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Il caso e la necessità -Jacques Monod





lunedì 03 maggio 2010  legge Angelo Adamo
Nel 2010 cade il quarantennale della pubblicazione di un classico del pensiero scientifico e filosofico, “Le hasard et le nécessité”. Il suo autore, Jacques Monod, crebbe in una famiglia culturalmente stimolante, imparando l’inglese dalla madre americana ed amando l’arte e la scienza influenzato dal padre pittore, critico d’arte, appassionato di biologia e ammiratore della figura di Charles Darwin. Non a caso, in diretta prosecuzione di quest’ultimo pare collocarsi Monod. Basti sapere che a ventiquattro anni Monod, già assistente di Zoologia presso la Facoltà di Scienze della Sorbona, si unì a una spedizione scientifica diretta in Groenlandia a bordo della nave Porquoi pas?. Come non riandare con la mente allo storico viaggio attorno al mondo del giovane Darwin sul Beagle? Premio Nobel per la medicina nel 1965 per le sue ricerche di biologia molecolare, Jacques Monod morì a Cannes nel 1976.

(Jacques Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, 1970)
La Biologia occupa, tra le scienze, un posto marginale e centrale al tempo stesso. Marginale in quanto il mondo vivente rappresenta solo una parte minima e assai “speciale” dell’universo noto, di modo che lo studio degli esseri viventi non rivela mai in apparenza leggi generali applicabili al di fuori della biosfera. Ma se, come credo, l’ambizione ultima della Scienza consiste proprio nel chiarire la relazione tra uomo e universo, allora bisogna riconoscere alla Biologia un posto centrale. Più che le nozioni della biologia molecolare in sé e per sé ho tentato di mettere in luce la loro “forma” e di precisare i rapporti logici che esse hanno con altri campi del pensiero. Oggi è poco prudente per un uomo di scienza inserire il termine “filosofia”, sia pur “naturale”, nel titolo o nel sottotitolo di un’opera: è il modo migliore per farla accogliere con diffidenza dagli scienziati e, per bene che vada, con condiscendenza dai filosofi. Ho un’unica scusante, che però ritengo legittima, ed è
il dovere che si impone agli uomini di scienza, oggi più che mai, di pensare la propria disciplina nel quadro generale della cultura
moderna per arricchirlo non solo di nozioni importanti dal punto di vista tecnico, ma anche di quelle idee, provenienti dal loro
particolare campo di indagine, che essi ritengano significative dal
punto di vista umano. Il candore di uno sguardo nuovo (quello della scienza lo è sempre) può talvolta illuminare di luce nuova antichi problemi. Resta da evitare, beninteso, ogni confusione tra le idee suggerite dalla scienza e la scienza stessa: d’altra parte è
necessario spingere all’estremo, senza esitare, le conclusioni che
essa autorizza al fine di svelarne il pieno significato. Operazione
difficile. Io non pretendo di uscirne senza errori. Naturalmente sono responsabile delle generalizzazioni ideologiche che ho ritenuto di poter dedurre, ma non credo di ingannarmi affermando che tali interpretazioni, finché non escono dall’ambito dell’epistemologia, incontreranno l’approvazione della maggior parte dei biologi contemporanei. Mi assumo anche la piena responsabilità degli sviluppi di ordine etico, se non politico, che non ho voluto evitare, per quanto pericolosi o ingenui o presuntuosi possano sembrare. Mio malgrado: la modestia si addice allo scienziato, ma non alle idee che sono in lui e che egli ha il dover di difendere. Tutti noi siamo convinti di saper distinguere immediatamente e senza ambiguità, tra vari oggetti, quelli naturali e quelli artificiali: una roccia, una montagna, un fiume o una nube sono oggetti naturali; un coltello, un fazzoletto, un’automobile sono oggetti artificiali, artefatti. Ma
appena si analizzano tali giudizi ci si accorge che essi non sono né immediati né del tutto obiettivi. Sappiamo che il coltello è stato forgiato dall’uomo per un uso, per una prestazione progettata in precedenza. L’oggetto materializza quindi l’intenzione preesistente da cui ha tratto origine e la sua forma è giustificata dalla prestazione a cui era destinato ancor prima della sua effettiva realizzazione. Nulla di simile per il fiume o per la roccia che sappiamo o pensiamo modellati dal libero gioco di forze fisiche alle quali non sapremmo attribuire alcun “progetto”. Tutto ciò naturalmente è valido se si ammette il postulato fondamentale del metodo scientifico secondo cui la Natura è oggettiva e non proiettiva. Sarebbe possibile definire, in base a criteri generali e oggettivi, le caratteristiche degli