logo dell'associazione

logo dell'associazione

Le mosche del capitale - Paolo Volponi





lunedì 07 marzo 2011 legge Elisa Vignali
"Necessità di uno scrittore inattuale”
Nel corso della sua vita Paolo Volponi (1924-1994) fece esperienza diretta del mondo industriale, collaborando con alcune delle più importanti aziende italiane del tempo, dalla Olivetti alla Fiat. Ebbe modo, così, di misurare in prima persona lo scarto sempre più consistente tra una civiltà ricca di memorie contadine e una società oramai avviata a un processo di rapida industrializzazione. A guidarlo non fu mai, però, uno sguardo nostalgicamente rivolto al passato, ma la speranza attivistica in un progetto che ambisse a conciliare i ritmi della natura con la necessaria apertura al progresso. Intrecciando il piano dell’autobiografia privata con le sorti della collettività, nelle Mosche del capitale (1989) Volponi raffigura con realismo visionario e allegorico uno scenario postindustriale, dominato dalla presenza onnipervasiva del capitale e sottoposto a una metamorfosi profonda del paesaggio. In questo romanzo dalle complesse partiture interne, tra operetta morale, apologo fantascientifico e dialogo satirico, trovano condensazione perfetta i temi principali della multiforme opera volponiana, dalla dialettica di naturale e artificiale al destino della parola letteraria nell’epoca della globalizzazione. Proprio in forza della sua inattualità, la scrittura di Volponi continua oggi a rivendicare ascolto, invitando a coltivare anche nel caos l’esercizio critico della ragione.


Paolo Volponi, Le mosche del capitale, Torino, Einaudi, 1989.
Saraccini guarda dall’alto della collina la grande città industriale che si estende nella pianura, spianata dalla notte oltre se stessa fino a sparire tra i riflessi del fiume e le fumate dei campi.
Egli è sereno e gode soddisfatto di quella visita e del generale silenzio. «E sì, è proprio un altro grande generale, il silenzio» confida a se stesso e all’universo. Tutto lo spazio intorno, con il fiato trattenuto e cauto ad ogni tonfo, sembra capirlo e ubbidirgli, riconoscergli con premura di essere quasi ricco, quasi innamorato, ancora giovane e forte, il primo nella sua città esemplare e anche nella regione; il più intelligente, equilibrato e capace dei direttori della sua gloriosa Azienda.
La grande città industriale riempie la notte di febbraio senza luna, tre ore prima dell’alba. Dormono tutti o quasi, e anche coloro che sono svegli giacciono smemorati e persi: fermi uomini animali edifici; perfino le vie i quartieri i prati in fondo, le ultime periferie ancora fuori della città, i campi agricoli intorno ai fossati e alle sponde del fiume; anche il fiume da quella parte è invisibile, coperto dalla notte se non dal sonno. Buie anche le grandi antenne delle radiocomunicazioni e dei radar della collina. È un rumore del sonno quello di un tram notturno che striscia tra gli edifici del centro. Gli uomini le famiglie i custodi i soldati le guardie gli ufficiali gli studenti dormono, ma dormono anche gli operai: e non si sentono nemmeno quelli dei turni di notte, nemmeno quelli dei turni di guardia di ronda tra le schiere dei
reparti o sotto le volte dei magazzini. Quasi tutti dormono sotto l’effetto del Valium, del Tavor e del Roipnol.
Ma dormono anche gli impianti, i forni, le condutture, dormono i nastri trasportatori delle scale mobili che depositano le pozioni chimiche nelle vasche della verniciatura o nei lavelli delle tempere. Dorme la stazione ferroviaria, dormono anche le farmacie notturne, le porte e le anticamere del pronto soccorso, dormono le banche: gli sportelli le scrivanie i cassetti le poste pneumatiche le grandi casseforti i locali blindati; dormono l’oro l’argento i titoli industriali; dormono le cambiali i certificati mobiliari i buoni del tesoro. Dormono i garzoni con le mani sul grembiule o dentro i sacchi di segatura. Dormono le prostitute i ladri gli sfruttatori le bande organizzate, i sardi e i calabresi; dormono i preti i poeti gli editori i giornalisti, dormono gli intellettuali; quanto caffè, alcool, fumo tra quelle ore. E mentre tutti dormono il valore aumenta, si accumula secondo per secondo all’aperto o dentro gli edifici.
