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Informatica e organizzazione del lavoro - Angelo Dina, Thomas Friedman





lunedì 17 maggio 2010 legge Cesare Melloni
Angelo Dina ha unito l’attività di ingegnere progettista di macchine automatiche in importanti gruppi industriali (tra i quali: Olivetti e Comau del gruppo Fiat) alla riflessione sulle ricadute delle applicazioni dell’elettronica e dell’informatica su organizzazione del lavoro, occupazione e condizione operaia nella grande industria. I suoi scritti entrano pertanto a buon diritto nelle letture dedicate alla responsabilità sociale degli intellettuali. Agli albori della rivoluzione informatica, Dina ne discusse gli effetti sull’organizzazione della produzione a livello nazionale, all’interno di una multinazionale.
Da parte sua, Thomas L. Friedman, giornalista premio Pulitzer, descrive in modo brillante i mutamenti indotti dalla rivoluzione informatica nella produzione e nei servizi, le trasformazioni nella organizzazione e nella divisione internazionale del lavoro, soprattutto quello intellettuale, il passaggio da multinazionali a corporations transnazionali. Nel descrivere la globalizzazione (che, dice, vorrebbe più “verde” e più “compassionevole”) vede lavoro, produzione, ma non lavoratori subordinati, bensì solo singoli autonomi individui che hanno il potere di collaborare e competere a livello globale.


Da: A. Dina, La fabbrica automatica e l’organizzazione del lavoro, Rosemberg & Sellier, 1986.

In un processo di produzione ci vogliono sostanzialmente tre cose. Una è il materiale su cui si lavora. Un’altra è l’energia necessaria per modificarlo (…) il simbolo della prima ri¬volu¬zione industriale è stato l’invenzione della macchina a vapore e, più ancora, il suo uso come motore industriale. Ma un terzo elemento, l’informazione, pur es¬sendo sempre esi¬stito, viene in primo piano con gli anni [19]50-60, che vedono affermarsi nuovi procedi¬menti di produzione (…) [nel]l’industria produt¬trice in grande serie di beni di consumo du¬revoli. Questa aveva già visto delle trasformazioni organizzative abbastanza profonde con il fordi¬smo, che è stato caratterizzato dalla intro¬duzione della catena di montaggio, che pratica¬mente portava all’estremo alcuni caratteri organizzativi già comparsi con il taylori¬smo.
Nonostante ciò, le novità del taylorismo e del fordismo fu¬rono più organizzative che tecno¬logiche: la catena di montaggio si avvaleva sì di un supporto meccanico per il trasporto dei gruppi in lavoro, ma il suo senso stava nella parcellizzazione e ripetitività delle operazioni effettive che erano tutte affidate al lavoro umano.
La trasformazione degli anni ’50-60 introdusse la parola auto¬mazione. Quello che cambiava era il modo di trattare l’informazione.
Col linguaggio dell’elettronica (anche se, ricordiamolo, non c’era quasi niente di elettro¬nico) noi chiameremmo [quelle mac¬chine automatiche] una memoria di informazioni. È però una memoria che può essere soltanto letta, consultata, ma non può essere modifi¬cata perché modificarla signifi¬cherebbe distruggere la mac¬china e farne un’altra. Non posso quindi leg¬gere su quella memoria informazioni di¬verse da quelle che sono state intro¬dotte all’atto della co¬struzione della macchina. (…)
Occorreva insomma progettare e realizzare delle linee lunghe e complesse esclusiva¬mente per [realizzare un determinato tipo di] pezzo e spesso non era neppure possibile apportare in seguito al pezzo pochi migliora¬menti stilistici o tecnici. In que¬ste linee i compiti dell’operaio sono limitatissimi, non solo quantitativamente ma anche qualitativa¬mente. Essi sono es¬senzialmente di servizio ed esecutivi, per di più rigidamente vincolati al ritmo della macchina. Si pensi che era pratica co¬mune sottrarre al suo controllo anche i comandi elet¬trici po¬nendoli su una plancia protetta da uno sportello chiuso a chiave. In caso di anomalia di funzionamento, l’operaio ha a disposizione un pulsante di arresto di emer¬genza, ma quasi sempre gli interventi di ripristino non fanno parte dei suoi inca¬richi.