oggetti artificiali, frutto di un’attività proiettiva cosciente, per contrapposizione agli oggetti naturali che risultano invece dal gioco fortuito delle forze fisiche? Per accertarsi della completa oggettività dei criteri adottati meglio varrebbe forse chiedersi se, utilizzandoli, sia possibile allestire un programma che permetta a un calcolatore di distinguere un artefatto da un oggetto naturale. Un simile programma potrebbe avere applicazioni estremamente interessanti. Supponiamo che, in un prossimo futuro, un’astronave vada a posarsi su Venere o Marte; che cosa ci sarebbe di più affascinante del sapere se, su questi pianeti a noi vicini, vivono o hanno vissuto in epoche anteriori esseri intelligenti capaci di attività proiettiva?
Elementi rivelatori di una simile attività, presente o passata,
sarebbero evidentemente i suoi prodotti che, pur diversi da quelli di un’industria umana, dovrebbero essere riconoscibili come tali.
Ignorando tutto di quegli esseri, della loro natura e dei loro
progetti che potrebbero aver concepito, il programma dovrebbe
utilizzare soltanto criteri molto generali, basati esclusivamente
sulla struttura e sulla forma degli oggetti presi in esame, senza
alcun riferimento alla loro eventuale funzione. Risulta subito
evidente che i criteri da adottare sarebbero due: 1) regolarità; 2)
ripetizione. In base al criterio di regolarità, si cercherebbe di
sfruttare il fatto che gli oggetti naturali, modellati dal gioco di
forze fisiche, non presentano mai strutture semplici dal punto di
vista geometrico: ad esempio superfici piane, spigoli rettilinei,
angoli retti, simmetrie perfette; gli artefatti presenterebbero invece tali caratteristiche, anche se in modo approssimativo e rudimentale.
Il criterio di ripetizione sarebbe senza dubbio più decisivo.
Materializzazioni di un progetto ogni volta ripetuto, “artefatti”
omologhi destinati allo stesso uso, riproducono, con certe
approssimazioni, le intenzioni sempre uguali del loro creatore. A
questo punto, sarebbe dunque estremamente significativa la scoperta di numerosi esemplari di oggetti con forme abbastanza ben definite.
Supponiamo che il programma sia stato scritto e la macchina
realizzata. Capovolgiamo le ipotesi e immaginiamo che la macchina sia stata costruita dagli esperti della NASA marziana, desiderosi di scoprire sulla Terra le prove di un’attività organizzata, creatrice di “artefatti”. La macchina esamina e confronta le case da un lato e le rocce dall’altro. Valendosi dei criteri di regolarità, di semplicità geometrica e di ripetizione, essa concluderà senza difficoltà che le rocce sono oggetti naturali, mentre le case sono artefatti. Rivolgendo poi la sua attenzione ad oggetti di dimensioni più modeste, esaminerà alcuni sassolini, a fianco dei quali scoprirà cristalli, ad esempio di quarzo. In base agli stessi criteri essa dovrà evidentemente concludere che, se i sassi sono naturali, i cristalli di quarzo sono invece oggetti artificiali. Giudizio che sembra testimoniare un “errore” nella struttura del programma, errore la cui origine è, d’altronde, interessante: Il cristallo, in altre parole, è l’espressione macroscopica di una struttura microscopica. Un simile
errore sarebbe d’altronde facilmente eliminabile dato che sono note tutte le strutture cristalline possibili. Ma supponiamo che la
macchina studi ora un altro tipo di oggetto, per esempio un favo di api selvatiche. Essa vi troverebbe, evidentemente, tutti i criteri di un’origine artificiale, e cioè le strutture geometriche semplici e ripetitive dei raggi e delle cellette costitutive per cui quel favo
verrebbe classificato nella stessa categoria di oggetti a cui
appartengono le case. Cosa pensare di questo giudizio? Noi sappiamo che il favo è “artificiale” in quanto rappresenta il prodotto dell’attività delle api, ma abbiamo anche valide ragioni per pensare che tale attività è puramente automatica, attuale ma non coscientemente proiettiva. Da buoni naturalisti, tuttavia, riteniamo le api esseri “naturali”. E non è allora una palese contraddizione considerare “artificiale” il prodotto dell’attività automatica di un essere “naturale”? Risulterebbe ben presto chiaro, proseguendo l’indagine, che – se esiste una contraddizione – essa non dipende da un errore di programmazione ma dall’ambiguità dei nostri giudizi. La
digressione quasi fantascientifica testé fatta aveva lo scopo di
dimostrare quanto sia difficile definire il limite, che pur sembra
così intuitivamente chiaro, tra oggetti naturali e oggetti
artificiali. Una riflessione sulla causa delle confusioni (apparenti?)