Dormono i calcolatori, ma non perdono il conto nei loro programmi. È un problema di ordine, efficienza, produzione.
Saraccini confida negli psicofarmaci e nei calcolatori. Capiranno i giornali, i finanzieri, i direttori, i tecnici, i giovani specializzati, i consigli d’amministrazione, i contabili, i sindacalisti di fabbrica, quelli provinciali e nazionali, poi i sindaci, i politici, e poi anche i vertici della Confindustria, dell’Iri, e poi i ministri e gli editori. Tutti dovranno capire il primato sociale, culturale, scientifico dell’industria: e lo stesso capitale dovrà sottomettersi e seguirne le ragioni. Il capitale verrà rinnovato e regolato dall’industria.
Il midollo spinale dei nastri crepita, memoria e calcolo, come nel sonno il sangue circola, l’inconscio dilaga, il sogno si versa, il cervello si alimenta di nuovi scatti per i pensieri nuovi di domani. Già al primo risveglio sul lavandino sulla tazza o ancora prima sul sapore del cuscino, cresce spinto dalla vita di tutto e di tutti, il corpo e il valore del capitale. Mai un istante, anche nelle più cupe notti, cessa di crescere e prevalere; si sposta si assesta recupera forze distribuisce risorse immagina e progetta nuove strategie delinea nuovi organi e nuove facoltà.
Il sonno si spande senza alcuna innocenza, e non per fisico gravame, ma come ulteriore dato e calcolo delle compatibilità favorevoli al capitale. Tutta la città gli è sottoposta; così ciascun dormiente, ciascuno nel suo posto e letto, nel proprio sonno come in quello più grande e generale che si svuota di vapori. Il calcolatore guida e controlla, concede rincorre codifica assume imprime. Dormono anche i padroni e i custodi del calcolatore, dorme la loro coscienza vigilata da infiniti sistemi d’allarme, elettronici, quanto morali, sociali, politici, biochimici. Ronza nel grande sonno il palazzo degli uffici, anch’esso in riposo, staccato isolato da novantotto delle sue cento correnti: restano le guardie, i ronzii dei commutatori, le bocche dei revolvers, le garitte dei turni, i quadranti degli orologi, quelli di rappresentanza del grande salone d’ingresso e delle sale d’attesa.
Ogni cinque minuti scatta il calcolo degli interessi, ogni dieci quello del tasso d’inflazione, ogni mezz’ora, avendo intanto percorso il giro del mondo, l’indice di costo delle principali materie prime, ogni tre ore l’indice di valore del dollaro e del marco svizzero, seguito dopo venti minuti da quello di tutte le altre monete dei principali paesi industriali del mondo. Spesso manca la quotazione della lira. Il suo dato rimbalza all’improvviso fuori luogo insieme con quelli bigiornalieri del costo del lavoro, compresa la contingenza con la specificazione di un indice medio generale e dei seguenti indici di settore: metalmeccanici chimici tessili poligrafici, trasporti, comunicazioni, edili, cartai.
Saraccini guarda, ma non commenta: tramortito dalla potenza dell’avvenimento che lo investirà all’apertura della giornata, già prossima alla sua alba. Egli s’accorge che la notte ormai si leva e che tutto quel mondo si sta rigirando nel letto, cominciando a sporgersi verso l’alba. L’alba è un raggio sottile, diffuso dalla sua stessa leggerezza, che oscilla si dissolve e sfuma. Balza all’istante la potenza del mattino del nuovo giorno. Comincia la grandiosa impresa. Saraccini ne è investito e ammirato. Anche lui deve muoversi, cominciare. Corre verso Salisborgo C., traversa velocemente le vie ancora deserte... saltare il ponte volare sulla collina alberata atterrare davanti ai gradini di casa. Doccia, caffè, spremuta, vitamina, scarpe e cravatta. Fresco di stireria e lavanda, autorevole e giudicante, sale al terzo piano degli uffici.
