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“Le due lune” Gabriel Garcia Márquez, Oriana Fallaci, Luigi Pirandello



lunedì 15 giugno 2009 legge Angelo Valenza

Letture scelte per ragionare insieme sulla Luna

Compagna silenziosa delle notti solitarie, lanterna nell'oscurità, il satellite del nostro pianeta ha affascinato gli uomini di tutte le epoche e di ogni parte del mondo. La Luna è una certezza, un'amica sempre presente verso la quale alzare gli occhi quando ne abbiamo bisogno. Quarant'anni fa, l'impronta lasciata da Neil Armstrong sulla superficie lunare sembrò cancellare di colpo la luna che tutti avevano conosciuto fino a quel momento: la Luna dei seleniti, dei licantropi e dei boleri, la Luna dei viaggi raccontati da Verne, Ariosto, Keplero, Cyrano de Bergerac, e tanti altri... in quel luglio 1969 l'uomo metteva piede su un pianeta freddo, arido, senza vita, scientificamente importante, ma completamente privo di un qualsiasi valore poetico. Da allora, sostiene Garcia Márquez, esistono due lune, e in una di queste, nessuno potrà arrivare mai... Attraverso la testimonianza dello scrittore colombiano, le interviste di Oriana Fallaci e il genio di Pirandello, ci proponiamo di pensare insieme alla nostra Luna, qualunque essa sia.

Gabriel Garcia Marquez 25.000 milioni di chilometri quadrati senza nemmeno un fiore"
(Articolo scritto per il quotidiano spagnolo El Pais il 20 gennaio 1981)


Quando Neil Armstrong sbarcò sulla superficie lunare, ormai undici anni fa, il cronista televisivo esclamò emozionato: «Per la prima volta nella storia, l'uomo ha messo piede sulla luna». Un bambino che era con noi, e che aveva seguito con ansia i dettagli dello sbarco, gridò sorpreso: Ma è la prima volta? Che stupidaggine!
La sua delusione era comprensibile. Per un bambino del suo tempo, abituato a vagare tutte le notti per lo spazio siderale della televisione, la notizia del primo uomo sulla Luna era come tornare indietro all'Età della Pietra. Anche a me la cosa lasciò una sensazione di scoraggiamento, però per motivi più semplici. Stavamo trascorrendo l'estate nell'isola di Pantelleria, nell'estremo sud della Sicilia, e non creo che esista al mondo un posto più appropriato per pensare alla Luna.
Ricordo come un sogno le pianure interminabili di roccia vulcanica, il mare immobile, la casa dipinta di calce viva fino agli scalini, dalle cui finestre si vedevano nelle notti senza vento le ali luminose dei fari d'Africa.[...] Io pensavo con una certa nostalgia premonitrice che la Luna doveva essere così. Però lo sbarco di Armstrong aumentò il mio orgoglio patriottico: Pantelleria era migliore.
Per quelli che come me perdono il tempo pensando in cose come queste, da quel momento esistono due lune. La Luna astronomica, con la L maiuscola, il cui valore scientifico deve essere molto grande, ma che manca completamente di valore poetico. L'altra è la Luna di sempre, quella che vediamo attaccata nel cielo; la Luna unica dei licantropi e dei boleri, e alla quale – per fortuna – nessuno arriverà mai.
Fino a questo momento, la conquista dello spazio sembra essere condannata a questa classe di delusioni. La più triste è che, dopo il meraviglioso viaggio del Voyager I, si può affermare senza nessun dubbio che almeno in questa minuscola provincia del sistema solare non esiste la vita come noi la intendiamo. Venere e Mercurio, i due pianeti più vicini al Sole, sono stati squalificati già molto tempo fa, come due sfere incandescenti senza nessun Valore commerciale. I canali di Marte, che supponevamo fossero stati scavati dai nostri cugini dello spazio, non sembrano essere molto più che una pura illusione. Giove, 317 volte più grande della Terra, è un bobo gigantesco a duecento gradi sotto zero. In seguito alla fruttifera esplorazione di Saturno, solo manca da conoscere Urano, Nettuno e Plutone, i tre anziani solitari della periferia solare, le quali orbite sono tanto grandi che l'ultimo di questi tarda più di 248 dei nostri anni per finire il suo giro intorno al Sole.
L'utilità scientifica di queste scoperte è incalcolabile, però una cosa è chiara: Lì non c'è nessuno. E' un'immensa notte glaciale di 25.000 milioni di chilometri quadrati dove ci sono oceani di nitrogeno liquido, venti 10 volte più devastanti che i tifoni di
Sumatra, e tempeste apocalittiche che possono durare fino a
30.000 anni, però non c'è nemmeno un fiore. Nemmeno una rosa miserabile come questa che ho sul mio scrittoio, che si annoia forse per non essere più di ciò che è, senza sapere che lei da sola è un prodigio irripetibile in tutto l'universo. [… ]

