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La carta moschicida per Umano, troppo umano (tra Musil e Bresson)





lunedì 10 maggio 2010 legge Sandro Sproccati
Umano, troppo umano... (microstorie di ordinaria animalezza)
La carta moschicida, un breve testo di Robert Musil – postumo eppure no, stando all’ideale paradosso escogitato dal suo autore, Pagine postume pubblicate in vita –riconduce alla grandiosità di una “vicenda epica” (ossia all’ineffabile schianto della morte, ovunque essa si inveri) la micro-tragedia di una mosca impegolata nel suo destino vischiosissimo, facendo risaltare in filigrana la violenza inaccettabile, anch’essa molto umana, che quel destino ha predisposto. La trappola dell’illuminismo, l’inganno fatale della ragione, si ritorce contro di sé: disumanando i superiori e umanizzando i minimi. D’altro canto, con il film Au hasard Balthazar!, Robert Bresson ci ha donato la biografia tenera e inappuntabile di un asino che è infinitamente piú degno (e anche piú filosofo) di tutti coloro che dall’alto della loro arroganza – ossia dei loro mezzi di dominio – lo schiavizzano, lo sfruttano, infine lo sopprimono. Due vicende parallele, due artisti capaci di volgere verso il basso uno sguardo degli affetti e dell’intelligenza, e di cogliere la profonda verità di umili e apparentemente insignificanti esseri viventi (un insetto, un ciuco) per ravvisare in essi la persistenza del dolore, ma altresí per evocare l’utopia di una dignità alla quale dovremmo ambire tutti noi che siamo gettati, nostro malgrado, dentro il tritacarne della vita.

Robert Musil, DAS FLIEGENPAPIER
Das Fliegenpapier Tangle-foot ist ungefähr sechsunddreißig Zentimeter lang und einundzwanzig Zentimeter breit; es ist mit einem gelben, vergifteten Leim bestrichen und kommt aus Kanada. Wenn sich eine Fliege darauf niederläßt - nicht besonders gierig, mehr aus Konvention, weil schon so viele andere da sind - klebt sie zuerst nur mit den äußersten, umgebogenen Gliedern aller ihrer Beinchen fest. Eine ganz leise, befremdliche Empfindung, wie wenn wir im Dunkel gingen und mit nackten Sohlen auf etwas träten, das noch nichts ist als ein weicher, warmer, unübersichtlicher Widerstand und schon etwas, in das allmählich das grauenhaft Menschliche hineinflutet, das Erkanntwerden als eine Hand, die da irgendwie liegt und uns mit fünf immer deutlicher werdenden Fingern festhält. Dann stehen sie alle forciert aufrecht, wie Tabiker, die sich nichts anmerken lassen wollen, oder wie klapprige alte Militärs (und ein wenig o-beinig, wie wenn man auf einem scharfen Grat steht). Sie geben sich Haltung und sammeln Kraft und Überlegung. Nach wenigen Sekunden sind sie entschlossen und beginnen, was sie vermögen, zu schwirren und sich abzuheben. Sie führen diese wütende Handlung so lange durch, bis die Erschöpfung sie zum Einhalten zwingt.
Es folgt eine Atempause und ein neuer Versuch. Aber die Intervalle werden immer länger. Sie stehen da, und ich fühle, wie ratlos sie sind. Von unten steigen verwirrende Dünste auf. Wie ein kleiner Hammer tastet ihre Zunge heraus. Ihr Kopf ist braun und haarig, wie aus einer Kokosnuß gemacht; wie menschenähnliche Negeridole. Sie biegen sich vor und zurück auf ihren festgeschlungenen Beinchen, beugen sich in den Knien und stemmen sich empor, wie Menschen es machen, die auf alle Weise versuchen, eine zu schwere Last zu bewegen; tragischer als Arbeiter es tun, wahrer im sportlichen Ausdruck der äußersten Anstrengung als Laokoon. Und dann kommt der immer gleich seltsame Augenblick, wo das Bedürfnis einer gegenwärtigen Sekunde über alle mächtigen Dauergefühle des Daseins siegt. Es ist der Augenblick, wo ein Kletterer wegen des Schmerzes in den Fingern freiwillig den Griff der Hand öffnet, wo ein Verirrter im Schnee sich hinlegt wie ein Kind, wo ein Verfolgter mit brennenden Flanken stehen bleibt. Sie halten sich nicht mehr mit aller Kraft ab von unten, sie sinken ein wenig ein und sind in diesem Augenblick ganz menschlich. Sofort werden sie an einer neuen Stelle gefaßt, höher oben am Bein oder hinten am Leib oder am Ende eines Flügels.
Wenn sie die seelische Erschöpfung überwunden haben und nach einer kleinen Welle den Kampf um ihr Leben wieder aufnehmen, sind sie bereits in einer ungünstigen Lage fixiert, und ihre Bewegungen werden unnatürlich. Dann liegen sie mit gestreckten Hinterbeinen auf den Ellbogen gestemmt und suchen sich zu heben. Oder sie sitzen auf der Erde, aufgebäumt, mit ausgestreckten Armen, wie Frauen, die vergeblich ihre Hände aus den Fäusten eines Mannes winden wollen. Oder sie liegen auf dem Bauch, mit Kopf und Armen voraus, wie im Lauf gefallen, und halten nur noch das Gesicht hoch. Immer aber ist der Feind bloß passiv und gewinnt bloß von ihren verzweifelten, verwirrten Augenblicken. Ein Nichts, ein Es zieht sie hinein. So langsam, daß man dem kaum zu folgen vermag, und meist mit einer jähen Beschleunigung am Ende, wenn der letzte innere Zusammenbruch über sie kommt. Sie lassen sich dann plötzlich fallen, nach vorne aufs Gesicht, über die Beine weg; oder seitlich, alle Beine von sich gestreckt; oft auch auf die Seite, mit den Beinen rückwärts rudernd. So liegen sie da. Wie gestürzte Aeroplane, die mit einem Flügel in die Luft ragen. Oder wie krepierte Pferde. Oder mit unendlichen Gebärden der Verzweiflung. Oder wie Schläfer. Noch am nächsten Tag wacht manchmal eine auf, tastet eine Weile mit einem Bein oder schwirrt mit dem Flügel. Manchmal geht solch eine Bewegung über das ganze Feld, dann sinken sie alle noch ein wenig tiefer in ihren Tod. Und nur an der Seite des Leibs, in der Gegend des Beinansatzes, haben sie irgend ein ganz kleines, flimmerndes Organ, das lebt noch lange. Es geht auf und zu, man kann es ohne Vergrößerungsglas nicht bezeichnen, es sieht wie ein winziges Menschenauge aus, das sich unaufhörlich öffnet und schließt.