[...]
Astolfo ha intorno a sé molti fedeli custodi, messi, collaboratori, confidenti. Fedeli la maggior parte con la fedeltà, la solerzia, la gratitudine commossa del cane. Ha perfino un cane, con il dono di assomigliare perfettamente a un uomo bruno e burbero, tarchiato dentro la sua mezza statura, appena labile nella fronte e nella nuca, irsuto e scosso nel cuoio capelluto, fatto di ciglia, ricco e fitto di palpebre e di espressioni dell’occhio, ma sempre inerti e astratte; con il dono, ancora più grande, incommensurabile, sacro, della parola. Della facoltà di capire, parlare, leggere e scrivere l’italiano e il dialetto, e anche tutti quei termini in inglese necessari alla definizione di industria, impresa, società industriale, lavoro.
Questo cane, meraviglioso ed esclusivo, risponde al nome di Tozzo, cui preferisce sentire premesso un «dottore», e ancor più, «egregio dottore», o meglio, «stimatissimo dottore», «nostro indispensabile signor dottore», «eccellentissimo signore nostro santo adorato protettore miracoloso e pieno di luce e di grazie buono e soccorrevole generoso e comprensivo potente umile, eccellentissimo dottor Tozzo».
Astolfo lo chiama per nome, Eros. Poi si mette ad ascoltarlo imbronciato oppure stizzito, o gli versa migliaia di parole, esclamazioni, colpetti e morsi dentro tutt’e due le orecchie, tirate su come un doppio megafono, sopra i peli irti del dorsale cranico, continuamente ondulato da scariche di brame, di devozione e di allarme istintivo e cosciente, con scariche di associazioni, immagini, scene, simboli, canti, odori, sapori, lampi, lingue, maschili e femminili, soli e giganteschi e uniti e mutati, infine... parole... lingua del «dottore» dentro e fuori... parole sue da imparare, da riempire di soddisfazione, da alleggerire, smussare, non finire di bere, reingoiare dolcissime e liquefatte dalla sua comprensione e appagamento, anche di sfumatura, trasparenza, liquore, fino alla totalità di tutte le parole e lingua dialetto inglese. Astolfo dolente e ispirato gli mostra la città dalla vetrata centrale del suo ufficio all’undicesimo piano. Recita che è brutta e che abbrutisce anche l'industria. È così brutta e sfatta che non è più raccontabile.
– Lei vorrebbe per sé la città, il racconto, tutto ciò che unisce... Tutto per sé, da non poterli distinguere... che non avrebbero vite diverse... Ecco perché non crede più nel romanzo... Ogni romanzo sarebbe un attacco al suo totale... un pezzo portato via... e raccontare cose distanti e con lingua esterna e ferma sarebbe inutile e ripetitivo. Ecco perché bisogna strappare, strappare al suo globo pezzi anche rotti e mischiati... Per lei si può raccontare solo dell’ebraismo cosmopolita e sempre inquieto, più conversatore pungente e mirabolante, intimo...
– Sì, forse ha ragione... con qualche esagerazione e anche con qualche cattiveria... e anche menzogna... menzognaccia di genere, più che bugia o falsità... Ma non crede che anch’io leggerei volentieri e con attenzione un buon romanzo nuovo, capace di vera novità... un romanzo nuovo sulla città? Posso anche arrivare a sperarlo, ma non me lo aspetto... più probabile un film... un film di cultura industriale avanzata... un film newyorkese... non certo un film italiano... il cinema romano... oppure un film, tutto diverso, di rottura... di speranza... quasi di religione... Ma lei non è qui per scrivere un romanzo, tanto meno un romanzo sulla città... È qui, piuttosto, per immaginare... per scrivere poesie, – rimarcò Astolfo, – se vuole dei progetti, delle ipotesi... Dopo di lei, qualcuno scriverà un romanzo... magari proprio su di lei.