Ma quelle linee automatiche, fatte per escludere il biso¬gno di qualsiasi partecipazione in¬tel¬ligente dell’operaio, non consen¬tivano un lavoro diverso né sopportavano manifestazioni di in¬dipendenza o di lotta. O lavoravano sempre nello stesso modo, con produttività altis¬sima, o si bloccavano del tutto. A questo dobbiamo aggiungere le trasformazioni del mer¬cato: si riapre la concorrenza fra le aziende produttrici, non certo sui prezzi ma sulla possibi¬lità di offrire prodotti diversificati e fal¬samente personaliz¬zati. La domanda stessa si diversifica e muta rapida¬mente, ma le linee della prima automazione (ap¬punto per questa chiamata ri¬gida) non sopportano varianti, tanto più se in proporzioni non costanti, e non valgono più nulla se cambia il modello di prodotto.
Incalzano poi nuove esigenze della struttura produttiva; altri settori industriali, diversi da quelli di produzione in grande se¬rie, vogliono poter applicare processi automa¬tizzati. Na¬sce così l’esigenza di unire automazione e fles¬sibilità. Flessibilità vuol dire che il sistema pro¬duttivo possa produrre elementi di¬versi, magari contemporane¬amente, che possa ac¬cettare mo¬difiche o miglioramenti del prodotto, che si presti a produrre diverse versioni o varianti in proporzioni differenti e tutto que¬sto senza ri¬chiedere modifiche del sistema. Quest’ultimo do¬vrebbe poi essere riutilizzabile in gran parte (e senza eccessivi tempi di riadattamento) in caso di cambiamenti radicali del prodotto. E [flessibilità] si può intendere ancora come pos¬sibi¬lità di tollerare inconvenienti senza bloccare com¬pletamente la produ¬zione. In una linea rigida bastava il blocco di una sta¬zione per fermare tutto e siccome un sia pur piccolo inter¬vento del lavoro umano era necessario, la indisponibilità di poche per¬sone poteva fermare un’officina. L’automazione rigida era quindi vulnerabile non solo agli inconvenienti mecca¬nici, ma anche alla co¬siddetta “disaffezione” al lavoro e alle agitazioni sindacali.
Ma cosa vuol dire rendere flessibile un processo produt¬tivo automatico? Vuol dire che le informazioni sul pro¬cesso stesso devono poter essere trattate ed elabo¬rate in modo sempre automatico, ma che consenta di in¬tervenire su di esse e modi¬ficarle senza cam¬biare fisica¬mente il sistema pro¬duttivo. È quindi attraverso l’esigenza della flessibilità che il problema “meccanico” dell’automazione si collega a quello del tratta¬mento delle informa¬zioni, alle tecnologie elet¬troniche e infor¬matiche.
Macchine utensili a controllo numerico e robot industriali hanno attratto i timori di molti osservatori che li hanno visti come temibili job killers, cioè distruttori di po¬sti di lavoro. Le macchine utensili a controllo nume¬rico di regola non sosti¬tui¬scono direttamente lavoro umano, in quanto le operazioni ad esse affidate erano abitualmente eseguite da macchine uni¬versali conven¬zionali. (…) La sostituzione di un certo nu¬mero di mac¬chine [convenzio¬nali] non corrisponde poi ad una equi¬valente eliminazione di occupati diretti perché il rela¬ti¬va¬mente alto costo di investimento richiesto dal controllo nume¬rico rende particolarmente conveniente e alle volte quasi ne¬cessa¬rio economicamente l’impiego della mac¬china su più turni.
I robot industriali invece vengono spesso impiegati in opera¬zioni che prima dell’introduzione dei robot erano compiute di¬rettamente da uomini (…). Ciò ha spesso rese più acute le pre¬occupazioni per la disoccupazione tecnologica che il loro impiego può pro¬vocare e ha spinto vari ricercatori a ipotizzare sul numero di uomini che può essere sosti¬tuito da un ro¬bot, tenendo conto anche del possibile incremento della manuten¬zione quali¬ficata e, in vari casi, anche del numero equivalente di operai impie¬gati per la costruzione del robot stesso.