a cui conduce il programma, farà certamente concludere che esse
dipendono dall’averlo voluto limitare a considerazioni di forma, di struttura, di geometria, svuotando così la nozione di oggetto
artificiale del suo contenuto essenziale: cioè che tale oggetto si
definisce, si esplica innanzitutto mediante la funzione che è chiamato a espletare attraverso le prestazioni volute dal suo inventore. Ma si constaterà ben presto che, programmando la macchina perché essa studi non solo la struttura, ma anche le eventuali prestazioni degli oggetti esaminati, si otterranno risultati ancor più deludenti. Supponiamo, ad esempio, che questo nuovo programma consenta effettivamente alla macchina di analizzare in modo corretto le strutture e le prestazioni
di due serie di oggetti, per esempio alcuni cavalli su un campo da
corsa e alcune automobili su una strada. L’analisi porterebbe alla
conclusione che tali oggetti sono strettamente paragonabili, in quanto entrambi concepiti per essere in grado di effettuare spostamenti rapidi, anche se su superfici diverse, il che giustifica le loro differenze di struttura. Se poi, per fare un altro esempio,
proponessimo alla macchina di confrontare le strutture e le
prestazioni dell’occhio di un vertebrato con quelle di un apparecchio fotografico, il programma non potrebbe che riconoscere le profonde analogie. Lenti, diaframma otturatore, pigmenti fotosensibili: le stesse componenti non possono essere state predisposte, nei due oggetti, che per fornire prestazioni simili. Ho citato questo esempio classico tra numerosi altri, di adattamento funzionale negli esseri viventi, unicamente per sottolineare quanto sarebbe arbitrario e sterile voler negare che l’organo naturale, l’occhio, rappresenti la realizzazione di un progetto (quello di captare le immagini), quando si dovrebbe riconoscere tale origine all’apparecchio fotografico. Ciò
sarebbe tanto più assurdo in quanto, in ultima analisi, il progetto
che sta alla base dell’apparecchio, non può essere che lo stesso al
quale l’occhio deve la sua struttura. Qualunque “artefatto” è il
prodotto dell’attività di un essere vivente, che esprime in tal modo, e con particolare evidenza, una delle proprietà fondamentali caratteristiche di tutti i viventi, nessuno escluso: quella di essere oggetti dotati di un progetto, rappresentato nelle loro strutture e al tempo stesso realizzato mediante le loro prestazioni, ad esempio la creazione di “artefatti”. È ndispensabile riconoscere questa nozione come essenziale alla definizione stessa degli esseri viventi, invece di rifiutarla. Anzi diremo che gli esseri viventi si differenziano tra tutte le strutture di qualsiasi altro sistema presente nell’universo proprio grazie a questa proprietà, alla quale daremo il nome di “teleonomia”. Si osserverà, tuttavia, che tale condizione, sebbene necessaria per definire i viventi, non è sufficiente poiché non propone criteri oggettivi che consentirebbero di distinguere tali esseri dagli artefatti, prodotti della loro attività. Non basta osservare che il progetto da cui trae origine un oggetto artificiale appartiene all’animale che lo ha creato e non all’oggetto stesso.