– Ma le strategie da dove arrivano?
– Non so. So solo che oggi l’industria, anzi tutto il capitale, si identifica con lo Stato.
– Ma cosa succede alla città, alla società, agli uomini dell’industria? Che cosa si può raccontare di loro?
– Niente. Non c'è niente da raccontare. Non si racconta più. Lo stato procede, si ferma, si corregge secondo la crisi che gli è stata assegnata dall’industria. La crisi delle istituzioni è crisi delle sovrastrutture e delle produzioni. Non c'è proprio niente da raccontare. Non c’è più Madame Bovary. Ci sono le categorie sessuali, i prodotti farmaceutici, letterari, cinematografici, dietetici, comportamentali, obbligativi. Si potrebbe raccontare come mille mogli tradiscono tutte insieme, sopra la stessa biancheria, i loro mariti appesantiti dal lavoro e dall’ingenuità? I giocatori, i ribelli, gli assassini, i pescatori, i ricchi, gli avari, gli incapaci, sono ormai a milioni, tutti uguali nel mondo. Che cosa varrebbe più raccontare qualcosa di mio? Non sappiamo esattamente tutti come vive, pensa, ama, parla Rothschild? E come fa i suoi soldi? E non sappiamo anche tutti come è saltato e com’era sprovveduto Giuffré, il banchiere dei poveri? Non sa già, lei, cosa farà domani per prima cosa il presidente del consiglio nel suo gran palazzo? Tutto ciò ch’è sconosciuto è fuori, e non conta. E anche questo non si può raccontare, se non si sa chi, cosa, dove e come è, come agisce. Il racconto è finito. La narrazione, se vuole, è il bancone del supermercato. Lei non potrà mai raccontare niente di me! Niente di nuovo. La poesia non so bene che sia, né come si compia. Capivo Montale perché avevo vent’anni e mi annoiavo, solo, in un giardino, al mare, sopra una roccia. Sentivo gli stessi piccoli rumori, e vedevo venir su le stesse immagini dalla memoria e dalla malavoglia. Capisco pochissimo Dylan Thomas. Sono sorpreso e anche stupito dalle sue grandiosità ruotanti. Non capisco Ezra Pound. Chi è oggi un poeta rimarchevole in Italia? Che poesia si fa? La superficialità dei futuristi non è stata poi gran cosa di cui vantarsi. Guardavano e imitavano i motori come mezzi selvaggi e fanfaroni di provincia. Nessuno ha capito la città: specie quelle che da capoluoghi di provincia, o anche da vecchie capitali, sono diventate metropoli. Dove si riconosce la città come unità civile? Non certo nella prefettura o nel municipio. In qualche piazza affascinante, forse cattedrale? Tutto divide moltissimo... le scuole le residenze il denaro... l’automobile unisce più del tram, il fiume più del corso... unisce molto il football, lo sport...
– Allora si può raccontare la città... e ciò che unisce o ciò che divide...
– La fabbrica indubbiamente unisce... malgrado tante...
– Raccontare la fabbrica... Guerra e pace... la fabbrica e il suo popolo, nobili e servi... Napoleone e il suo esercito che minacciano... Napoleone chi sarebbe? Il sindacato? Il partito comunista? Il governo invadente e incapace di capire? Il Giappone? Il marco tedesco? Il management? La proprietà pubblica? La sofficità delle poltrone, la distanza utile dell’accendino, della cartella, l’ordine dei cristalli intorno alla tavola del consiglio...
Tozzo si ritira lentamente con la precisione esatta di una sfera elettronica, continuando a guardare il dottore con tutte le sue palpebre, ciglia, bulbi, cornee, pupille sempre più stretti e luccicanti e dondolando appassionato. I denti gli schiumano dell’acquolina copiosa del desiderio. Ma sa ricoprirsi e mandar giù, dentro di sé, senza nemmeno dover deglutire.