Oriana Fallaci, Intervista a Wernher von Braun (da «L’Europeo», 2 gennaio 1969)
[...]


Ma lei ci andrebbe sulla Luna, dottor von Braun? Un posticino per uno scienziato non c’è? Farebbe comodo, oltretutto, si dice.


Ci andrei sì. Eccome. Subito. E quella di includere o no uno scienziato è una discussione bruciante che dura da anni. Io per esempio sono pronto a dar ragione a chi dice che un buon geologo può osservare aspetti sulla superficie lunare che nessun astronauta per bravo che sia può notare. La particolare formazione di una roccia, ad esempio. Gli scienziati non dovrebbero essere esclusi, sostengo. E ripeto che ciascuno di essi soggiornando nella zona Antartica, per esempio, impara cose che a scuola non aveva imparato. D’altra parte lo scopo del primo viaggio è solo questo: riuscire a mandare tre uomini abbastanza giovani e freddi da cavarsela in caso di emergenza, solo collaudatori di aerei e ingegneri capaci di raccontarci cosa v’era di sbagliato nel disegno dell’astronave. Ciò è essenziale e gli astronauti sono esattamente ciò che ci serve attualmente: piloti che non hanno paura a gettarsi giù da un aereo e riescono a seguire le fasi di un motore che brucia senza battere ciglio. In futuro, quando il tragitto Terrà-Luna sarà diventato normale, partiranno più scienziati che piloti. Ma oggi no e io temo proprio di non avere i requisiti adatti. Forse mi accetteranno nel volo numero dieci: come si accetta un vecchio zio per farlo contento.
[...]


E allora vien lecito chiederci dove ci porterà questo andare, dottor von Braun. Come un bambino curioso la scienza va avanti, scopre cose che non sapevamo, provoca cose che non immaginavamo: ma come un bambino incosciente non si chiede mai se ciò che fa è bene o è male. Dove ci porterà questo andare?


Molto lontano. Come ci hanno portato lontano le scoperte di nuovi mari, di nuovi continenti, la colonizzazione di nuovi paesi. E se questo ci porterà al bene o al male nessuno può prevederlo: fino a oggi l’uomo non ha fatto che provocare un mucchio di infelicità. Ma proprio attraverso quelle infelicità l’uomo è avanzato e al posto delle civiltà che distrusse ne ha sempre fondate di nuove. Così io non credo che ciò che facciamo sia male. Gli uomini devono andare sempre più lontano, devono allargare i loro spazi e i loro interessi: questa è la volontà di Dio. Se Dio non volesse non ci avrebbe dato il talento e la possibilità di avanzare, mutare. Se non volesse, ci fermerebbe. Ciò la stupisce? Guardi: ho conosciuto molti scienziati su questa terra e non ho mai conosciuto uno scienziato degno di portar questo nome che riuscisse a spiegar la natura senza la nozione di Dio. La scienza cerca di capire la creazione ma la religione cerca di capire il Creatore e nessuno può fare a meno di cercar di capire il Creatore. È un ben povero scienziato colui che si illude di poterne fare a meno: uno scienziato che sfiora la superficie e non guarda nel fondo. Io tento di guardare nel fondo e ci vedo del bene.


