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L’Affaire Moro e A futura memoria-Leonardo Sciascia





lunedì 16 novembre 2009 legge Matteo Marchesini 
A vent'anni dalla morte, la fortuna di Leonardo Sciascia è emblematica dell'Italia del 2000. C'è infatti uno Sciascia inglobato nel senso comune (l'autore del Giorno della civetta) e uno Sciascia rimosso: che corrisponde al castigatore della retorica italiana, sia quella di Chiesa, Comunismo o Antimafia poco importa. E' lo Sciascia dell'Affaire Moro e delle polemiche condotte lungo gli anni '80 contro la mitologizzazione della nostra realtà politica e culturale: mitologizzazione imposta, dopo il compromesso storico, sia dagli avversari di sempre sia da una nuova stampa progressista (la Repubblica di Scalfari) destinata a emarginare la sinistra critica e libertaria alla quale lui aderì fino alla fine. Oggi il perbenismo progressista ha prevalso al punto che il sottotitolo della sua ultima raccolta di articoli, «se la memoria ha un futuro», appare ben più che un'ironia beffarda: a sinistra nessuno ricorda le sue opinioni acute e lapidarie su personaggi che posano ora a padri della patria; mentre le rare citazioni, rozze e strumentali, vengono da una destra cui Sciascia mai appartenne. Per questo ci pare importante rileggere alcuni suoi brani su Moro, il Pci e la giustizia; e discuterli con quella diderotiana mancanza di riguardo che fu la sua sola religione.


da L'Affaire Moro (1978)(...)
Nel farsi di ogni avvenimento che poi grandemente si configura c'è un concorso di minuti avvenimenti, tanto minuti da essere a volte impercettibili, che in un moto di attrazione e di aggregazione corrono verso un centro oscuro, verso un vuoto campo magnetico in cui prendono forma: e sono, insieme, il grande avvenimento appunto. In questa forma, nella forma che insieme assumono, nessun minuto avvenimento è accidentale, incidentale, fortuito: le parti, sia pure molecolari, trovano necessità - e quindi spiegazione - nel tutto; e il tutto nelle parti.
Uno di questi piccoli avvenimenti è nell'Affaire Moro l'espressione «il grande statista» che ad un certo punto sostituisce il nome Moro o espressioni come «il presidente della Democrazia Cristiana», «il leader», «il grande leader», «il leader prestigioso»... Nei giornali del 18 marzo ci imbattiamo per la prima volta nella definizione di «statista» elargita a Moro: ma nella dichiarazione - è da presumere tradotta - del segretario generale dell'ONU («uno dei più eminenti statisti d'Italia»). La parola si riaffaccia sui giornali, ma sporadicamente, dopo il primo messaggio di Moro: la lettera al ministro degli Interni Cossiga. Il 18 aprile la si coglie, per la prima volta accompagnata dall'aggettivo «grande», nel messaggio del presidente Carter. Non sappiamo come suonasse nel testo originale; comunque l'espressione era quella che ci voleva, quella che si cercava, affinché ogni riferimento a Moro contenesse - sottaciuto ma effettuale - un confronto tra quel che era stato e quel che più non era. Era stato un «grande statista»; e ora altro non era che un uomo (parole sue, nella prima lettera dalla «prigione del popolo»: e saranno, fin oltre la conclusione della vicenda, le più citate) «sotto un dominio pieno ed incontrollato».
«Statista» è propriamente l'uomo dello Stato: colui che allo Stato, alla struttura che lo costituisce, alle leggi che lo regolano, devolve intelligente fedeltà, meditazione, studio; e «grande statista», ovviamente, colui che queste facoltà e attività devolve al massimo grado. E come era possibile ritrovare l'immagine del «grande statista» nei messaggi che Moro mandava dalla «prigione del popolo»? Le Brigate rosse lo avevano distrutto: al posto del «grande statista» c'era un uomo che forse subiva sevizie fisiche, forse veniva drogato e sicuramente viveva nell'incubo di una costante minaccia di morte in cui smarriva quel «senso dello Stato» che altamente aveva dimostrato di avere in più che trent'anni di attività politica. Grande e spiccata menzogna, tra le tante in quei giorni rigogliose. Né Moro né il partito da lui presieduto avevano mai avuto il «senso dello Stato». L'idea dello Stato quale alcuni esponenti del Partito Comunista Italiano avevano cominciato ricattatoriamente ad agitare nel maggio dell'anno prima - idea che sembrava discendere e forse, per ragioni che qui ed ora non è il caso di esaminare, discendeva più dal lato destro che dal lato sinistro di Hegel - probabilmente aveva attraversato la mente di Aldo Moro soltanto negli anni giovanili, nell'agguerrirsi a quei ludi culturali che il regime fascista organizzava (i «littoriali»: e «littori» erano proclamati coloro che li vincevano): ma senza lasciar traccia nei suoi pensieri - o nel suo pensiero, se si vuole per lui rivendicare o ammettere una concezione ben definita ed articolata del fatto politico e del far politica. E figuriamoci nelle menti sicuramente meno ammobiliate - direbbe Savinio - di pensiero, e probabilmente di pensieri, di una gran parte di coloro cui Moro era guida ed esempio. E del resto il richiamo e la congenialità per cui almeno un terzo dell'elettorato italiano si riconosceva e si riconosce nel partito della Democrazia Cristiana appunto risiedono nell'assenza, in questo partito, di un'idea dello Stato: assenza rassicurante, e si potrebbe anche dire energetica.