– Caro dottor Tozzo... – lo salutano, gli parlano nei corridoi... anche casualmente, i due direttori generali... proprio allo stesso modo... con cordialità convinta... per significare: «Sappiamo che sei un cane e che tale resterai per sempre, e che qualora ti capitasse di scontrarti contro il tuo essere inevitabilmente dolorosamente cane, noi potremo soccorrerti, grattarti la collottola, tenerti in casa, certo al tuo posto, consegnato ai servi... cane... guarda quindi di non ringhiarmi contro... di non sparlare di me al dottore, di non spargere le tue pulci tignose sulla moquette e le sedie imbottite...»
– Caro dottor Tozzo... – così dicevano e ripetevano due tre quattro volte, con pause, lentamente, insistendo e allungando il «ca» dell’attacco... lo stesso della prima sillaba di cane, come il prodigioso cane umano Tozzo e dottor Tozzo sentiva e capiva benissimo.
Allora si stringeva di più la coscienza canina, fino a sentirsela tagliare dai lunghi incisivi di pastore savoiardo, e tra quelle due lame ringhiava soffocato. Sempre uguali, sempre troppo uguali, sempre da troppo tempo troppo uguali, questi due direttori generali... sempre la stessa voce e la stessa faccia, la stessa pista di zolfo...
«Giuro, – si dondolò dal cranio fino alla radice del naso, – che appena cambiano l’odore, farò finta di non riconoscerli e li azzannerò...»
[...]
I ficus rabbrividiscono sotto il neon accanito di tutte le luci delle prime ore, quando passano le squadre dei controlli di sicurezza e della pulizia; e un poco di più ai primi squilli del telefono che precedono l’arrivo del dirigente. I ficus si rilassano nelle assenze semiilluminate, soffuse di deodorante, e si appoggiano sugli spessori biancastri delle finestre. Essi si ravvivano via via nelle attese, concentrando il colore verso lo spazio che sarà mosso e occupato dalla dirigenza. Impallidiscono nei duri colloqui. Frusciano di emozione mentale durante le stesure dei piani e delle strategie aziendali. Si inteneriscono per ciascuna nervatura e per tutte le radici nei momenti di promozione, nei trasferimenti ascensionali; e così quando si espande l’ambiente dirigenziale e la loro compita rassicurante presenza.
Nei vuoti semispenti e ronzanti di elettricità automatiche, i ficus patiscono fino a inorgoglirsi anche troppo di se stessi, soprattutto per il timore di essere trascurati. Sanno benissimo che non c’è di peggio nella cultura e nella società industriale e dell’impresa che l’essere trascurati, non convocati, ignorati anche solo per un annuncio. Allora insorgono contro la moquette e contro le tende: le disprezzano da sempre, ma adesso le attaccano cospargendole di ombre e anche di sputi e di seguito ancora con qualche bava attaccano la scrivania, il telefono, la poltrona, la porta. Tralasciano consapevolmente il terminale, conoscendo come esso sia potente, il nuovo favorito, e insieme indifferente, ma anche perché sperano che possa allearsi con loro. Almeno tacendo. Ma intanto strillano con chiarezza efferata:
– Non siete altro che dei supporti. Nient’altro che materiale appena acconciato. Ma messo proprio e solo nel senso e modo di servire. Non avete idee: vi prestate all’uso. Alle natiche ai gomiti alla schiena ai comandi di ogni tipo: manuali, orali, e anche a quelli automatici. Non avete distinzione, così come non avete specie. Non comunicate, non progettate, non ispirate, non trasformate. Non dirigete nulla. Noi siamo i veri elementi della direzione. Singolarmente e in équipe. Line e staff, research and development, marketing e work in progress. Noi siamo la creativa cultura industriale. Non abbiamo più legami con natura e climi ancestrali; niente ci inibisce e ci condiziona. Abbiamo lo spirito e il metabolismo dell’impresa. Noi pompiamo, trasformiamo, moltiplichiamo e diffondiamo risorse e beni, scienza e mercato, tecnologia e politica. I dirigenti guardano a noi per pensare e decidere; seguono il nostro verde e i rapporti del nostro ordine. Nessuno di loro ci ha mai colpiti o scalciati o addirittura scagliato via.