Questa nozione evidente è ancora troppo soggettiva e prova ne sia che sarebbe difficile utilizzarla nel programma di un calcolatore: come potrebbe la macchina decidere che il progetto di captare immagini – progetto rappresentato da un apparecchio fotografico – appartiene a un oggetto diverso dall’apparecchio stesso? Se ci si limita all’esame della struttura che è stata realizzata e all’analisi delle sue prestazioni, è possibile individuare il progetto, ma non l’autore. Per identificare l’autore è necessario un programma che studi non soltanto l’oggetto in sé, ma anche la sua origine, la sua storia e, innanzitutto, le sue modalità di costruzione. Nulla vieta, almeno in teoria, di formulare un programma di questo tipo ed esso, anche se fosse piuttosto primitivo, permetterebbe di individuare una radicale differenza tra un oggetto artificiale, per quanto perfezionato, e un essere vivente. La macchina non potrebbe fare a meno di constatare, in
effetti, che la struttura macroscopica di un “artefatto” (un raggio di cellette costruito da un’ape, una diga eretta da castori, un’ascia
paleolitica o un veicolo spaziale) risulta dall’applicazione ai
materiali che lo costituiscono di forze esterne all’oggetto stesso.
Una volta realizzata, tale struttura non attesta l’esistenza di forze
di coesione interne tra gli atomi o le molecole che costituiscono il materiale ma delle forze esterne che lo hanno forgiato. Il programma, in compenso, dovrà registrare il fatto che la struttura di un essere vivente è il risultato di un processo del tutto diverso, nella misura in cui non deve praticamente nulla all’azione delle forze esterne, mentre deve tutto, dalla forma generale fino al minimo particolare, a interazioni “morfogenetiche” interne all’oggetto medesimo. Ma vi è
un’eccezione, costituita ancora una volta dai cristalli la cui
caratteristica geometria riflette le interazioni microscopiche interne all’oggetto stesso. Il fatto che, in base a questo criterio, come pure quelli di regolarità e di ripetitività, le strutture cristalline debbano essere avvicinate a quelle degli esseri viventi potrebbe costituire materia di riflessione per il programmatore: egli dovrebbe chiedersi se le forze interne che conferiscono agli esseri viventi la loro struttura microscopica non abbiano per caso la stessa natura delle interazioni microscopiche delle morfologie cristalline. Così il nostro programmatore che ignora la Biologia ma che si occupa di informatica, avendo “scoperto” che la formazione delle strutture estremamente complesse degli esseri viventi è assicurata da un determinismo interno, autonomo, dovrebbe necessariamente accorgersi che simili strutture rappresentano una notevole quantità di informazioni di cui resta solo da identificare la fonte: ogni informazione espressa, e quindi ricevuta, presuppone infatti un emittente. Ammettiamo che, proseguendo nella sua indagine, quel programmatore faccia la sua ultima scoperta, cioé si accorga che l’emittente dell’informazione, che risulta espressa nella struttura di un essere vivente, è sempre un altro oggetto identico al primo. A questo punto egli ha identificato la fonte e riconosciuto una terza
proprietà notevole di questi oggetti: il potere di riprodurre e di
trasmettere l’informazione corrispondente alla loro struttura.