In effetti, la polemica mossa l'anno avanti da alcuni esponenti del Partito Comunista Italiano contro chi mostrava di non amare svisceratamente lo Stato - lo Stato italiano così com'era — fece da ouverture a quel melodramma di amore allo Stato che sulla scena italiana grandiosamente si recitò dal 16 marzo al 9 maggio del 1978. E vittime di questa grandiosa messa in scena - come schiacciati dalle massicce quinte, dai massicci fondali - sembravano essere coloro che non nutrivano grande amore per lo Stato o per lo Stato italiano così com'era; ma la vera vittima ne era Aldo Moro.
Moro non era stato, fino al 16 marzo, un «grande statista». Era stato, e continuò ad esserlo anche nella «prigione del popolo», un grande politicante: vigile, accorto, calcolatore; apparentemente duttile ma effettualmente irremovibile; paziente ma della pazienza che si accompagna alla tenacia; e con una visione delle forze, e cioè delle debolezze, che muovono la vita italiana, tra le più vaste e sicure che uomo politico abbia avuto. E proprio in ciò stava la sua peculiarità: nel conoscere le debolezze e nell'avere adottato una strategia che le alimentasse dando al tempo stesso, a chi quelle debolezze portava, l'illusione che si fossero mutate in forza. E in questa sua strategia convergevano due esperienze, ataviche e personali: il cattolicesimo italiano e quella versione, nella più cruda e feroce quotidianità, del cattolicesimo italiano che è la vita sociale (cioè asociale) del meridione d'Italia. Strategia negli effetti paragonabile a quella di Kutuzov di fronte a Napoleone. E più volte mi è avvenuto, quando Moro era in fortuna, di paragonarlo a Kutuzov così come Tolstoj lo descrive e muove in Guerra e pace. E si pensi al capitolo XV della prima parte: al principe Andrea che rivede Kutuzov immutato nella «espressione di stanchezza della faccia e della figura»; a Kutuzov che con aria stanca e ironica ascolta quel Denisov, che ha un piano per tagliare i rifornimenti a Napoleone e salvare la patria, e poi lo interrompe chiedendogli se è parente dell'intendente generale Denisov; a Kutuzov che «conosceva qualcosa d'altro, che doveva decidere le sorti della guerra» — qualcosa d'altro che non stava nei piani più o meno intelligenti, ma nella geografia e nel modo di essere del popolo russo.
A vederlo sullo schermo della televisione, Moro sembrava preda della più antica stanchezza, della più profonda noia. Soltanto a tratti, tra occhi e labbra, si intravedeva un lampeggiare d'ironia o di disprezzo: ma subito appannato da quella stanchezza, da quella noia. Ma si aveva il senso che conoscesse «qualcosa d'altro»: il segreto italiano e cattolico di disperdere il nuovo nel vecchio, di usare ogni nuovo strumento per servire regole antiche e, principalmente, di una conoscenza tutta in negativo, in negatività, della natura umana. Il che gli era al tempo stesso afflizione ed arma. Arma usata con dolore: visibilmente. Ma usata. Era, come dice Pasolini, «il meno implicato di tutti»: ma proprio l'essere il meno implicato gli dava, su tutti nella Democrazia Cristiana, l'incontrastabile e anzi alleviante autorità di parlare in nome di tutti: potere e insieme sacrificio. E fuori della Democrazia Cristiana, di fronte agli altri partiti e all'Italia intera, questa situazione funzionava nel senso della credibilità, della fiducia; e direi pateticamente.
Se un'idea ebbe Moro che somigliasse all'idea dello Stato, quest'idea stava come murata dentro la Democrazia Cristiana, dentro la medievale città - che sembrava aperta e indifesa, ma al momento del pericolo si rivelava munitissima, vigilata e sbarrata — della Democrazia Cristiana.
