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Il rancore. Alle radici del malessere del Nord- Bonomi e Negri, froci, giudei & Co-Stella





lunedì 25 ottobre 2010 legge Eleonora Bianchini
Chi è l'Altro? E quali sono le ragioni che ci spingono a temerlo, cercando di stigmatizzarlo nelle categorie dell'immigrato o dell'omosessuale? In questa serata alla Bottega dell'Elefante cercheremo di andare a fondo, di esplorare le radici sociali e culturali che ostacolano l'Incontro. Esistono anche forze politiche che tendono a esasperare le differenze per strumentalizzarle, scoraggiando così la spontanea aggregazione tra individui che, per provenienza, religione o tendenze sessuali, non rientrano nella maggioranza: parliamo della Lega Nord, il movimento che negli ultimi trent'anni in Italia ha fatto leva sulla globalizzazione per sviluppare le insicurezze del Nord, da quella economica ai valori. Cercheremo di fornire la base sociale sulla quale il movimento si è formato con un brano tratto da "Il Rancore. Alle radici del malessere del Nord" di Aldo Bonomi, per seguire con "Negri, froci, giudei e Co." di Gian Antonio Stella, per capire se il razzismo della vulgata leghista è soltanto folklore o annida le sue radici in un passato molto italiano e vicino nel tempo. Oltre ai brani vedremo alcuni spezzoni di "Occupiamo l'Emilia", il film-inchiesta sul fenomeno del Carroccio nella nostra regione. Infine, l'Altro sarà descritto per aforismi da alcuni bambini immigrati nel nostro paese. Per loro, infatti, l'Altro siamo noi.


Aldo Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del Nord, Feltrinelli, 2008. pp. 7-8, 9-10, 11-12.
Ho iniziato a lavorare come operatore di comunità in un piccolo paese delle Alpi lombarde. Campodolcino in Val Chiavenna, poco prima del Passo dello Spluga che scavalla in Svizzera verso i Grigioni. Erano gli anni ottanta.
Quelli del genio egoista dell’impresa e della Milano da bere. Promuovevo, con fondi europei, nei bordi della luccicante Lombardia, che era già uno dei quattro motori d’Europa, la coltivazione dei piccoli frutti, l’allevamento degli ungulati, un po’ di agriturismo e facevo il doposcuola ai tanti drop out che non erano arrivati alla terza media.
Il tutto si faceva per compensare la crisi dell’agricoltura di montagna in favore del nuovo modello di sviluppo basato sul turismo. Che stava arrivando con le tante seconde case dei milanesi, con la televisione commerciale, gli ipermercati nel fondovalle e anche con i primi casi di tossicodipendenza in paese. Caricavo i miei allievi su pulmini e assieme andavamo a vedere dove la modernità aveva prodotto sviluppo. Con i falegnami si visitava la Scm di Rimini che produceva le macchine per il legno. Con gli agricoltori si andava alla mostra ovo-caprina di Bastia Umbra e tutti in Trentino a vedere il turismo di comunità.
Più che felicità per il nuovo che avanzava, ricordo nei loro occhi un senso di tristezza e di paura. Uno spaesamento. Un timore di rimanere letteralmente senza paese. Sentimento diffuso in molte comunità montane delle Alpi e Prealpi lombarde. Tutti luoghi in cui iniziava a diffondersi uno strano movimento che sussurrava agli spaesati che, a fronte del cambiamento che avanzava, occorreva difendere la propria identità, le proprie radici, il paese, la comunità originaria.
Sono poi sceso a valle, facendo ricerca nel tessuto degli artigiani e delle piccole imprese della Pedemontana. Tutto cambiava. Automazione e informatica trasformavano il ciclo del lavoro. Per molti iniziò la stagione dei fallimenti.
Da allora la situazione è molto cambiata. Oggi credo che solo per ragioni politiche e per la polarizzazione del voto abbia ancora senso parlare di questione settentrionale. Quel modello produttivo postfordista, basato sulla fabbrica snella, sulla produzione orientata al cliente, sul capitalismo molecolare che svolgeva lavori di subfornitura e quella composizione sociale che si era delineata negli anni novanta hanno affrontato la criticità dell’entrata nell’euro e il passo lungo della globalizzazione.
Che sarà bene ricordare, è questione del sistema paese, non solo del Nord. Certo, il malessere del Nord è stato quotato sul mercato della politica dal leghismo e dal berlusconismo. Ma non è un problema di strapotere televisivo o di conflitto di interessi, è un problema di sapere sociale.