Oriana Fallaci Intervista a John Glenn (da «L’Europeo», 26 dicembre 1968)
La scienza in generale non ci ha mai dimostrato che su altri pianeti esiste la vita come sulla Terra. Ma i voli spaziali lo possono, eccome. E il giorno in cui lei incontra su un altro pianeta creature che non so immaginare, chiamiamoli "esseri-non-sappiamo-come", in qual modo si spiega la Genesi, signor colonnello?


La Bibbia non nega la vita su altri mondi. Le dirò anzi che sarei molto sorpreso di non trovare su altri pianeti ciò che lei chiama "esseri-non-sappiamo-come". Li troveremo. Se in forma di uomini o vermi, non so immaginarlo: sebbene sia certo che un giorno, tra i milioni e milioni di milioni di corpi celesti, ritroveremo anche l’uomo. Ma so immaginare creature diverse che non si sviluppano col nostro ciclo di acqua e carbone, creature che si nutrono di rocce, che non hanno né sangue né tessuti né organi: e la Bibbia non nega questo. Né nega la possibilità di amarli da veri cristiani.


E se fosse necessario ucciderli, sterminarli, questi fratelli di roccia che non hanno né sangue né tessuti né organi: lei ne soffrirebbe, colonnello?


No, non credo. Sarebbe spiacevole, mi duole solo a pensarci, ma potrei farlo. Sono un uomo che non vorrebbe veder morire nessuno, io: nemmeno alla guerra. Ma certe spedizioni saranno come andare alla guerra, e l’essenza della guerra è la morte. E poi, perché pensa subito che creature di altri pianeti ci debbano essere ostili? Potrebbero essere completamente amichevoli, buone, potremmo non essere costretti a sterminarli. Certo sarei sospettoso, vedendoli, pronto a difendermi. Ma… non lo so, non si sa. Se li trovassimo nel nostro sistema solare… Ma dovremo andare su altri sistemi solari a cercarli: e finché viviamo, io e lei, questo non accadrà. Accadrà tutt’al più fra cent’anni; e cent’anni sono poco, d’accordo. Abbastanza però da lasciarmi con quelle domande e quel sogno. Io dovrò contentarmi di andar sulla Luna.


E non la terrorizza l’idea di andar sulla Luna, affrontare un paesaggio diverso, una solitudine atroce, il dubbio di non ritornare?


Nessuno può essere sicuro al cento per cento del modo in cui reagirà. Ma io sono stato in due guerre, ho sofferto esperienze durissime: e me la sono cavata. Sono stato in volo orbitale, ho affrontato cose difficilissime: e me la sono cavata. Non vedo quindi perché non dovrei cavarmela atterrando lassù. L’allenamento al rischio provoca sempre fiducia in noi stessi e io resto assai calmo quando mi trovo in situazioni insolite. Fino ad oggi siamo stati assai fortunati: sei uomini sono partiti e sei uomini sono tornati. Una enorme fortuna. Ma non sarà sempre così, lo sappiamo.


Giusto. Tuttavia, colonnello, ho una domanda orrenda da farle. Se atterrando sulla Luna si accorgesse di non poter ripartire: si ucciderebbe? Portate un’arma o qualche pillola letale con voi?


Non portiamo nulla, non ce n’è bisogno. Se uno vuole morire non ha che da staccare l’ossigeno, o da alzare il casco, e in pochi minuti è spacciato. E se mi accorgessi di non poter ripartire… La sua è davvero una domanda orrenda… no non credo che mi ucciderei. Lei lo farebbe? Sì? Ma perché? Se fosse sicura di morire comunque, tanto varrebbe tentar di vivere più a lungo possibile. No: io tenterei di durare più a lungo possibile e solo in fondo, ma in fondo, mi lascerei morire. Quando il mio corpo si lascerebbe morire.