(...)
da A futura memoria (se la memoria ha un futuro) (1989)
[Nell'anno 2009, il brano che segue ha bisogno di essere accompagnato da una breve chiosa. Primo: il sindaco cui si fa cenno è Leoluca Orlando. Secondo: Sciascia si chiarì poi con Paolo Borsellino, che aveva capito presto come la sua polemica non fosse ad personam ma riguardasse l'arbitrio decisionale del Csm. In un successivo articolo contro Eugenio Scalfari, Sciascia nota infatti che i criteri con cui il Consiglio superiore della magistratura ha motivato la promozione di Borsellino contraddicono quelli con cui ha motivato un anno più tardi la promozione di Antonino Meli nel ruolo di consigliere istruttore a Palermo, preferendolo a Giovanni Falcone. Infine: questo intervento, come molti altri, va inscritto nel quadro di una battaglia garantista che lo scrittore condusse durante gli anni '80 insieme ai radicali, e che ruotò principalmente intorno al caso Tortora, alla responsabilità civile dei magistrati, ai rischi del pentitismo.]
I professionisti dell'antimafia, Corriere della Sera, 10 gennaio 1987
Autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all’eroismo che non costa nulla e che i milanesi dopo le Cinque giornate, denominarono “eroi della sesta”.
1. “Da questo stato d’animo sorse, improvvisa, la collera. Il capitano sentì l’angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero alla memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti… Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche: mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto […] sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso.” (Il giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961.)
2. “Ma il fatto è, mio caro amico, che l’Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua… Ho visto qualcosa di simile quarant’anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia: ma io sono ugualmente inquieto.” (A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966.)
Esibite queste credenziali che, ripeto, non servono agli attenti e onesti lettori, e dichiarato che la penso esattamente come allora, e nei riguardi della mafia e nei riguardi dell’antimafia, voglio ora dire di un libro recentemente pubblicato da un editore di Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro: Rubbettino. Il libro s’intitola La mafia durante il fascismo, e ne è autore Christopher Duggan, giovane ricercatore dell’Università di Oxford e allievo di Denis Mack Smith, che ha scritto una breve presentazione del libro soprattutto mettendone in luce la novità e utilità nel fatto che l’attenzione dell’autore è rivolta non tanto alla “mafia in sé” quanto a quel che “si pensava la mafia fosse e perché”: punto focale, ancor oggi, della questione: per chi si capisce sa vedere, meditare e preoccuparsi; per chi sa andare oltre le apparenze e non si lascia travolgere dalla retorica nazionale che in questo momento del problema della mafia si bea come prima si beava di ignorarlo o, al massimo, di assommarlo al pittoresco, al colore locale, alla particolarità folcloristica.
Ed è curioso che nell’attuale consapevolezza (preferibile senz’altro anche se alluvionata di retorica all’effettuale indifferenza di prima) confluiscano elementi di un confuso risentimento razziale nei riguardi della Sicilia, dei siciliani: e si ha a volte l’impressione che alla Sicilia non si voglia perdonare non solo la mafia, ma anche Verga, Pirandello e Guttuso.
Ma tornando al discorso: non mi faccio nemmeno l’illusione che quei miei due libri, cui appartengono i passi che ho voluto ricordare, siano serviti - a parte i soliti venticinque lettori di manzoniana memoria (che non era una iperbole a rovescio, dettata dal cerimoniale della modestia: poiché c’è da credere che non più di venticinque buoni lettori goda, ad ogni generazione, un libro) - siano serviti ai tanti, tantissimi che l’hanno letto ad apprender loro dolorosa e in qualche modo attiva coscienza del problema: credo che i più li abbiano letti, per così dire, en touriste, allora; e non so come li leggano oggi. Tant’è che allora il “lieto fine” - e se non lieto edificante - era nell’aria, per trasmissione di potere a quella cultura che, anche se marginalmente, lo condivideva: come nel film In nome della legge, in cui letizia si annunciava nel finale conciliarsi del fuorilegge alla legge.