Come Bertinotti ben conosce i bisogni e le frustrazioni degli operai in cassa integrazione, così Bossi ben conosce le pulsioni delle valli varesine e bergamasche. Berlusconi, che è nato come imprenditore edile, ben conosce quelli cui vendeva le villette con giardino a Milano Due, segno e simbolo di un’emancipazione dal condominio e dal quartiere fatto di operai e impiegati. Così come il professor Prodi ben conosce i distretti emiliani e le regole dell’economia.
Nella crisi dello stato sociale avanza uno strano welfare “fai da te”. Individuale per chi può, se è vero che le badanti in Italia non sono solo cinquecentomila, come dicono i dati ufficiali, ma almeno le novecentomila stimate dall’ultima ricerca Cergas-Bocconi. Ma anche un welfare collettivo, attraverso l’azione del volontariato e una miriade di imprese sociali che assieme agli enti locali si occupano di disabili e anziani. Certo, dal territorio non arrivano grandi idee e grandi passioni per l’Europa. Che è vista, al peggio, come l’istituzione che stabilisce la misura delle banane e, al meglio, come il mondo da cui vengono i competitori nella globalizzazione quali il capitalismo renano e quello francese. Ecco quindi un’Europa che non trasmette entusiasmo né suscita interessi. Non serve leggere il tutto come egoismi territoriali.
Sotto cova un conflitto latente tra l’eccesso di regole e il vitalismo delle economie territoriali. D’altro canto, neppure il tema delle tasse riesce a spiegare tutto. Come se ci fossero da una parte i virtuosi che pagano le imposte alla fonte e dall’altra gli scatenati evasori fiscali. Non si tratta quindi di questione settentrionale. Siamo forse di fronte alla necessità della politica di riterritorializzarsi. Perché oggi più che mai i territori sono sotto sforzo per competere nella globalizzazione.
E hanno bisogno di una politica non di sorvolo, ma che li accompagni in un paese moderno, in Europa e nel mondo. (...) Qui i problemi grandi, quelli della modernizzazione per stare nello spazio globale, e quelli piccoli, delle forme di convivenza di una società che cambia, sono più visibili e diretti.
Se vogliono cambiare, la politica e le rappresentanze possono riconoscere e riconoscersi nelle tante “tribù territoriali”, termine usato da Bill Clinton quando diceva che fare politica è, in primo luogo, “fare raduno delle tribù e costruire con loro una visione del futuro”.


Gian Antonia Stella, Negri, froci, giudei & Co. L’eterna guerra contro l’altro. Rizzoli, 2009. pp. 61-62, 64, 67-70, 71-72, 75-76, 81.
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In nome dei Savoia, del duce e del dio Po
E gli italiani si autoassolvono: mai stati davvero razzisti“O mi bela Madunina / che ti dominet Milan / ciapa su la carabina / e fa föra i taleban.” Il cartellone, poi replicato in una molteplicità di varianti sui muri e sul web, comparve tempo fa a una manifestazione della Lega Nord e riassume un sacco di cose. Un islamico ignaro del dialetto lombardo alle prese con una traduzione letterale lo leggerebbe così: “O mia bella Madonna, che domini Milano, prendi il fucile e uccidi gli studenti coranici.” Un’infamia: come si può invocare la madre di Gesù Cristo, venerata anche dai maomettani con santuari sparsi per l’Egitto e il Medio Oriente, a imbracciare le armi per ammazzare i suoi figli musulmani?
Stupidaggini. Chiunque orecchia appena appena il Milanese sa che quel testo è così ricco di ironia da depotenziare ogni carica di violenza. Così come sarebbe impossibile prendere alla lettera tante altre spacconate leghiste. Un giorno Ermino “Obelix” Boso dice che “gli immigrati bisognerebbe metterli tutti sul nevaio del Monte Bianco: da una parte potremmo contarli tutti bene, dall’altra potrebbero macinare il ghiaccio per fare granite alla menta.” Un altro, Giancarlo Gentilizi, propone: “Per far esercitare i cacciatori potremmo vestire gli extracomunitari da leprotti. Tin. Tin. Tin.” Un altro ancora, Umberto Bossi attacca le sanatorie; “Altro che 250.000 immigrati, con i parenti si arriva a tre milioni minimo minimo. E se si ammettono anche i cugini è una catena aperta. C’è poi da aggiungere che i musulmani possono avere quattro mogli: e dove le mettiamo le suocere?” Per non dire di uno striscione apparso all’annuale raduno di Venezia: “L’unico nero che vogliamo è il merlot”. Vanno presi alla lettera? “Ma va là!”, direbbe l’avvocato Niccolò Ghedini. E avrebbe ragione.