Oriana Fallaci, Intervista a Neil Armstrong (da Quel giorno sulla Luna,1970)
(L'intervista è avvenuta nel 1964)

Chiunque te lo descriverà come «a cold, calculating guy. Un tipo freddo, calcolatore». Il suo modo di pensare e di vivere è rigido quanto una operazione aritmetica, tutto in lui è calcolato come dentro un computer e fra i cinquantadue astronauti americani è colui che più di ogni altro possiede le virtù del robot. Vale a dire assenza di passioni, ordine e legge, controllo, nessuna fantasia. Se l’umanità del futuro sarà un esercito disciplinato di creature asettiche, cervelli elettronici, Neil Armstrong è già il futuro. Niente lo interessa fuorché volare, conoscere le macchine che servono a volare. Niente lo seduce fuorché la tecnica necessaria ad andare sulla Luna, e la Luna stessa per lui non è che uno strumento per applicare quella tecnica. Apprenderai dalla sua biografia che imparò a guidare l’aereo prima dell’automobile, che si laureò molto presto in ingegneria aeronautica, che divenne subito pilota collaudatore e che all’infuori di ciò non fece mai altro. Non lesse mai un romanzo o una poesia, non ammirò mai un quadro, non andò mai a un concerto, non si formò mai un’idea politica, non trasse mai piacere da qualcosa che non fosse un’elica o un reattore. Il suo unico hobby, quello cui dedica ogni domenica, ogni vacanza, sai qual è? Il volo planato. Sicché parlare con lui è una sofferenza che sfiora l’incubo. Io, che l’ho visto più volte in questi anni, non sono mai riuscita a stabilire con lui un contatto che assomigliasse a un contatto umano, a farlo mai indulgere a un attimo di cordialità, di curiosità, di calore, a meno che non pronunciassi le parole Mercury, Gemini’, Apollo, LM.


Che bella cosa, signor Armstrong, lei non è un militare!


«Vengo dalla NASA dov’ero ingegnere elettronico e collaudatore di jet. Non fa poi gran differenza. Voglio dire che di disciplina ne ho quanto gli altri e per andare nello spazio serve la disciplina anzitutto. Del resto non è che scelgano i militari perché sono più adatti di noi borghesi: li scelgono perché sono impacchettati e quindi è più facile pescare quello giusto. Dei militari si sa tutto, anche in quale misura ci si può fidare. Ma sapevano tutto anche di me: sono da un mucchio di anni nella NASA.»


Dev’essere stata una bella gioia, comunque, diventare astronauta.


«Non saprei. Mi ci faccia pensare...»


Non ci ha ancora pensato?!


«Per me è stato il semplice trasferimento da un ufficio all’altro. Ero in un ufficio e m’hanno messo in quest’altro. Beh, sì, penso che m’abbia fatto piacere. Fa sempre piacere salire di grado. Ma un ufficio o l’altro è lo stesso: io non ho ambizioni personali. La mia sola ambizione è contribuire alla riuscita di questo programma. Non sono un romantico.»


Niente gusto dell’avventura, perciò.


«Per carità. Io odio il pericolo, specialmente se inutile, e il pericolo è il lato più irritante del nostro mestiere. Il più stupido. Come si può trasformare in avventura un normalissimo fatto di tecnologia? E perché rischiare la vita guidando un’astronave? Illogico quanto rischiare la vita usando un frullatore elettrico per fare un frappé. Non dev’esserci nulla di pericoloso a fare un frappé e non dev’esserci nulla di pericoloso a guidare un’astronave. Una volta applicato questo concetto, cade il discorso sull’avventura. Il gusto di andare su tanto per andare su...»


Io, signor Armstrong, conosco qualcuno che andrebbe su anche sapendo di non tornare giù, solo per il gusto di andare su.


«Tra noi astronauti?»


Anche tra voi astronauti.


«Lo escludo. Se lo conoscesse, sarebbe un ragazzo. Non un adulto. Io sono un adulto.»


Signor Armstrong, a parte il frappè, le dispiacerebbe non andare sulla Luna?


«Sì, ma non ci farei una malattia, non la prenderei come un’offesa. Io non capisco, vede, quelli che sperano tanto di andarci per primi. Sono sciocchezze, bambinate, residui romantici: indegni dell’epoca razionale nella quale viviamo. Ed escludo che accetterei di andare sulla Luna sospettando di non tornare giù: a meno che non fosse tecnicamente indispensabile. Voglio dire: collaudare un jet è rischioso ma tecnicamente indispensabile. Morire nello spazio o sulla Luna non è tecnicamente indispensabile e, di conseguenza, fra morire collaudando un jet e morire sulla Luna, io scelgo di morire collaudando un jet. Lei no?»