Ancor più differenziato di quello sulla quantità è il di¬scorso sulla qualità del lavoro che as¬sume rispetto ai sin¬dacati aspetti diversi e anche contrastanti. Al di là di un certo livello di riqua¬lificazione o dequalificazione delle mansioni, per esempio, la riutilizzazione diretta dei lavo¬ratori diventa pressoché impossi¬bile; sicché gli effetti di spostamenti di manodopera sono assai più imponenti di quanto suggerito dal saldo occupazionale complessivo. An¬cora: un aumento e un maggior livello di for¬malizza¬zione delle conoscenze richieste pos¬sono es¬sere visti con favore come indizi di riprofessionalizzazione; d’altro canto semplifi¬cazione e alleggerimento del lavoro non sono sempre fattori negativi. Il problema poi della sostitu¬zione diretta con robot di lavori pesanti, nocivi o perico¬losi pone spesso alterna¬tive laceranti fra qualità del la¬voro e quantità dell’occupazione.
Per il controllo numerico la dequalificazione degli addetti mac¬china è stata inizialmente so¬stenuta dagli stessi co¬struttori, che indicavano in essa una fonte di vantaggi economici per il padrone. La successiva correzione di rotta è stata probabil¬mente influenzata non solo dall’esperienza operativa, che ha dimostrato quanto possa essere rischioso affidare mac¬chinario sofisticato e costoso ad operatori deresponsabilizzato e non in grado di eseguire interventi di emergenza al di là dell’arresto in¬differenziato. Su di essa ha contato la clamo¬rosa crisi dei rapporti di fabbrica [esplosa negli anni 1960-1970], col pro¬gressivo rifiuto delle mansioni più stupide e ripetitive e gli ef¬fetti sia pur contradditori della scolarizzazione di massa. (…)
Del resto, al di là delle valutazioni di principio, le applica¬zioni pratiche mostrano differenze significative nel modo di organiz¬zare il lavoro attorno alle macchine a controllo numerico, an¬che se il valore di tali differenze non va so¬pravvalutato. Da un lato sono ancora nume¬rose le aziende che tendono a dare all’addetto macchina compiti limitatissimi e dequalifi¬cati: carico e scarico dei pezzi, av¬viamento macchina, accesso all’arresto di emergenza in caso di inconvenienti gravi. I suoi contatti, an¬che in¬formali, col programmatore vengono sco¬raggiati, fino al punto da obbligare lo stesso ad acquisire non solo una so¬lida conoscenza delle tecnologie di la¬vorazione ma an¬che delle particolarità e degli eventuali difetti specifici della mac¬china e ad eseguire per conto proprio le opera¬zioni di messa a punto del pro¬gramma in mac¬china. Che si tratti di scelte orga¬nizza¬tive e non di necessità tecnolo¬giche è dimostrato dalle compli¬cazioni e anche dai ral¬lentamenti e rischi che si incon¬trano pur di mantenere l’addetto macchina lontano da qual¬siasi compito che ri¬chieda valutazioni e scelte.
D’altro canto non mancano però esempi in cui la collabo¬ra¬zione fra operaio e program¬ma¬tore nella fase di messa a punto è prevista e istituzionalizzata e all’addetto mac¬china ven¬gono assegnate anche mansioni complementari di conte¬nuto relativamente più ele¬vato, come la gestione degli utensili e la loro registrazione su apposite apparec¬chiature di preci¬sione fuori macchina.

Da: Angelo Dina, Come cambia l’operaio alla FIAT, Inchiesta, novembre-dicembre 1980.

[Nel montaggio dei gruppi meccanici sulla scocca della Fiat 131] la tradizionale linea di montaggio sospesa in movimento continuo è sostituita da una serie di moduli di lavoro, as¬simila¬bili alle isole, in ciascuno dei quali una squadra di operai ese¬gue una serie relati¬va¬mente lunga di fasi. L’imbastitura dei gruppi da montare avviene su attrezzature piaz¬zate su veicoli robotizzati automotori che assicurano il flusso del materiale e la movimen¬tazione delle parti. Un elaboratore centrale con¬trolla la movi¬mentazione, le operazioni eseguite nei moduli ed è con¬temporaneamente adibito alla elaborazione di tutte le funzioni statistiche relative ai piani produttivi e operativi. I car¬relli si recano automaticamente nella sala di rica¬rica batterie quando hanno raggiunto il limite inferiore di ca¬rica. La guida dei carrelli stessi è assicurata, senza al¬cuna rotaia rigida, da impulsi elettrici inviati dall’elaboratore e trasmessi attraverso cavi annegati nel pavimento. Il sistema consente la program¬mazione libera e va¬riabile della produzione rispetto alle di¬verse varianti e combi¬nazioni del prodotto, nonché una sensi¬bile elasticità nei tempi di montaggio per ogni ope¬ratore, nelle pause e in certi casi anche rispetto alle assenze, senza com¬pro¬mettere il vo¬lume totale di produzione. Si com¬prende fa¬cil¬mente che il sistema di movimentazione controllato dl calco¬latore è il vero cuore del sistema, la base che con¬sente la ri¬struttura¬zione dei posti di lavoro con caratteri¬stiche ambientali e margini di elasticità di comporta¬mento del tutto nuovi rispetto alle catene tradi¬zionali (ma anche un controllo più efficiente ed accentrato ed una minore vulnerabilità della produzione com¬plessiva).
