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Intellettuali dal Novecento al Duemila: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo




lunedì 29 novembre 2010 legge Matteo Marchesini
Troppo spesso, nell'ultimo secolo, anziché usare i saperi acquisiti per metterci in guardia dagli idoli, gli intellettuali ne sono stati i primi adoratori. Più la pressione delle forze storiche economiche o sociali s'è fatta minacciosa, più si sono rassegnati a ricavarsi un posto privilegiato nei loro ranghi, terrorizzati dalla prospettiva di perdere visibilità e influenza. Lungo la prima metà del '900, l'Idolo s'è incarnato soprattutto nelle mitologie politiche; dal secondo '900, invece, ha preso la forma dei mass media. In entrambi i contesti, molti degli intellettuali più celebrati si sono costituiti in casta: hanno scelto cioè di conservare il "ruolo" del mediatore, già stigmatizzato da Kierkegaard, anziché rischiare di perdersi riconoscendo nei propri compiti tradizionali una "funzione" universalmente umana. Ora che la politica è delegittimata, quasi tutti gli intellettuali che possono parlare col microfono dei grandi giornali e della tv si scagliano senza sforzo contro i fantocci dei nostri governanti; mentre in genere, per non tagliare il ramo su cui stanno seduti, si guardano bene dallo smascherare un potere assai più silenzioso, incontrollabile e violento: quello che sta dentro la cosiddetta cultura, quello che si coagula intorno a circuiti editoriali e mediatici sempre più reificanti e pronti a spacciare qualunque vagito populista per pensiero critico. Ma appunto nel tagliare quel ramo sta il compito più urgente; a costo di prendere atto di quello che oggi siamo davvero, se non vogliamo mistificare la discussione pubblica: individui soli che si rivolgono ad altri individui soli.

Vitaliano Brancati(1907-1954)
(1951, FEBBRAIO)

(...)
Dialogo fra l'uomo politico e l'intellettuale.
UOMO POLITICO: «Vediamo se lei è un vero intellettuale».
INTELLETTUALE: «Da cosa vuole vederlo?».
UOMO POLITICO: «Dalla sua bravura».
INTELLETTUALE: «Dalla mia bravura, in che?».
UOMO POLITICO: «In quell'esercizio logico nel quale si prova la forza di una mente moderna».
INTELLETTUALE: «Non conosco questo esercizio».
UOMO POLITICO: «Stento a crederle. È un esercizio ormai famoso. Uno Stato forte esercita tutti i suoi intellettuali in questo sport, trasformandoli in veri atleti della mente».
INTELLETTUALE: «Mi dica almeno come si chiama».
UOMO POLITICO: «Esercizio sul concetto di libertà».
INTELLETTUALE: «In che consiste?».
UOMO POLITICO: «Nel dimostrare che la vera libertà non è quella di poter esprimere la propria opinione, di poter criticare il governo, di poter dissentire apertamente dal gusto ufficiale o dalla noia ufficiale, ma l'altra».
INTELLETTUALE: «Quale altra?».
UOMO POLITICO: «Caro amico, io sono un uomo politico. Non vorrà farmi alzare un peso che è destinato a lei. L'altra. Raccolga tutte le forze mentali e sollevi più in alto possibile le sue argomentazioni. La vera libertà è l'altra. Faccia rapidamente la spola dalla sottigliezza alla grossolanità, e da questa a quella, cerchi di non apparire sofista ma di esserlo; si commuova, se occorre, e chiami in soccorso la patria o la razza o la miseria, riparandosi dietro cenci di cui, fortunatamente per lei, è pieno il mondo; ma se le parlano di campi di concentramento, spie, impiccagioni, mostri un volto impassibile e insegni che la virtù dell'uomo è quella di non commuoversi. Faccia, insomma, tutto quello che può e, alla fine, strappi al suo avversario il titolo di liberale e se lo prenda lei».
INTELLETTUALE: «E così io mi chiamerò liberale?».
UOMO POLITICO: «Non liberale, ma vero liberale. Noti la sfumatura».
INTELLETTUALE: «E gli altri come li chiameremo?».
UOMO POLITICO: «Quali altri?».
INTELLETTUALE: «Coloro che vogliono la libertà di stampa, di critica al governo, di riunione, di religione, di riforme ecc.».
UOMO POLITICO: «Sedicenti liberali».
INTELLETTUALE: «E con questo cosa otterrò?».
UOMO POLITICO: «Sarà considerato utile».
INTELLETTUALE: «Io invece voglio essere considerato fastidioso».
UOMO POLITICO: «Nessuno le impedisce di essere fastidioso a una società democratico-liberale, denunziando lo stato di parecchie persone».
INTELLETTUALE: «Infatti io mi riservo questa libertà».
UOMO POLITICO: «Bene».
INTELLETTUALE: «Ma mi riservo anche quella di denunziare lo stato di tutti in una società totalitaria».
UOMO POLITICO: «A suo piacere. Ma sarà una denunzia priva di fondamento perché lei l'avrà rivolta a una società di cui non fa parte. Il giorno, infatti, che ne farà parte, non gliela rivolgerà più».
INTELLETTUALE: «Perché?».
UOMO POLITICO: «Perché non potrà... Dico meglio... Nessuno, che faccia parte di una società, come dice lei totalitaria, ha mai espresso un'accusa simile. Coloro che l'accusano sono sempre persone che non ci vivono dentro; sono dunque persone che non la conoscono».
INTELLETTUALE: «L'intellettuale come lei lo desidera non sono io».
UOMO POLITICO: «E chi è invece?».
INTELLETTUALE: «Lei».
(da Diario romano, Bompiani 1961)