Io no. Dinanzi a un simile dilemma, scelgo subito di morire sulla Luna. Almeno mi vedo la Luna.


«Bambinate, sciocchezze! Morire sulla Luna per vedere la Luna! Si trattasse di restarci un anno o due, forse... Non so. No, no, sarebbe un prezzo troppo alto lo stesso: perché irrazionale. Oh, se riuscissimo a sgombrare il campo dalle fanfare su questa Luna! Basta con questi sogni, con queste fanfare!»


Signor Armstrong, lei è stato alla guerra?


«Certo. In Corea. Settantotto missioni di combattimento.»


Signor Armstrong, lei ha figli?


«Certo che ho figli. Due. Dovrei non aver figli alla mia età?»


Signor Armstrong...

«È scaduto il tempo, la saluto. Devo tornare nella centrifuga per allenarmi alle alte forze di gravità.»


Non la invidio, signor Armstrong.
«Sì, è irritante. Forse ciò che odio di più. Ma è tecnicamente indispensabile. Mi spiego?»

Sì. Tecnicamente indispensabile.
«Buongiorno, allora.»


Buongiorno.

Luigi Pirandello, Ciaula scopre la luna (da Novelle per un anno, 1956)


I picconieri, quella sera, volevano smettere di lavorare senz'aver finito d'estrarre le tante casse di zolfo che bisognavano il giorno appresso a caricar la calcara. Cacciagallina, il soprastante, s'affierò contr'essi, con la rivoltella in pugno, davanti la buca della Cace, per impedire che ne uscissero.
«Corpo di... sangue di... indietro tutti, giù tutti di nuovo alle cave, a buttar sangue fino all'alba, o faccio fuoco!»
«Bum!» fece uno dal fondo della buca. «Bum!» echeggiarono parecchi altri; e con risa e bestemmie e urli di scherno fecero impeto, e chi dando una gomitata, chi una spallata, passarono tutti, meno uno. Chi? Zi' Scarda, si sa, quel povero cieco d'un occhio, sul quale Cacciagallina poteva fare bene il gradasso. Gesù, che spavento! Gli si scagliò addosso, che neanche un leone; lo agguantò per il petto e, quasi avesse in pugno anche gli altri, gli urlò in faccia, scrollandolo furiosamente:
«Indietro tutti, vi dico, canaglia! Giù tutti alle cave, o faccio un macello!»
Zi' Scarda si lasciò scrollare pacificamente. Doveva pur prendersi uno sfogo, quel povero galantuomo, ed era naturale se lo prendesse su lui che, vecchio com'era, poteva offrirglielo senza ribellarsi. Del resto, aveva anche lui, a sua volta, sotto di sé qualcuno più debole, sul quale rifarsi più tardi: Ciàula, il suo caruso.
Quegli altri... eccoli là, s'allontanavano giù per la stradetta che conduceva a Comitini; ridevano e gridavano: «Ecco, sì! tienti forte codesto, Cacciagallì! Te lo riempirà lui il calcherone per domani!» «Gioventù!» sospirò con uno squallido sorriso d'indulgenza zi' Scarda a Cacciagallina. E, ancora agguantato per il petto, piegò la testa da un lato, stiracchiò verso il lato opposto il labbro inferiore, e rimase così per un pezzo, come in attesa.
Era una smorfia a Cacciagallina? o si burlava della gioventù di quei compagni là? Veramente, tra gli aspetti di quei luoghi, strideva quella loro allegria, quella velleità di baldanza giovanile. Nelle dure facce quasi spente dal bujo crudo delle cave sotterranee, nel corpo sfiancato dalla fatica quotidiana, nelle vesti strappate, avevano il livido squallore di quelle terre senza un filo d'erba, sforacchiate dalle zolfare, come da tanti enormi formicaj.
Ma no: zi' Scarda, fisso in quel suo strano atteggiamento, non si burlava di loro, né faceva una smorfia a Cacciagallina. Quello era il versaccio solito, con cui, non senza stento, si deduceva pian piano in bocca la grossa lagrima, che di tratto in tratto gli colava dall'altro occhio, da quello buono. Aveva preso gusto a quel saporino di sale, e non se ne lasciava scappar via neppur una. Poco: una goccia, di tanto in tanto; ma buttato dalla mattina alla sera laggiù, duecento e più metri sottoterra, col piccone in mano, a ogni colpo gli strappava come un ruglio di rabbia dal petto, zi' Scarda aveva sempre la bocca arsa: e quella lagrima, per la sua bocca, era quel che per il naso sarebbe stato un pizzico di rapè.