I calcolatori di processo che governano il sistema hanno com¬piti assai ampi: da quelli di¬rettamente operativi e di ottimizza¬zione dei cicli, al controllo dei rifornimenti, alla program¬ma¬zione delle versioni del prodotto, al controllo e alla memorizza¬zione di tutti i dati stati¬stici relativi all’andamento della produ¬zione.
Appare chiaro dai pochi cenni fatti che questi sistemi do¬vreb¬bero consentire alla direzione aziendale una amplis¬sima fles¬sibilità sia rispetto alle varianti del prodotto che alle cause di disturbo interne: scompensi di ritmo, as¬senze, entro certi limiti anche effetti di agitazioni operaie (…). Oltre a ciò essi offrono la possibilità di un controllo completo, accentrato, in tempo re¬ale, di tutte le fasi di la¬voro senza alcun passaggio attraverso intermediari disci¬pli¬nari umani con la loro contestabilità, scarsa affidabilità, ritardo di trasmissione delle in¬for¬mazioni.

Da: Thomas L. Friedman, Il mondo è piatto, Saggi Mondadori, 2006.

Io sono partito per l’India dirigendomi direttamente a est, via Francoforte, con un volo in bu¬siness class della Luf¬thansa. Sapevo esattamente in che direzione stavo an¬dando gra¬zie alla mappa GPS visibile nello schermo in¬serito nel bracciolo del mio sedile. (…) Ho incon¬trato anch’io una popolazione chia¬mata “indiani”. E anch’io ero partito per trovare la fonte della ricchezza indiana. Co¬lombo era in cerca di hardware: metalli preziosi, seta, spezie, vale a dire la fonte della ric¬chezza nel suo tempo. Io ero in cerca di software: cervelli, al¬go¬ritmi complessi, lavoratori nei me¬stieri della conoscenza, call center, pro¬tocolli di trasmis¬sione, nuove scoperte nel campo dell’ingegneria ottica, ossia le fonti della ricchezza del no¬stro tempo.
Colombo si compiacque di ridurre in schiavitù gli indiani che aveva incontrato, una grande riserva di manodopera gratis. Io volevo semplicemente capire perché gli indiani da me in¬con¬trati stavano prendendosi i nostri posti di la¬voro, perché erano diventati per l’America e gli altri paesi industrializzati una ri¬serva importantissima per l’outsourcing, la delocalizza¬zione di servizi e di lavori nel campo della tecnologia informatica. (…) Quando ho, per così dire, alzato le vele, anch’io pensavo che la terra fosse rotonda; ma ciò che ho visto nella vera India ha profondamente scosso la mia fede in questa nozione. (…)
Colombo riferì ai suoi sovrani che la terra era rotonda ed è passato alla storia come l’uomo che per primo fece questa scoperta. Io sono tornato a casa e ho comunicato la mia sco¬perta soltanto a mia moglie, sussurrandogliela in un orecchio. «Amore,» le ho detto «il mondo è piatto».
Dopo aver rilasciato un’intervista per un altro network, Nilekani fece visitare alla nostra troupe televisiva il centro conferenze della Infosys, il vero cuore pulsante dell’industria in¬diana dell’outsourcing. «Ecco, questa è la nostra sala confe¬renze, e questo è proba¬bilmente lo schermo più grande che esista in Asia: sono quaranta schermi digitali riuniti» di¬chiarò con orgo¬glio Nilekani, in¬dicando il più ampio schermo televi¬sivo che avessi mai vi¬sto. Grazie a questo superschermo, ag¬giunse, l’Infosys può tenere un incontro virtuale con i principali partner della sua filiera globale su qualsiasi progetto e in qual¬siasi momento. Dallo schermo, i progettisti americani possono par¬lare contemporaneamente con i pro¬gram¬matori indiani di sof¬tware e con i produttori asiatici. «Noi siamo seduti qui e qual¬cun altro sta a New York, Londra, Boston, San Francisco, tutti in diretta. E magari il centro di implementazione si trova a Sin¬gapore, sicché anche l’operatore di Singapore potrebbe es¬sere presente sullo schermo… È la globalizzazione!» pro¬clamò Nilekani.