Piergiorgio Bellocchio(1931)

Per ragioni alimentari, ma anche incuriosito e tentato da un pubblico diverso, più vasto e indifferenziato, nell'80 cominciai a collaborare a «Panorama» con una rubrica intitolata (non da me) Pensiamoci su. Il settimanale non mi piaceva, ma m'illudevo che l'isoletta della mia rubrica bastasse a preservarmi, a non confondermi col resto. Potevo scrivere quel che volevo, su ciò che preferivo, senza mai patire censure, salvo i tagli necessari a far rientrare il pezzo nello spazio obbligato. (...) Come già m'è capitato di dire, presto mi fu chiara la totale inutilità della mia collaborazione. Qualunque cosa tu scriva, perde il suo originale significato per confondersi nel contesto. In teoria lo sapevo già, ora ne avevo la materiale, sensibile conferma. Inoltre, anche se nessuno mi condizionava o censurava, mi venivo accorgendo di come possa esser facile, indolore, quasi istintivo l'esercizio dell'autocensura. Una delle occasioni che me lo fecero capire meglio fu lo scontro con Beniamino Placido (C'era una volta «Il Mondo»), dove concludevo che i lettori della «Repubblica» e dell'«Espresso», smentendo la vantata filiazione di queste testate dal «Mondo», appartenevano per lo più all'osceno nuovo ceto medio, molto peggiore della piccola borghesia degli anni '40-'50. Questo pensavo e penso. Già, ma i lettori di «Panorama» erano forse diversi o non pressappoco della stessa pasta? Il problema non era neanche quello di esser libero, scrivendo su «Panorama», di parlar male di «Panorama» come di altre testate. Era il giudizio complessivamente negativo che davo di tutta la grande stampa a pormi di fronte a una scelta senza scampo. Potevo continuare a fare i miei commenti e riflessioni su tanti problemi grandi e piccoli, evitando di trattare quello dei mass media, di dire in tutta franchezza quel che ne pensavo? Il mio crescente disagio si tradusse in un rallentamento della collaborazione, cominciai a mancare qualche appuntamento, il pezzo da quindicinale diventò mensile... Del resto, da «Panorama» non mi venivano solleciti. L'ultimo pezzo pubblicato fu L'offesa superflua, che nella sua amarezza mi pare ritragga fedelmente lo stato d'animo di chi non ha più nessuna voglia di continuare. Nello stesso pezzo, a proposito delle sevizie quotidiane che ero costretto a subire - con Pippo Baudo, i film di Celentano, la pubblicità dei detersivi e altra spazzatura - citavo anche «gli articoli di...», ma al momento di fare il nome mi fermavo, limitandomi ad aggiungere tra parentesi: «lasciamo perdere». Non ricordo più a chi avevo pensato: ma chiunque fosse, a qualunque testata appartenesse, con quale faccia avrei potuto svergognarlo dalle colonne di un periodico dove scrivevano colleghi non migliori di lui? Mandai ancora un pezzo, Giocattoli. Mi fu comunicato che preferivano non pubblicarlo nella rubrica ma riservarlo per un servizio che stavano preparando sull'argomento. Non uscì mai. Dev'essere andato perduto, dimenticato. Non mandai più nulla. Nessuno da «Panorama» si fece mai più vivo. Non s'erano neanche accorti che non c'ero più, come se non ci fossi mai stato. Una sensazione, dopotutto, curiosamente piacevole.
(da L'astuzia delle passioni. 1962-1983, Rizzoli 1995)
I n d i r i z z a r i o v u o t o . Quei giovani (scarsi, per fortuna) che si rivolgono a me come a una specie di fratello maggiore o piccolo maestro, io devo deluderli e scoraggiarli, non per mio comodo ma per onestà. Ben poco posso insegnargli, e solo in negativo (in breve: a non diventare delle puttane), e niente posso dargli sul piano pratico, che poi è da sempre ciò che ai giovani soprattutto importa, animati da speranze e ambizioni più che non desiderosi di verità e giustizia. Quando, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, il principale punto di riferimento mio e di altri come me era Fortini, non eravamo attratti soltanto dalle idee e dallo stile di uno scrittore. Per quanto emarginato dalla nascente industria culturale, fuori dal potere universitario e dai giornali, sospetto ai politici e inviso alla società letteraria, quel Fortini quarantenne era purtuttavia un intellettuale che, per usare un'orribile espressione corrente, «contava».