Informazione molto ricca, poiché descrive un’organizzazione
straordinariamente complessa che però si conserva integralmente da una generazione all’altra. Designeremo questa proprietà con il nome di riproduzione invariante o, semplicemente, di invarianza. Si noterà a questo punto che, grazie alla proprietà di riproduzione invariante gli esseri viventi e le strutture cristalline si trovano ancora una volta associati e contrapposti a ogni altro oggetto conosciuto nell’Universo. Ma le strutture cristalline rappresentano una quantità di informazione inferiore di parecchi ordini di grandezza rispetto a quella che si trasmette di generazione in generazione negli esseri viventi, anche nei più semplici: questo criterio puramente quantitativo consente di distinguere gli esseri viventi da tutti gli altri oggetti, compresi i cristalli. Delle tre proprietà teleonomia, morfogenesi autonoma, invarianza riproduttiva, l’ultima è quella che più agevolmente si presta a una definizione quantitativa. Poiché si tratta della capacità di riprodurre una struttura con un grado d’ordine molto elevato, e poiché il grado d’ordine di una struttura si può definire in unità di informazione, diremo che il “contenuto di invarianza” di una data specie è uguale alla quantità di informazione che, trasmessa da una generazione all’altra, assicura la conservazione
della norma strutturale specifica. Ma ogni progetto particolare,
qualunque esso sia, ha senso soltanto in quanto è parte di un progetto più generale. Tutti gli adattamenti funzionali degli esseri viventi, al pari di tutti gli artefatti di loro produzione, realizzano progetti particolari che si possono considerare come aspetti o frammenti di un unico progetto primitivo, cioè la conservazione e la moltiplicazione della specie. Per essere più precisi, stabiliremo arbitrariamente che il progetto teleonomico essenziale consiste nella trasmissione, da una generazione all’altra, del contenuto di invarianza caratteristico della specie. Tutte le strutture, le prestazioni, le attività che concorrono al successo del progetto essenziale, saranno quindi chiamate “teleonomiche”. Tali considerazioni permettono di proporre
una definizione di principio del “livello” teleonomico di una specie, ed effettivamente si può ritenere che ogni struttura e ogni prestazione teleonomica corrisponda a una certa quantità di
informazione che deve essere trasmessa perché quella struttura si
realizzi e quella prestazione si compia. Questa quantità può essere definita “informazione teleonomica”. Si può allora affermare che “livello teleonomico” di una data specie corrisponde alla quantità di informazione che deve essere trasferita, in media, per individuo onde assicurare la trasmissione del contenuto specifico di invarianza riproduttiva alla generazione successiva. Sarà facile rendersi conto che l’attuazione del progetto teleonomico fondamentale (cioè la riproduzione invariante) dà luogo, in specie diverse e a diversi gradi della scala animale e a varie strutture e prestazioni, più o meno elaborate e complesse. È necessario insistere sul fatto che non si tratta soltanto delle attività direttamente legate alla riproduzione propriamente detta ma di tutte quelle che contribuiscono, anche molto indirettamente, alla sopravvivenza e alla moltiplicazione della specie. Si tratterà di stimare il grado di complessità di tutte queste prestazioni o strutture, concepite allo scopo di servire al progetto teleonomico. Questa grandezza, definibile dal punto di vista teorico, non è misurabile in pratica, ma consente perlomeno di ordinare, in modo approssimativo, differenti specie o gruppi secondo una “scala teleonomica”. Per fare un esempio, immaginiamo un poeta innamorato e timido, che non osa confessare il suo amore alla donna amata e sa esprimere solo simbolicamente la sua passione nei poemi che le dedica.