Guai a prendere sul serio certe sparate dei leghisti. Riderebbero: “Vedete? Manca il senso dell’ironia.”Peggio: mischiando tutto insieme, le forzature ironiche (come un manifesto contro la tratta delle prostitute nigeriane: “Vu ciulà?”) e le affermazioni davvero pesanti, si finisce per perdere di vista proprio queste ultime. Impedendo di cogliere fino in fondo la gravità di certi altri messaggi. Che trasudano un razzismo vero, calloso, incattivito, volgare con pochi altri paragoni al mondo.
Ci gioca da anni, la Lega, su questo equivoco. Nelle settimane in cui più lacerante è il dibattito sui respingimenti in un Mediterraneo che negli ultimi due decenni ha inghiottito, secondo il Vaticano, 14.600 morti, sul sito internet del partito compare un videogame dal titolo “Rimbalza il clandestino?” Il figlio del “Senatur”, Renzo Bossi, spiega che voleva “solo coinvolgere, scherzosamente, i giovani su un fenomeno reale che affligge le nostre coste.” Il senatore Piergiorgio Stiffoni sibila, a proposito della sistemazione di un gruppo di immigrati rimasti senza tetto a Treviso, “peccato che il forno crematorio del cimitero di Santa Bona non sia ancora pronto”? Sbuffa che era solo una battuta, anche se certo, se c’è da aiutare qualcuno senza casa, “gli aiuti vanno prima di tutto dati ai nostri fratelli, e l’immigrato non è mio fratello, ha un colore della pelle diverso.” Umberto Bossi tuona che “i padani hanno lavorato la terra per migliaia di anni, mica per darla ai Bingo Bongo”? Roberto Calderoni minimizza: “L’espressione riprende l’innocua vignetta di un vecchio fumetto per bambini che descriveva le avventure di un furbo africano sempre pronto a usare astuzie.” Lui stesso la usa e riusa: “Il motto di Prodi è tasse, canne, indulto e Bingo Bongo”. “No al voto dei Bingo Bongo.” “Faremo a pezzi questa legge pro Bingo Bongo”. […]
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Rileggiamo Ali sul deserto, con i ricordi di guerra del 1934 di Vincenzo Biani, un aviatore di stanza in Libia: “Gli equipaggi, navigando a pochi metri da terra, poterono seguire le piste dei fuggiaschi e trovarono finalmente sotto di sé un formicolio di genti in fermento; uomini, donne, cammelli, greggi; con quella promiscuità tumultuante che si riscontra solo nelle masse sotto l’incubo di cataclisma; una moltitudine che non aveva forma, come lo spavento e la disperazione di cui era preda; e su di essa piovve, con gettate di acciaio rovente, la punizione che meritava. (…) Quando le bombe furono esaurite, gli aeroplani scesero più bassi per provare le mitragliatrici. Funzionavano benissimo. (…) Nessuno voleva essere il primo ad andarsene, perché ognuno aveva preso gusto a quel gioco nuovo e divertentissimo. E quando finalmente rientrammo a Sirte, il battesimo del fuoco fu festeggiato con parecchie bottiglie di spumante. (…) In tutto il vasto territorio compreso tra El Macchina, Nufilia e Gifa, i più fortunati furono gli sciacalli che trovarono pasti abbondanti alla loro fame”.
Ci voleva un profondissimo disprezzo razziale verso quegli africani per dare ai nostri un cuore così indifferente davanti alle carnefice di vecchi, donne, bambini. Non poteva bastare la singola indifferenza alla ferocia di questo o quel fascista assassino: ci voleva intorno un’indifferenza corale, collettiva, che coinvolgesse migliaia e migliaia volonterosi carnefici del duce. Altro che “presunta bonomia” del fascismo italiano “traviata, peraltro soltanto alla fine, dalle “cattive amicizie” del duce”, scriveva venti anni fa su “l’Unità” Luciano Canfora: si trattò invece di una “vicenda criminosa che rischiava di essere rimossa per sempre dalla incoercibile tendenza nazionale all’autoassoluzione”.