Robert Musil, Pagine postume pubblicate in vita, Torino, Einaudi, 1970, trad. Anita Rho
La carta moschicida
La carta moschicida Tangle-foot è lunga all’incirca trentasei centimetri e larga ventuno; è spalmata di una materia viscosa tossica e gialla, e proviene dal Canada. Se una mosca vi si posa — non per avidità ma per conformismo, perché ve ne sono già attaccate tante altre— resta presa dapprima per l’estrema falange ricurva di tutte le sue zampette. Sensazione lieve, inquietante, come quella che si proverebbe camminando nel buio a piedi nudi, e inciampando all’improvviso in qualcosa che altro non è ancora se non una resistenza indefinibile, morbida e calda, in cui fluisca già a poco a poco l’orrore di essere umana, di rivelarsi una mano messa lì chi sa come per artigliarci con le sue cinque dita sempre più percepibili.
Poi le mosche si tendono tutte in uno sforzo massimo, come tabetici che vogliono nascondere il loro male o come vecchi militari tentennanti (le gambe un po’ arcuate,come quando si sta su una cresta aguzza ). Si danno un contegno, chiamano a raccolta facoltà ed energie. Di lì a pochi secondi la risoluzione è presa, e incominciano come possono a districarsi frullando le ali. Questa frenetica manovra continua sinché lo sfinimento le costringe a interrompersi. Segue una breve pausa e poi un nuovo tentativo. Ma gli intervalli si fanno sempre più lunghi. Stanno lì, e io sento il loro smarrimento. Dal basso salgono vapori che vanno alla testa. Allungano la lingua tastando tutt’intorno come un piccolo martello. Hanno il capo peloso e bruno, quasi ricavato da una noce di cocco:sembrano idoli negri in forma umana. Si piegano avanti e indietro sulle zampette invischiate, puntando le giunture e si irrigidiscono come chi tenta di smuovere ad ogni costo un carico troppo pesante: più tragiche degli operai nella loro fatica, più vere di Laocoonte nell’espressione sportiva dello sforzo estremo. E poi viene il momento, sempre ugualmente strano, in cui l’esigenza immediata di un attimo trionfa di tutti i potenti istinti di conservazione. E’ l’istante in cui lo scalatore lascia volontariamente l’appiglio perché gli dolgono le dita, l’uomo sperduto nella neve vi si abbandona come un bambino, il fuggiasco braccato si ferma con i lombi in fuoco. Le mosche non hanno più la forza di sollevarsi dal vischio, ricadono un poco e in quell’attimo sono interamente umane. Subito sono afferrate in un altro punto; più in alto sulla zampa, o dietro, sull’addome, o alla estremità di un ala.
Quando hanno superato l’esaurimento psichico e, dopo una breve tregua, riprendono la lotta per la vita, sono già in una posizione sfavorevole e i loro movimenti diventano sempre meno naturali. Allora irrigidiscono le zampe posteriori e appoggiandosi sui gomiti cercano di alzarsi. Oppure stanno riverse a terra, inarcando le braccia, come donne che invano si sforzano di strapparsi dalla presa di un uomo. Altre ancora giacciono sul ventre, teste e braccia protese, come cadute in piena corsa, soltanto la faccia è ancora levata. Ma il nemico resta sempre passivo e sfrutta semplicemente i loro attimi di smarrimento, di disperazione. E “quello”, è un nulla che le inghiotte. Così lentamente da essere appena percettibile, e per lo più con una improvvisa accelerazione verso la fine, quando sopraggiunge l’estremo tracollo interno. Allora si lasciano cadere bruscamente in avanti, sulla faccia, sulle zampe; o di fianco, con le membra annaspanti all’indietro. Così restano a giacere. Come aeroplani abbattuti, con un’ala protesa nell’aria. O come carogne di cavalli. O negli infiniti atteggiamenti della disperazione. O come dormienti. Ancora, l’indomani, accade che una si svegli, agiti una zampa, o batta un’ala. Qualche volta uno di questi movimenti si propaga per l’intero campo, poi affondano tutte un poco più giù nella loro morte. E solo da un lato del corpo, presso l’attaccatura della zampa, palpita un organo piccolissimo che vive ancora a lungo. Batte con regolarità – non lo si può vedere senza lente d’ingrandimento – simile a un minuscolo occhio umano che indefessamente si apre e si chiude.