Un gusto e un riposo.
Quando si sentiva l'occhio pieno, posava per un poco il piccone e, guardando la rossa fiammella fumosa, della lanterna confitta nella roccia, che alluciava nella tenebra dell'antro infernale qualche scaglietta di zolfo qua e là, o l'acciajo del paolo o della piccozza, piegava la testa da un lato, stiracchiava il labbro inferiore e stava ad aspettar che la lagrima gli colasse giù, lenta, per il solco scavato dalle precedenti.
Gli altri, chi il vizio del fumo, chi quello del vino; lui aveva il vizio della sua lagrima. Era del sacco lacrimale malato e non di pianto, quella lagrima; ma si era bevute anche quelle di pianto, zi' Scarda, quando, quattr'anni addietro, gli era morto l'unico figliolo, per lo scoppio d'una mina, lasciandogli sette orfanelli e la nuora da mantenere. Tuttora gliene veniva giù qualcuna più salata delle altre; ed egli la riconosceva subito: scoteva il capo, allora, e mormorava un nome:
«Calicchio...»
In considerazione di Calicchio morto, e anche dell'occhio perduto per lo scoppio della stessa mina, lo tenevano ancora lì a lavorare. Lavorava più e meglio di un giovane; ma ogni sabato sera, la paga gli era data, e per dir la verità lui stesso se la prendeva, come una carità che gli facessero: tanto che, intascandola, diceva sottovoce, quasi con vergogna:
«Dio gliene renda merito»
Perché, di regola, doveva presumersi che uno della sua età non poteva più lavorar bene.
Quando Cacciagallina alla fine lo lasciò per correre dietro agli altri e indurre con le buone maniere qualcuno a far nottata, zi' Scarda lo pregò di mandare almeno a casa uno di quelli che ritornavano al paese, ad avvertire che egli rimaneva alla zolfara e che perciò non lo aspettassero e non stessero in pensiero per lui; poi si volse attorno a chiamare il suo caruso, che aveva più di trent'anni (e poteva averne anche sette o settanta, scemo com'era); e lo chiamò col verso con cui si chiamava le cornacchie ammaestrate:
«Tè, pà! tè, pà!»
Ciàula stava a rivestirsi per ritornare al paese. Rivestirsi per Ciàula significava togliersi prima di tutto la camicia, o quella che un tempo era stata forse una camicia: l'unico indumento che, per modo di dire, lo coprisse durante il lavoro. Toltasi la camicia, indossava sul torace nudo, in cui si potevano contare a una a una tutte le costole, un panciotto bello largo e lungo, avuto in elemosina, che doveva essere stato un tempo elegantissimo e sopraffino (ora il luridume vi aveva fatto una tal roccia, che a posarlo per terra stava ritto). Con somma cura Ciàula ne affibbiava i sei bottoni, tre dei quali ciondolavano, e poi se lo mirava addosso, passandoci sopra le mani, perché veramente ancora lo stimava superiore a' suoi meriti: una galanteria. Le gambe nude, misere e sbilenche, durante quell'ammirazione, gli si accapponavano, illividite dal freddo. Se qualcuno dei compagni gli dava uno spintone e gli allungava un calcio, gridandogli: - Quanto sei bello! - egli apriva fino alle orecchie ad ansa la bocca sdentata a un riso di soddisfazione, poi infilava i calzoni, che avevano più d'una finestra aperta sulle natiche e sui ginocchi: s'avvolgeva in un cappottello d'albagio tutto rappezzato, e, scalzo, imitando meravigliosamente a ogni passo il verso della cornacchia - cràh! cràh! - (per cui lo avevano soprannominato Ciàula), s'avviava al paese.
«Cràh! cràh!» rispose anche quella sera al richiamo del suo padrone; e gli si presentò tutto nudo, con la sola galanteria di quel panciotto debitamente abbottonato.
«Va', va' a rispogliarti,» gli disse zi' Scarda. «Rimettiti il sacco e la camicia. Oggi per noi il Signore non fa notte».
Ciàula non fiatò; restò un pezzo a guardarlo a bocca aperta, con occhi da ebete; poi si poggiò le mani sulle reni e, raggrinzando in su il naso, per lo spasimo, si stirò e disse:
«Gna bonu! (Va bene)».
E andò a levarsi il panciotto.
Se non fosse stato per la stanchezza e per il bisogno del sonno, lavorare anche di notte non sarebbe stato niente, perché laggiù, tanto, era sempre notte lo stesso. Ma questo, per zi' Scarda.
Per Ciàula, no. Ciàula, con la lumierina a olio nella rimboccatura del sacco su la fronte, e schiacciata la nuca sotto il carico, andava su e giù per la lubrica scala sotterranea, erta, a scalini rotti, e su, su, affievolendo a mano a mano, con fiato mozzo, quel suo crocchiare a ogni scalino, quasi un gemito di strozzato, rivedeva a ogni salita la luce del sole. Dapprima ne rimaneva abbagliato; poi col respiro che traeva nel liberarsi del carico, gli aspetti noti delle cose circostanti gli balzavano davanti; restava, ancora ansimante, a guardarli un poco e, senza che n'avesse chiara coscienza, se ne sentiva confortare.
Cosa strana: della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto stava in agguato la morte, Ciàula non aveva paura, né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in uno stagno d'acqua sulfurea: sapeva sempre dov'era; toccava con la mano in cerca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno.
Aveva paura, invece, del bujo vano della notte.
Conosceva quello del giorno, laggiù, intramezzato da sospiri di luce, di là dall'imbuto della scala, per cui saliva tante volte al giorno, con quel suo specioso arrangolio di cornacchia strozzata. Ma il bujo della notte non lo conosceva.
[...]
Alla fine il carico fu pronto, e zi' Scarda ajutò Ciàula a disporlo e rammontarlo sul sacco attorto dietro la nuca.
A mano a mano che zi' Scarda caricava, Ciàula sentiva piegarsi, sotto, le gambe. Una, a un certo punto, prese a tremargli convulsamente così forte che, temendo di non più reggere al peso, con quel tremitìo, Ciàula gridò:
«Basta! Basta!»
«Che basta, carogna!» gli rispose zi' Scarda.
E seguitò a caricare. Per un momento la paura del bujo della notte fu vinta dalla costernazione che, così caricato, e con la stanchezza che si sentiva addosso, forse non avrebbe potuto arrampicarsi fin lassù. Aveva lavorato senza pietà tutto il giorno. Non aveva mai pensato Ciàula che si potesse aver pietà del suo corpo, e non ci pensava neppur ora; ma sentiva che, proprio, non ne poteva più. Si mosse sotto il carico enorme, che richiedeva anche uno sforzo d'equilibrio. Sì, ecco, sì, poteva muoversi, almeno finché andava in piano. Ma come sollevar quel peso, quando sarebbe cominciata la salita?
Per fortuna, quando la salita cominciò, Ciàula fu ripreso dalla paura del bujo della notte, a cui tra poco si sarebbe affacciato.
Attraversando le gallerie, quella sera, non gli era venuto il solito verso della cornacchia, ma un gemito raschiato, protratto. Ora, su per la scala, anche questo gemito gli venne meno, arrestato dallo sgomento del silenzio nero che avrebbe trovato nella impalpabile vacuità di fuori.
La scala era così erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all'ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava in alto. Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava di sopra, e su la cui lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno, egli veniva su, su, su, dal ventre della montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca, che lassù lassù si apriva come un occhio chiaro, d'una deliziosa chiarità d'argento.
Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.
Possibile?
Restò - appena sbucato all'aperto - sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d'argento.
Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
Sì, egli sapeva, sapeva che cos'era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C'era la Luna! la Luna! E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell'averla scoperta, là, mentr'ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.