«L’outsourcing è soltanto un aspetto di qualcosa di molto più complesso che sta avve¬nendo oggi nel mondo» spiegò Nile¬kani. «Negli ultimi anni ci sono stati massicci investi¬menti nel settore della tecnologia, soprattutto all’epoca della bolla spe¬culativa della new economy, quando sono stati investiti milioni di dollari nell’estensione della banda larga in tutto il mondo, nella collocazione di cavi sottomarini e così via». Allo stesso tempo, i com¬pu¬ter sono diventati meno costosi e si sono diffusi nell’intero pianeta, e c’è stata un’esplosione della tecnologia infor¬matica: e-mail, motori di ricerca e programmi di sof¬tware, tutelati da brevetto, capaci di scomporre ogni tipo di la¬voro in tutti i suoi vari compo¬nenti e mandarne una parte a Boston, una parte a Bangalore e un’altra ancora a Pe¬chino, consen¬tendo a ognuno di realizzare facilmente uno sviluppo a di¬stanza dei vari progetti. Quando, verso il 2000, tutte queste cose sono improvvisamente confluite insieme, ag¬giunse Nile¬kani, hanno «creato una piatta¬forma per mezzo della quale il lavoro intellet¬tuale, il ca¬pitale intellettuale, poteva essere pro¬dotto e distribuito da qualsiasi punto del globo. Poteva essere scompo¬sto, consegnato e ricomposto: questo ha consentito una nuova libertà nel modo di operare, in particolare per quanto riguarda il lavoro di natura in¬tellettuale…».
All’incirca nel 2000 siamo entrati in un’era completa¬mente nuova: la Globalizzazione nu¬mero 3 (…). Mentre nella Globa¬lizzazione 1 le forze protago¬niste del pro¬cesso sono state le nazioni, e nella Globalizzazione 2 le multinazionali, nella Glo¬baliz¬zazione 3 la forza dina¬mica (ciò che le imprime il suo pe¬culiare carattere) è rap¬pre¬sentata dal nuovo potere degli indi¬vidui di collaborare e competere a livello globale. E lo stru¬mento che permette ai gruppi e ai singoli di globalizzarsi in modo così facile e privo di ostacoli è ciò che chiamo “la piat¬taforma del mondo piatto” (…) [cioè] il prodotto della conver¬genza fra personal computer (che ha offerto a ogni singolo in¬divi¬duo la possibilità di diventare l’autore dei propri conte¬nuti in forma digitale), cablaggio a fibre ottiche (che ha im¬provvisa¬mente dato a ognuno la possibilità di accedere a un numero crescente di con¬tenuti digitali a costi irrisori) e la diffu¬sione del software per la gestione del work flow (che ha permesso ai singoli individui di collaborare allo stesso contenuto in forma digitale da qualsiasi punto del pianeta si trovino, indipenden¬temente dalla distanza che li separa). Perciò ora gli indivi¬dui pos¬sono, e de¬vono, porsi queste domande: come mi inse¬risco io nella com¬petizione e nelle opportunità globali di oggi? Come posso, autonomamente, col¬laborare con altri a livello glo¬bale?
