Climate Change” presso la University of East Anglia. Tra il 1998 e il 2000 ha ricoperto il ruolo di senior research presso la Climatic Research Unit della stessa università. Nel 2000 ha fondato il Tyndall Centre for Climate Change Research, del quale è stato direttore fino al 2007. È autore di "Why We Disagree About Climate Change".

Bjørn Lomborg (6 gennaio 1965) è professore associato alla Copenhagen Business School; in passato ha ricoperto la carica di direttore del Environmental Assessment Institute di Copenaghen. Nel 2002, ha fondato il Copenhagen Consensus Centre, del quale è direttore. È noto per il suo best-seller “L'ambientalista scettico”.