«Contava» il marxismo. Nonostante la sconfitta del '48 e la crisi del '56, moltissimi dei maggiori intellettuali continuavano a dichiararsi marxisti. Qualifica generica ma non illegittima, data l'importanza che attribuivano al metodo e alla tradizione marxista e la fiducia che mantenevano nel fine di una trasformazione in senso socialista. Da Banfi a Paci, da Pratolini a Bilenchi, da Musatti a Geymonat, da Vittorini a Sereni, da Levi a Quasimodo, da Cantimori a Garin, De Martino, Bianchi, Bandinelli, Luporini, Della Volpe, Guttuso, Napoleoni, Dallapiccola, Debenedetti, Sapegno, Muscetta, Cases, Guiducci, Pizzorno, Candeloro, Colletti, Ragionieri, Steiner, Visconti, Strehler, Fo, Nono, Calvino, Pasolini... eccetera eccetera. Per sospettosi e severi che si debba essere circa il reale grado di coscienza e d'impegno di molti di questi intellettuali, bisogna riconoscere che anche i più equivoci erano tutt'altra cosa dalle attuali vedettes unicamente interessate al successo. In ogni grande casa editrice – quando marxisti non erano gli stessi titolari (Feltrinelli, Einaudi, Alberto Mondadori, Codignola, Laterza) – numerosi erano i dirigenti, i funzionari, i redattori non totalmente integrati e convertiti come oggi alla logica produttiva e del profitto, il cui marxismo sapeva tradursi in scelte culturali e in comportamenti aziendali. Lo stesso accadeva, in misura diversa, nella stampa, nelle scuole, nelle università, e perfino in enti di stato, banche, grandi industrie private. A Fortini, che s'era guastato e aveva rotto con l'universo mondo, non è mai mancato un editore importante, e se ognuno non durava più d'un libro è anche vero che, in compenso, li ha passati quasi tutti: Feltrinelli, Mondadori, Einaudi, Il Saggiatore, Laterza... Né Fortini era autore allettante, da promettere utili editoriali.
Il giovane aspirante scrittore e/o desideroso di impegnarsi culturalmente e politicamente che si rivolgeva a Fortini, ottenuta subita udienza e per un tempo sovrabbondante (guadagnando molto meno di adesso, gli intellettuali non pensavano che il loro tempo fosse monetizzabile) riceveva, oltre il nutrimento spirituale, anche una serie di indicazioni pratiche: poteva essere indirizzato a quel gruppo di studio, a quella formazione politica, a quel corso universitario, a quella casa editrice, a quella rivista, dove trovava dei compagni, uno spazio di comunicazione e di scambio, un ruolo, uno sbocco. Devo a Fortini preziosi contatti con altri intellettuali e gruppi di lavoro, e ancora la lettura delle mie prove di scrittura e la pubblicazione in rivista del mio primo racconto. Lo stesso è capitato a molti altri giovani al loro esordio letterario o semplicemente di uomini politicamente responsabili.
Ma io, che cosa posso offrire a un giovane? A parte il mio tempo (in questo replico gli intellettuali di allora), posso forse indicargli una qualche formazione politica in cui militare? Un gruppo che faccia una seria ricerca teorica? Un foglio dove scrivere senza doversene vergognare? Conosco un solo editore, anche medio-piccolo, presso il quale io goda di un minimo di autorità, per consigliare o appoggiare la pubblicazione di un autore, quando per me stesso non saprei a chi rivolgermi? Dopo quasi trent'anni di attività pubblicistica, sono riuscito senza particolari sforzi, semplicemente affidandomi all'istinto, all'amor fati, a ottenere un risultato che solo a pochissimi è concesso: non «contare» niente.
(da Dalla parte del torto, Einaudi 1989)