Fino a poco tempo fa [l’India] è stato ciò che in linguaggio bancario viene definito il «se¬condo acquirente». Nel mondo degli affari si vuole sempre essere il secondo ac¬qui¬rente, ossia la persona che compra un hotel, un campo da golf o un centro commerciale dopo che il primo proprietario ha fatto bancarotta e le sue proprietà sono vendute dalla banca a prezzi di liqui¬dazione. Ebbene, i primi acquirenti di tutti i cavi piazzati dalle varie compa¬gnie di cavi a fibre ottiche (le quali pensavano che sareb¬bero diventate infinita¬mente ricche in un universo digitale in infinita espansione) sono stati i loro azionisti ameri¬cani. Quando la bolla è scoppiata, questi azionisti si sono tro¬vati in mano azioni dal valore nullo o notevolmente ri¬dotto. Gli indiani, in effetti, sono stati i secondi acquirenti delle com¬pagnie di cavi a fibre ottiche. In realtà non ne hanno acquistato le azioni; hanno semplice¬mente be¬nefi¬ciato del surplus di capacità delle fibre ottiche, il che si¬gnifica che gli indiani e i loro clienti ameri¬cani hanno usato tutte queste cablature praticamente gratis. È stato ve¬ramente un colpo di for¬tuna per l’India (e, in misura mi¬nore, per la Cina, l’ex Unione Sovie¬tica e l’Europa orien¬tale). Qual è infatti la storia dell’India moderna? Per dirlo in due pa¬role, l’India (..) ha imparato a fare benissimo una cosa: sfrut¬tare i cervelli della sua gente istruendo una parte cospicua della sua élite nelle materie scientifi¬che, in quelle in¬gegneri¬sti¬che e in quelle mediche. (…) Per quasi tutti i loro primi cin¬quantacinque anni di vita, gli IIT [Istituti Indiani di Tecnologia] sono stati uno dei più grandi affari che l’America abbia mai fatto. Era come se uno avesse installato un tubo per la tra¬smissione di cer¬velli, che veniva riempito a New Delhi e si sca¬ri¬cava a Palo Alto. All’incirca, un laureato IIT su quattro finiva negli Stati Uniti (…) Poi venne Netscape, la deregolamenta¬zione delle tele¬comunicazioni nel 1996, la Global Cros¬sing e le altre società di cavi a fibre ottiche. Il mondo si appiattì e tutto si capovolse. «[L’India] produ¬ceva in grande quantità giovani di notevole qualità. Ma soltanto una piccola parte riusciva a salire su una nave e partire. Ora non è più così, perché abbiamo co¬struito quest’autostrada dell’oceano, chiamata cavo a fibre otti¬che. (…) Ora si può infilare la spina e inserirsi nel mondo, di¬rettamente dall’India».
[Il millennium bug] ha provocato la folle corsa al poten¬ziale intellettuale indiano, cui far eseguire il lavoro di pro¬gramma¬zione. (…) Poi, subito dopo il millennium bug, è arrivato il boom del dot.com, e l’India risultava uno dei pochi luoghi dove si potesse trovare una ri¬serva di in¬ge¬gneri di lin¬gua inglese, a qualsiasi prezzo, perché tutti gli ingegneri americani erano stati accaparrati dalle società di e-commerce. Ma la bolla scoppia, il mercato aziona¬rio fallisce e la riserva di capitale d’investimento si esaurisce. Le società informatiche ame¬ricane che riescono a so¬pravvivere e quelle di investimento in capi¬tale di rischio che vo¬gliono ancora finanziare im¬prese di nuova fonda¬zione hanno a quel punto molto meno de¬naro da spen¬dere. Perciò hanno bisogno degli ingegneri indiani, non sol¬tanto perché ce ne sono moltis¬simi, ma so¬prattutto perché co¬stano poco. Di conseguenza la relazione fra l’India e il mondo del busi¬ness americano si intensifica ulteriormente. (…)
Henry Schacht, che durante parte di questo periodo era a capo della Lucent, ha potuto os¬servare l’intero sviluppo dal punto di vista del management. (…) «Le pressioni sui costi erano enormi e c’era a disposizione il mondo piatto; così, l’economia obbligava la gente a fare cose che non avrebbe mai im¬ma¬ginato di fare o poter fare… La globa¬lizzazione ha ri¬cevuto un impulso straordinario nel settore del lavoro intellet¬tuale quanto in quello dell’industria ma¬nifatturiera. Le compa¬gnie hanno scoperto che potevano presentarsi al MIT e tro¬vare quattro ingegneri cinesi estre¬mamente brillanti disposti a tornare in Cina e lavo¬rare per loro allo stesso prezzo che avrebbero pagato in America per assumere un solo in¬gegnere. La Bell aveva un centro di ricerche a Tsingdao che si poteva connettere con i computer della Lucent negli Stati Uniti. Usa¬vano i nostri computer quando qui era notte. Non soltanto il co¬sto aggiuntivo per l’uso dei computer era praticamente nullo, ma lo erano anche i costi di trasmissione, e qui di notte i com¬puter non venivano usati»
(…) la Globalizzazione numero 3, che ci ha portato all’appiattimento del mondo, non è la semplice intensifi¬cazione della Globalizzazione numero 2. È un modello del tutto di¬verso. Non si tratta soltanto della capacità dei paesi sviluppati di inserirsi in un maggior numero di mer¬cati o di accedere a una manodopera più economica. È una differenza talmente grande per intensità e grado (dell’interconnettività a basso co¬sto, dell’acquisizione di po¬tere da parte dei singoli individui e della diffusione di reti globali per la collaborazione) da diven¬tare una diffe¬renza di genere. (…) il significato di questa diffe¬renza [può essere rias¬sunto] os¬servando che il mondo piatto offre a un maggior numero di persone in un mag¬gior nu¬mero di luoghi la possibilità di combinare un lavoro a basso costo con una tecnolo¬gia estrema¬mente avanzata.