“Il mito degli “italiani brava gente” serviva soltanto a coprire, ad attenuare, la vera natura di una massa di conquistatori senza scrupoli, impegnata in imprese sbagliate, guidata da ordini scellerati”, scrive nel libro su citato Angelo Del Boca. E una delle prove della “quasi totale connivenza”, spiega lo storico piemontese in La caduta dell’impero, il terzo volume del ciclo Gli italiani in Africa orientale, “si trova nell’Archivio fotografico di Addis Abeba, dove sono state raccolte alcune decine di migliaia di immagini. (…) Ci sono, anzitutto, a centinaia, le immagini con forche di ogni tipo, rozze o ben finite, con appesi uno o due cadaveri. Spesso i carnefici italiani si fanno fotografare in posa dinanzi alle forche e reggendo per i capelli le teste mozzate dei patrioti etiopici. In alcune foto gli aguzzini innalzano le teste recise su picche. In altre le fanno rotolare fuori da un cesto. In altre, ancora, le espongono in mostra su un telone, quasi fossero oggetti da baratto. Un sorriso incerto, impacciato, è stampato sul volto di questi militari, che la propaganda fascista indica come portatori di civiltà e di benessere. Ma ciò che sorprende di più è il pieno consenso espresso dai volti di chi circonda gli aguzzini. Come se questi macabri spettacoli costituissero un rito quotidiano, naturale, scontato. In realtà, in quel loro crudele e orrendo esibizionismo c’è soprattutto il disprezzo per le popolazioni indigene che essi ritengono socialmente e culturalmente inferiori.”
Per mozzare la testa ad un uomo basta un assassino, per esporre quella testa come un trofeo tra gli urrà di compiacimento ci vuole la complicità di tutti. O quasi tutti.” […]
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E qui torniamo al neonazismo di oggi. Perché la stolta leggerezza con cui i leghisti chiamano i neri Bingo Bongo è, ovviamente, mille miglia lontano dalle atrocità del nostro colonialismo, dalle leggi razziali fasciste e dall’apartheid che gli italiani inventarono in Africa istituendo per primi il cinema per bianchi e quelli per neri, gli autobus per bianchi e quelli per neri e così via. Ma è figlia della pressoché assoluta ignoranza di cosa fu il nostro colonialismo. E dell’assenza di ogni senso di colpa per il razzismo italiano fascista.
Le cose, ovvio, non vanno mischiate. Lo diceva già nel 1993, all’uscita di una nuova edizione della Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Renzo de Felice: “Confondere i fenomeni di razzismo di oggi con quello di mussoliniano di ieri o peggio ancora con le leggi naziste “è come scambiare la varicella con la peste bubbonica”. Giustissimo. ‘E difficile però sottrarsi a una constatazione. Quelle che i nazisti, i xenofobi, gli intolleranti di oggi si rifanno sempre allo stesso assunto: l’Italia non è “storicamente” un paese razzista. E se non lo era prima, ovviamente, men che meno lo è oggi…
Va avanti così da anni. I tifosi di una squadra di basket varesina stendono sugli spalti della partita contro il Maccabi di Tel Aviv uno striscione con scritto “Hitler ci ha insegnato che uccidere gli ebrei non è peccato”! Coro: Ma l’Italia non è razzista! Un imprenditore dà fuoco a uno dei suoi muratori, il romeno Ion Cazacu, perché aveva osato lamentarsi che veniva pagato un settimo degli altri operai! Ma l’Italia non è razzista! Un giovane studente ghanese, Emmanuel Bonsu Foster, scambiato per uno spacciatore, accusa i vigili urbani di Parma di averlo pestato a sangue e aver scritto sulla busta del verbale “Emmanuel, negro”! Ma l’Italia non è razzista! Quattro leghisti ubriachi sfasciano un locale di Venezia il giorno della festa padana picchiando selvaggiamente due camerieri immigrati? Ma l’Italia non è razzista! I siti internet sono allagati di pagine che urlano “Immigrati di merda!”, “Zingari di merda!”, “Froci di merda!”? Ma l’Italia non è razzista!