Ed è esemplare la vicenda del dramma La mafia di Luigi Sturzo. Scritto nel 1900, e rappresentato in un teatrino di Caltagirone, non si trovò tra le carte di Sturzo, dopo la sua morte, il quinto atto che lo completava; e lo scrisse Diego Fabbri, volgarmente pirandelleggiando e con edificante conclusione. Ritrovati più tardi gli abbozzi di Sturzo per il quinto atto, si scopriva la ragione per cui la pièce era stata dal suo autore chiamata dramma (il che avrebbe dovuto esser per Fabbri avvertimento a non concluderla col trionfo del bene): andava a finire male e nel male, coerentemente a quel che don Luigi Sturzo sapeva e vedeva. Siciliano di Caltagirone, paese in cui la mafia allora soltanto sporadicamente sconfinava, bisogna dargli merito di aver avuto chiarissima nozione del fenomeno nelle sue articolazioni, implicazioni e complicità; e di averlo sentito come problema talmente vasto, urgente e penoso da cimentarsi a darne un “essemplo” (parola cara a san Bernardino) sulla scena del suo teatrino. E come poi dal suo partito popolare sia venuta fuori una democrazia cristiana a dir poco indifferente al problema, non è certo un mistero: ma richiederà, dagli storici, un’indagine e un’analisi di non poca difficoltà. E ci vorrà del tempo; almeno quanto ce n’è voluto per avere finalmente questa accurata indagine e sensata analisi di Christopher Duggan su mafia e fascismo.
L’idea, e il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgere là dove il socialismo è debole; in Sicilia la mafia ha impedito che il socialismo prendesse forza: la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti, dei giovani che dal partito nazionalista di Federzoni per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate, nell’invigorirsi del fascismo nelle regioni settentrionali e nella permissività e protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di quasi tutte le autorità dello stato; nella paura che incuteva ai vecchi rappresentanti dell’ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero, un ruolo invadente e temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e, almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi “risorgimentali” - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena dopo il delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco (figura del fascismo isolano, di linea radical borghese e progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese e promosse nei suoi ranghi).
Nel fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange “rivoluzionarie” per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano - a garantire al fascismo almeno l’immagine di restauratore dell’ordine pubblico - liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti.
E non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava solennemente decorando al valor civile nei paesi “mafiosi”): che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto. Mori, dice Duggan, “era per natura autoritario e fortemente conservatore”, aveva “forte fede nello stato”, “rigoroso senso del dovere”. Tra il ‘19 e il ‘22 si era considerato in dovere di imporre anche ai fascisti il rispetto della legge: per cui subì un allontanamento dalle cariche nel primo affermarsi del fascismo, ma forse gli valse quel periodo di ozio a scrivere quei ricordi sulla sua lotta alla criminalità in Sicilia dal sentimentale titolo di Tra le zagare, oltre la foschia, che certamente contribuì a farlo apparire come l’uomo adatto, conferendogli poteri straordinari, a reprimere la virulenta criminalità siciliana.
Rimasto inalterato il suo senso del dovere nei riguardi dello stato, che era ormai lo stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il conservatorismo in cui il fascismo andava configurandosi, l’innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c’è, nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell’opinione pubblica) nascondeva anche il gioco di una fazione fascista conservatrice e di vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più debole.
Sicché se ne può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come “mafioso”. Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.
E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall’acqua che manca all’immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno, molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo: e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la democrazia cristiana: et pour cause, come si è tentato prima di spiegare. Questo è un esempio ipotetico.
Ma eccone uno attuale ed effettuale. Lo si trova nel Notiziario straordinario n. 17 (10 settembre 1986) del Consiglio superiore della magistratura. Vi si tratta dell’assegnazione del posto di procuratore della repubblica a Marsala al dottor Paolo Emanuele Borsellino e della motivazione con cui si fa proposta di assegnarglielo salta agli occhi questo passo: “Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di graduatoria precedono il dottor Borsellino, si impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne impone il ‘superamento’ da parte del più giovane aspirante.”
Passo che non si può dire un modello di prosa italiana, ma apprezzabile per certe delicatezze come “la diversa anzianità”, che vuol dire della minore anzianità del dottor Borsellino, e come quel “superamento” (pudicamente messo tra virgolette), che vuol dire della bocciatura degli altri più anziani e, per graduatoria, più in diritto di ottenere quel posto. Ed è impagabile la chiosa con cui il relatore interrompe la lettura della proposta, in cui spiega che il dottor Alcamo che par di capire fosse il primo in graduatoria è “magistrato di eccellenti doti”, e lo si può senz’altro definire come “magistrato gentiluomo”, anche perché, con schiettezza e lealtà ha riconosciuto una sua lacuna “a lui assolutamente non imputabile”: quella di non essere stato finora incaricato di processi di mafia. Circostanza “che comunque non può esser trascurata”, anche se non si può pretendere che il dottor Alcamo “pietisse l’assegnazione di questo tipo di procedimenti, essendo questo modo di procedere tra l’altro risultato alieno dal suo carattere”. E non sappiamo se il dottor Alcamo questi apprezzamenti li abbia quanto o più graditi rispetto alla promozione che si aspettava.
I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di “magistrato gentiluomo”, c’è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?