– Sì, ma qualcuno vi ha orinato addosso, o sputacchiato e anche vomitato.
– Sì, sì, ma qualcuno che non era più dirigente; che si buttava contro di noi appunto per colpire la direzione.
– Ma sono gli inferiori della pulizia che vi trasportano, vi depongono e vi spolverano; stirandovi proprio verso di noi, a guardare, a riverire e a consentire. Siete poco più di uno specchietto apprendista con scarsi titoli e pochissime doti. Tanto che nel nuovo progetto di arredamento è prevista la vostra rimozione. È ormai certo che la presidenza, l’amministrazione delegata e la direzione generale del nuovo palazzo uffici non saranno toccate dalla vostra presenza assurda e ingombrante.
– Sì, nel progetto probabilmente di un’impresa non più industriale, mutatasi in pura finanza, in esclusiva procacciatrice d’affari. Ma non in questa. Finché ci sarà ferro, gomma, rame, soda, carbone da trasformare; finché ci saranno macchine, forni, montaggi, bagni e magazzini e manodopera... uomini dipendenti... finché ci sarà tutto questo, ci sarà la vera industria e ci saremo noi. Noi siamo indispensabili non solo come una delle immagini più emblematiche, ma come uno dei fattori trainanti. Sicura fonte di risorse mentali, recupero, progetto, canale di energia. In questa vera industria. E badate che questo paese non può diventare – come possono immaginare gli arredatori esibizionisti e succubi di altri modelli... – non può diventare postindustriale se prima non è stato industriale. E questo noi lo comprendiamo e lo affermiamo in pieno. Voi fate solo dei salti, dei trasformismi, delle pseudoavanguardie; perché voi in realtà non contate e non sapete fare niente e allora volete inserirvi nella stabilità e nella incertezza dei trapassi, dove tutto è labile e quindi possibile. Ma sappiate che anche il più renitente dei burocrati di Stato, di partito o di chiesa possiede una poltrona, una scrivania, un telefono, una porta d’accesso.
– Ma come? Se nessuno mai vi rivolge la parola, un gesto, un impulso. Nessuno mai chiede il vostro concorso, la vostra competenza. Noi telefoni dittafoni registratori, noi sì che impartiamo ordini, soluzioni, dati a tutti, dentro e fuori l’azienda, dentro e fuori l’industria, dentro e fuori il paese. Noi siamo la vera direzione, la sua volontà e il suo linguaggio; la scienza, la filosofia, la letteratura dell’industria e anche la politica.
– Cosa dovrei dire io, poltrona? Dov’è che il dirigente, ciascuno e tutti, pensa lavora e decide? Lisciando la mia pelle, insistendo e cercando tra le mie pieghe, lungo i miei bracci, affondando la sua testa captante al calore della mia intima imbottitura.
– E io porta? Non è proprio la porta il primo segno della direzione, nella sua grandezza, posizione, selettività... limite, fermezza. Ogni comando e influenza si è sempre misurato con le porte: le porte di Ilio, di Roma, di Mosca, di Berlino e anche quelle dei continenti, geografiche e militari; dei templi, delle botteghe, dei comuni, dei quartieri, dei ghetti, dei carceri, dei teatri, delle università, dei tribunali, dei prefetti, dei padroni, dell’erario, le porte dei porti e delle strade... Cosa cercava Ulisse se non una porta? E così Dante e così tutti i veri ricercatori? E cosa cerca oggi l’avvocato G. A. o l’ingegner C. D. B. se non una porta sempre più alta, ferma esclusiva dominante invalicabile eppure apertissima, tanto da immettersi su tutto e tutti?