Anni fa, leggendo le Memorie d'oltretomba, ero rimasto colpito da certe coincidenze e parallelismi. Nelle velleità e impuntature politiche di Chateaubriand, nel suo servire con riserva e controvoglia una causa (Napoleone, i Borbone) mentre ambiva tutt'altro, nei suoi orgogli e moralismi, nella sua perenne frustrazione, ritrovavo alcunché di familiare. Un certo intellettuale di sinistra continua a vivere un sogno (la Rivoluzione, i suoi Profeti, i suoi Martiri) che assomiglia non poco alla mitologia di Chateaubriand. Non c'è dubbio che in questo secolo la Tradizione culturale più ricca, più nobile, più legittima è rappresentata dal marxismo. C'è stata anche una Rivoluzione: la radicale trasformazione dell'ultimo trentennio operata dal capitale e dalla Dc, contro la sinistra, che fedele alla Tradizione non ha mai capito la portata e le conseguenze di quanto succedeva e ne è stata progressivamente svuotata e marginalizzata. Robespierre e Marat furono sconfitti, ma la Rivoluzione l'avevano fatta. I bolscevichi, anche. Noi, come Chateaubriand, l'abbiamo subita.
Se alcuni di noi cercassero nel gran guardaroba di quell'epoca un costume da indossare, credo che non gli andrebbero bene né quello giacobino, né il girondino, né il termidoriano... Ho paura che il meno inadatto alla nostra taglia sarebbe quello legittimista. Penso agli émigrés, la nobiltà travolta dai nuovi ricchi; fingevano che la Rivoluzione non fosse mai avvenuta, erano orripilati dalla volgarità dell'Impero e fantasticavano la Restaurazione degli antichi valori: come qualcuno, oggi, l'eguaglianza, la giustizia, il socialismo... Il conservatorismo liberale e il romanticismo cristiano di Chateaubriand, che non ebbero effetto alcuno sugli sviluppi politici della Francia, non differiscono troppo dalla fedeltà di una certa sinistra a una cultura tramontata.
(da Al di sotto della mischia, Scheiwiller 2007)



Alfonso Berardinelli (1943)