Per molto tempo si è pensato che per creare un prodotto di una certa complessità sia ne¬cessario un qualche tipo di orga¬nizzazione o istituzione gerarchica. Si credeva che biso¬gnasse avere un’integrazione verticale dall’alto verso il basso per rea¬lizzare questo genere di cose e per lan¬ciarle nel mondo. Ma grazie alla nostra nuova capacità di fare uploading (che si è affermata come conseguenza di¬retta della piattaforma del mondo piatto) pos¬siamo ora produrre cose di notevole com¬plessità, da soli o come parte di una comunità, con molti meno vincoli gerarchici e molto meno soldi di quanto sia mai stato possibile in pre¬cedenza.
Il mondo del software prodotto in comunità, una comunità nota anche con il nome di open source, deriva la propria identità dall’idea che le compagnie o comunità ad hoc debbano ren¬dere disponibile online il codice sorgente, ossia le istruzioni che fanno funzionare un programma di software, e che ognuno possa avere la possibilità di mi¬gliorare tale codice permettendo però a tutti gli altri utenti di scaricare sul proprio computer i suoi migliora¬menti.
Queste comunità sono divise in due correnti su una que¬stione di centrale importanza. Una prima corrente ritiene in sostanza che qualsiasi membro della comunità possa utilizzare il codice sorgente come elemento base di un prodotto commerciale, ammesso che si rico¬no¬sca sem¬pre la sua paternità originaria. (…) La seconda corrente, che possiamo chia¬mare «movi¬mento del software libero», sostiene che se si costruisce un prodotto sulla base di un software sviluppato in comunità e li¬beramente disponi¬bile, bisogna donare a propria volta questo prodotto alla comunità. In altre parole, lo si deve mettere a di¬sposi¬zione gratis.
Nel 1991 Linus Torvalds, uno studente dell’Università di Hel¬sinki, lanciò il proprio sistema Linux, in concorrenza con il si¬stema operativo Windows della Microsoft, e invitò altri inge¬gnerie e appassionati di computer a cercare di migliorarlo, gratis. Da quel giorno, pro¬gram¬matori hanno manipolato, mo¬dificato, espanso, riparato e migliorato il sistema opera¬tivo GNU/Linux, la cui licenza stabilisce che ognuno può scaricare gratis il codice sorgente e ap¬portarvi miglioramenti, ma che la versione aggiornata deve essere resa disponibile a tutti gra¬tuitamente. Tor¬valds insiste molto sul fatto che Linux dovrà ri¬manere sempre di¬sponibile a costo zero. Perciò le società di software commerciale che vendono programmi che ne mi¬glio¬rano l’efficienza o lo adattano a particolari funzioni devono stare molto at¬tente a non violare il suo copyright nei propri prodotti commerciali. La General Public Li¬cense che pro¬tegge Linux e altri programmi di software libero stabilisce che se si combina un nuovo co¬dice con quello di Linux e lo si distribui¬sce, si deve rendere dispo¬nibile gratis l’innovazione o la modi¬fica a tutta la comu¬nità.
Se vogliamo dire tutta la verità, tuttavia, dobbiamo ricor¬dare che (…) il sistema non è più sviluppato gratis. L’IBM non vende un sistema operativo in concorrenza con Li¬nux, bensì programmi di software in concorrenza con Microsoft. Perciò l’IBM è ben contenta di pagare brillanti ingegneri di software per lavorare su Linux allo scopo di incoraggiare la sua diffu¬sione come concorrente del si¬stema operativo Windows della Microsoft, ridu¬cendo in que¬sto modo i profitti di quest’ultima e indebolendo la sua capacità di competere con l’IBM nel suo campo specifico.