Supponiamo che la donna, finalmente lusingata da omaggi tanto
raffinati, accetti di fare all’amore con il poeta. I poemi di
quest’ultimo avranno contribuito al successo del progetto essenziale e l’informazione in essi contenuta deve quindi essere conteggiata nella somma delle prestazioni teleonomiche che assicurano la trasmissione dell’invarianza genetica. È chiaro che il successo del progetto non implica alcuna prestazione analoga in altre specie animali, per esempio in un topo. Ma, e questo è il punto, il contenuto di invarianza genetica è quasi identico per il topo e per l’uomo (in realtà per tutti i mammiferi). L’invarianza sembra, fin dal primo momento, una proprietà profondamente paradossale, poiché il mantenimento, la riproduzione e la moltiplicazione di strutture dotate di un ordine elevato sembrano incompatibili con il secondo principio della termodinamica. Tale principio stabilisce, in effetti, che ogni sistema macroscopico si evolve solo in un senso, in quello della degradazione dell’ordine che lo caratterizza. Tuttavia questo enunciato è valido e verificabile solo se si considera l’evoluzione di insieme di un sistema energeticamente isolato. In seno a questo, in na delle sue fasi, si potrà assistere alla formazione e all’accrescimento di strutture ordinate senza che per ciò l’evoluzione generale del sistema trasgredisca al suddetto principio. Non vi è alcun paradosso fisico nella riproduzione invariante di tali strutture: il prezzo termodinamico dell’invarianza viene pagato esattamente, grazie alla perfezione dell’apparato teleonomico che, avaro di calorie, raggiunge nel suo compito infinitamente complesso un
rendimento eguagliato dalle macchine umane. Quest’apparato è del tutto logico, meravigliosamente razionale, perfettamente adatto al suo progetto: conservare e riprodurre la norma strutturale. E ciò senza trasgredire le leggi fisiche, ma anzi sfruttandole a tutto vantaggio della sua personale idiosincrasia. È l’esistenza stessa di un simile progetto, realizzato e perseguito a un tempo dall’apparato teleonomico, che costituisce il “miracolo”. Miracolo? No, il vero problema si pone a un altro livello, ben più profondo di quello delle leggi fisiche; è in gioco infatti la nostra comprensione, la nostra intuizione del fenomeno. Non vi è, in realtà, né paradosso né miracolo, ma una lampante contraddizione epistemologica. La pietra
angolare del metodo scientifico è il postulato dell’oggettività della
Natura, vale a dire il rifiuto sistematico a considerare la
possibilità di pervenire a una conoscenza “vera” mediante qualsiasi interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di “progetto”. La scoperta di questo principio può essere datata con esattezza. Galileo e Cartesio, formulando il principio di inerzia, non fondarono solo la meccanica, ma anche l’epistemologia della scienza moderna, abolendo la fisica e la cosmologia di Aristotele. Postulato puro, che non si potrà mai dimostrare poiché, evidentemente, è impossibile concepire un esperimento in grado di provare la non esistenza di un progetto, di uno scopo perseguito, in un punto qualsiasi della Natura, il postulato di oggettività è consostanziale alla scienza e da tre secoli ne guida il prodigioso sviluppo. È impossibile disfarsene senza uscire dall’ambito della scienza stessa.
Ma l’oggettività ci obbliga a riconoscere il carattere teleonomico
degli esseri viventi, ad ammettere che, nelle loro strutture e
prestazioni, essi realizzano e perseguono un progetto. Vi è dunque, almeno in apparenza, una profonda contraddizione epistemologica.
Qualunque concezione del mondo – filosofica, religiosa, scientifica – per il fatto che le proprietà teleonomiche degli esseri viventi mettono apparentemente in dubbio uno dei postulati fondamentali della teoria moderna della conoscenza, presuppone necessariamente una soluzione a questo problema. L’unica ipotesi che la scienza moderna considera accettabile è che l’invarianza precede la teleonomia. Si tratta dell’idea darwiniana che la comparsa, l’evoluzione e il progressivo affinamento di strutture sempre più fortemente teleonomiche sono dovuti al sopraggiungere di perturbazioni in una struttura già dotata delle proprietà di invarianza, e quindi capace di “conservare il caso” e di subordinare gli effetti al gioco della selezione naturale. Tale teoria è finora l’unica che sia compatibile con il postulato di oggettività in quanto riduce la teleonomia a una proprietà secondaria derivata dall’invarianza. Tutte le altre concezioni, esplicitamente proposte per giustificare la stranezza degli esseri viventi o implicitamente velate dalle ideologie religiose e dalla maggior parte dei grandi sistemi filosofici, presuppongono
l’ipotesi inversa e cioè che l’invarianza è protetta, l’ontogenesi
guidata, l’evoluzione orientata da un principio teleonomico iniziale, di cui tutti questi fenomeni sarebbero manifestazioni. È così possibile definire un primo gruppo di teorie, cioè quelle che
ammettono un principio teleonomico i cui interventi si presuppongono espressamente limitati all’ambito della “materia vivente”. Tali teorie, che chiamerò vitalistiche, implicano dunque una radicale distinzione tra gli esseri viventi e l’universo inanimato. Da un altro lato si possono raggruppare quelle concezioni che fanno appello a un principio teleonomico universale, responsabile sia dell’evoluzione cosmica sia dell’evoluzione della biosfera, in seno al quale il suddetto principio si esprimerebbe in modo più preciso e più intenso.