Alberto Asor Rosa e la forza

In un articolo uscito tempo fa sulla «Repubblica» e dedicato alla memoria di Giulio Einaudi, è accaduto che Alberto Asor Rosa abbia definito se stesso «cafone di periferia». In un accesso di sincerità e commozione, il docente e storico della letteratura italiana ha reso omaggio all'amico e mecenate Einaudi, l'uomo al quale deve di più: e nello stesso tempo ha sentito il bisogno di dichiarare i propri limiti di mentalità e di cultura.
Certo «cafone di periferia» è un'espressione un po' forte, cavallerescamente ingiusta, perché intanto il cafone di periferia, con uno sforzo costante e riuscito di sgrossamento, è divenuto uno dei più noti ideologi italiani. E tuttavia sarebbe ingiusto non credere a quello che Asor Rosa dice di se stesso. Cafone è una parola che ormai si usa poco, ma il suo significato è a tutt'oggi abbastanza chiaro. Il dizionario spiega: «Villano, individuo di gusti volgari, insolente». Nonostante la sua sincera ammirazione per Boccaccio e la morale del suo eroe più famoso, il cinico ser Ciappelletto, che riesce a farsi passare per santo ingannando il confessore in punto di morte, Asor Rosa di fronte alla morte di Einaudi è sincero. Ma come rendere omaggio a questa rara sincerità se non prendendola sul serio?
Senza insistere sgradevolmente sulla pertinenza del termine "cafone" con cui Asor Rosa si definisce, consideriamo il sottinteso più largamente culturale e di classe a cui Asor Rosa pensava. Mentre Giulio Einaudi era per privilegio di nascita un alto borghese, un vero signore e un irresistibile seduttore culturale, Asor Rosa veniva dalla periferia, dal basso, dal cattivo gusto letterario e dall'insolenza politica, ma aspirava ai privilegi e alle finezze dell'alta borghesia. Si potrebbe anzi dire che questa sia stata fin dall'inizio una sua idea fissa.
Ma bisogna ripercorrere rapidamente la storia di Asor Rosa. La divideremo in tre fasi. Nella prima fase, quella rivoluzionaria e nichilista, Asor Rosa ha due miti: la classe operaia e Thomas Mann. Non essendo facile farsi un'idea della classe operaia dalla periferia romana, Asor Rosa si appropriò in teoria della nuova classe operaia Fiat degli anni Sessanta. Studiare più da vicino questa classe sarebbe stato faticoso: meglio la teoria. E in teoria, deducendo da Karl Marx per linee interne, la classe operaia non poteva che essere per definizione rivoluzionaria e nemica di ogni cultura. È l'Asor Rosa che si immagina delegato da questa classe a demolire la cultura in cui lui stesso vive. E Mann? Dopo aver introiettato la formidabile forza distruttiva operaia, ecco con Mann la promozione culturale, lo sforzo estetico, l'aroma della letteratura grande borghese. Nessun cedimento democratico, nessun valore morale. Ma pura politica e pura estetica. E tutto in grande.
Nella seconda fase, il desiderio di potere e di grandezza si sposta altrove. Essendo impossibile la rivoluzione operaia, le nuove polarità di Asor Rosa diventano il partito comunista di Enrico Berlinguer e la storia della letteratura italiana. Al sospetto di una propria impotenza si rimedia salendo sulle spalle dei giganti. Afferrare le leve di comando di due grandi istituzioni sembra la scelta giusta. Ma la realtà coglie di sorpresa anche i più maliziosi realisti. Il Partito comunista declina, cambia nome. E la letteratura italiana, per quanto ci si sforzi, non dà un gran potere. Se non è amata per se stessa, la letteratura offre poco.
Alberto Asor Rosa è perciò arrivato alla sua terza fase, quella della delusione e dell'umore apocalittico. Diventa un pensoso moralista: proprio la cosa che più disprezzava. Ossessionato dalla politica come pura tecnica del potere, quando vede che il potere lo esercitano gli altri si deprime. Scopre una cosa che credeva di sapere: la Chiesa cattolica e i capitalisti sono più forti di lui. In un'intervista di pochi giorni fa Asor Rosa deplorava nobilmente che ormai la cultura non esiste, si pensa solo a occupare spazi di potere. Forse tutti si sono messi a imitare Asor Rosa, il mondo va come lui voleva, solo che non sempre a suo vantaggio. Si rassegni.
(da Cactus, L'Ancora del Mediterraneo 2001)