– E io scrivania? Io sono addirittura un fondamento. All’inizio dell’era industriale ero l’unica a distinguere la direzione. Il presidente stesso non aveva porta né telefoni né poltrone, non aveva nemmeno ufficio e tanto meno fiori e piante. C’ero solo io davanti a lui, di fronte a tutta la direzione gli uffici le fabbriche. Non posso ancora accettare la vostra presenza; siete tutti quanti il segno della involuzione di una cultura e della decadenza e divisione di un dominio. Non vi ascolto. Non mi affeziono nemmeno più a chi mi occupa: lo sento precario, sempre più come un usurpatore assediato.
Quella confessione accurata e insolita, più di psicologia sociale che individuale, quasi profetica e cosmica per quell’universo, fu seguita da una pausa. La sbloccarono i ficus proclamando: – Noi qui ovunque riusciamo a cambiare aria e a immettere ossigeno e immagini che inducono a immaginare.
– No, anche voi siete ormai tradizionali e inutili, ancora più che ingombranti, – intervenne con istantanea solennità il terminale. – Siete il segno di una stagione dell’industria: piante nane da relazioni umane. Ma oggi non è più il tempo delle human relations. Non servite alle automazioni, alle joint ventures, ai contratti; non influite sui costi né sui profitti. Siete ancora proiettati sulla trattativa, sulle mediazioni secondo le infiltrazioni politico-sociali e anche sentimentali. Non siete nemmeno patrimoniali, convertibili, frazionabili e non potete agganciarvi alla velocità del capitalismo odierno e favorire la sua assoluta astrazione. Siete ancora veri, perfino vivi.
I ficus rimasero seriamente a riflettere: sentirono sopra di loro l’attenzione partecipe di ciascun altro intorno. Proprio a questa si affidarono per trovare un punto di partenza. – Qui intorno c’è una realtà, – dissero. - Ma tu sei così finto da comprendere e restituire solo la tua finzione! Non senti i rumori di fuori e di dentro e non vedi mutare le luci e le temperature? Non riesci a sentire almeno, se proprio non ti è consentito capirlo, che sei stato fatto apposta per annullare la vera direzione e i diversi dirigenti? Tu sei stato costruito dalla negazione dell’industria e della sua cultura. Partorito da quel cinismo-ossessivo, tale, onnipotente, e ormai imperiale, che domina l’industria come una corona. L’industria vuol sfuggire a ogni realtà, compresa la sua. E tu devi aiutarla in questo annullando il tempo e lo spazio del reale. Ma noi restiamo qui dentro, anche perché vi dobbiamo tremare e sentire, e pertanto ci batteremo e forse ci salveremo nello scontro tra la simulazione e la realtà. Tu invece in quel momento verrai adoperato da una parte e dall’altra a fornire la dimostrazione più che palese che non sei un dirigente.
– Un dirigente? – rispose il terminale. – Cosa conta più un dirigente? Ormai è solo il suo sostantivo che corre tra i miei flussi, codificato con un rilievo e un carico non molto rilevanti. Debbo spiegarvi ancora che non ci sono più parti? Che esistono ormai solamente i programmi e il sistema che io posso stabilire e svolgere? Conta solo ciò che io introito codifico collego calcolo trasmetto. Tutto il resto fuori, anche gli impianti l’energia le società di ogni tipo, le persone fisiche e giuridiche, sono solo materiale; figure e volumi del passato, che io a mia discrezione posso immettere nel presente e svolgere nel futuro. Altrimenti ogni cosa resta fuori, a vivere in disordine la crisi; ciascuna nel modo che preferisce: politico, letterario, estetico... come vi pare; ma poi nemmeno tanto, perché anche in queste crisi io scarico le mie influenze. Ma su, non scoraggiatevi, continuate, tenetevi tutti insieme nei vostri ruoli, intorno e sotto di me. Ancora mi interessa la vostra compagnia. Siete tutti dirigenti se vi dirigete verso di me.