Tali teorie vedono negli esseri viventi i prodotti più elaborati di
un’evoluzione orientata in tutto l’universo e sfociata, perché doveva sfociarvi, nell’uomo e nell’umanità. Le definirò animistiche. L’etica della conoscenza è anche conoscenza dell’etica, delle pulsioni, delle passioni, delle esigenze e dei limiti dell’essere biologico. Nell’uomo essa sa riconoscere l’animale, non assurdo ma strano, prezioso per la sua stessa stranezza, essere che, appartenendo contemporaneamente a due regni – la biosfera e il regno delle idee – è al tempo stesso torturato e arricchito da questo dualismo lacerante che si esprime nell’arte, nella poesia e nell’amore umano. I sistemi animistici hanno
tutti più o meno voluto ignorare, avvilire o reprimere l’uomo
biologico, provocare in lui orrore e terrore di alcuni aspetti
relativi alla sua condizione animale. L’etica della conoscenza, al
contrario, incoraggia l’uomo a rispettare e ad accettare questo
retaggio pur riuscendo a dominarlo. Mi sembra che l’etica della
conoscenza sia l’unico atteggiamento, razionale e a un tempo
deliberatamente idealistico, su cui si potrebbe costruire un vero
socialismo. Questo grande sogno del XIX secolo vive sempre con un’intensità dolorosa a causa dei tradimenti di cui quest’ideale ha sofferto e dei crimini compiuti in suo nome. È tragico, ma forse era inevitabile, che questa profonda aspirazione abbia trovato la sua dottrina filosofica soltanto sotto forma di un’ideologia animistica.
Ci si può facilmente rendere conto che il profetismo storicistico
fondato sul materialismo dialettico era, fin dalla nascita, gravido di tutte le minacce che si sono poi effettivamente realizzate. Forse ancor di più degli altri animismi, il materialismo storico si fonda su una totale confusione delle categorie di valore e conoscenza. É proprio questa confusione che gli permette, in un discorso profondamente inautentico, di proclamare di aver stabilito “scientificamente” le leggi storiche, verso le quali l’uomo non avrebbe altra risorsa né altro dovere che l’obbedienza se non vuole annullarsi. Una volta per tutte si deve rinunciare a quest’illusione che è semplicemente puerile, quando non è mortale. Come è possibile che si possa costruire un socialismo autentico su un’ideologia di per sé inautentica che deride la scienza su cui essa pretende, peraltro sinceramente nello spirito dei suoi adepti, di fondarsi? L’unica speranza del socialismo non sta in una revisione dell’ideologia che lo domina da più di un secolo, ma nell’abbandono totale di tale ideologia. Dove si può dunque ritrovare la fonte di verità e l’ispirazione morale di un umanesimo socialista realmente scientifico se non alle radici della scienza stessa, nell’etica che fonda la conoscenza facendo di essa, per libera scelta, il valore supremo, misura e garanzia di tutti gli altri valori? Etica che fonda la responsabilità morale sulla libertà stessa di questa scelta assiomatica. Accettata come base delle istituzioni sociali e politiche, quindi come misura della loro autenticità e del loro valore, soltanto l’etica della conoscenza potrebbe condurre al socialismo. Essa impone costituzioni votate alla difesa all’ampliamento, all’arricchimento del Regno trascendente delle idee, della conoscenza, della creazione. Regno che è insito nell’uomo e in cui, liberato sempre più dai vincoli materiali e dalle schiavitù menzognere dell’animismo, egli potrebbe finalmente vivere in modo autentico, difeso da istituzioni che, scorgendo in lui a un tempo il suddito e il creatore del Regno, dovrebbero servirlo nella sua essenza più unica e più preziosa. Questa è forse un’utopia. Ma non è un sogno incoerente. È un’idea che si impone grazie alla sola forza della sua coerenza logica. È la conclusione a cui necessariamente conduce la ricerca dell’autenticità. L’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo. A lui la scelta tra il Regno e le tenebre.