E via così. Uno studio dell’Osservatorio europeo sul razzismo e la xenofobia (Eucm) di Vienna denuncia dopo aver monitorato 450 blog di supporter che il nostro è il paese che “ospita il maggior numero di siti internet di tifosi calcistici a sfondo razzista e xenofobo” pari al 32% di quelli esaminati? Ma l’Italia non è razzista! Tirano le banane dagli spalti a Mario Balotelli e agli altri giocatori di colore? Ma l’Italia non è razzista! Il giovane Matteo Fraschini, adottato in fasce da un professionista milanese e cresciuto a Milano, perfetto accetto meneghino, buone scuole, decide di trasferirsi in Africa dove non è mai vissuto perché non ne può più (“Dove hai rubato la macchina?”, “Come mai parli italiano?”, “Tu avere freddo?”) dell’aria che tira verso i neri? Ma l’Italia non è razzista! Marcello Veneziani scrive furente su Libero: “Un’irresistibile invettiva raccontando di come gli sia sempre più insopportabile la “persecuzione razziale” che a causa della sua “carnagione scura, rafforzata dal sole, e dall’aspetto vagamente arabo-islamico-orientale”, subisce “sulle strade, negli aeroporti, ovunque”? Ma l’Italia non è razzista!
Si può andare avanti per ore, con l’elenco. Ore. Tanto per dare un’idea: le notizie dell’Ansa con le parole razzista, razzisti o razzismo nel titolo furono 83 in tutto il 1988, salirono a 161 in tutto il 1998 per impennarsi nel 2008 a ben 878. Dieci volte di più che venti anni prima. Una deriva da gelare il sangue. Ai primi di novembre 2009 il solo archivio elettronico dell”Corriere della Sera” (poi ci sono i ritagli di carta…) conteneva 1315 articoli che avevano le parole razzista, razzisti o razzismo nell’occhiello, 2694 nel sommario, 3083 nel titolo. A dispettosi chi minimizza, del resto, nel marzo 2007 la direttrice dell’Eucm Beate Winkler lanciava l’allarme: “In Europa il 64% delle persone considera che la discriminazione su base etnica e “diffusa”, ma il dato sale al 73% per gli italiani”.
Uno studio 2008 di Demos-La Polis confermava: a parte i paesi dell’Est europeo quali la Polonia, la Repubblica Ceca, l’Ungheria e la Romania, nessuno quanto gli italiani considera superflui gli immigrati per l’economia nonostante producano quasi un decimo della ricchezza nazionale e nessuno quanto gli italiani (51%) li vede come una “minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone”. Stiamo 14 punti sopra il Regno Unito, 21 sopra la Germania, addirittura 29 sopra la Francia. Un sondaggio della Ipsos di Nando Pagnoncelli nel settembre 2009 ha chiesto: “A proposito di immigrati clandestini, il cardinale Bagnasco ha invitato ad “accoglierli come fratelli”, nel timore che possano ripetersi gli episodi di razzismo denunciati in queste settimane. Ha ragione?”. “No, perché lo stato non riesce a gestire il continuo afflusso”, ha risposto il 43% degli abitanti della penisola. “No, ci sono stati solo episodi isolati: gli italiani non sono razzisti”, ha replicato un altro 25%. Come volevasi dimostrare: l’Italia non è razzista!
C’è chi dirà: i “nostri” immigrati delinquono di più. Sarà… Ma la tesi potrebbe anche essere rovesciata. Visto che l’Italia non si impegna più di tanto a combattere la mafia e la camorra. Abbatte lo 0,97% degli abusi edilizi accertati, tollera una quantità enorme di reati fiscali, chiude un occhio su una montagna di illegalità commesse da moltissimi cittadini, c’è paradossalmente da meravigliarsi che a infischiarsene della legge commettendo dei reati sia, ogni anno, “solo” il 2% degli immigrati regolari.“Per chi ha paura tutto fruscia”, diceva Sofocle. Ma c’è davvero motivo di aver così tanta paura? ‘E l’Italia un paese particolarmente violento? I dati sembrano dire di no: anzi, sulla carta (a parte certe regioni del Sud dove paradossalmente la percezione della insicurezza è minore) è uno dei meno insicuri. E allora? Un esempio dice tutto: la relazione letta all’inaugurazione dell’anno giudiziario 1992 del distretto della Corte d’Appello di Lecce (province di Lecce, Brindisi e Taranto) riferiva che l’anno prima c’erano stati nell’area 149 omicidi. La stessa identica relazione letta nel 2009 per l’anno precedente ne registrava 13: un dodicesimo. Eppure, ha spiegato ai prefetti al convegno di Padova nell’ottobre 2009 Alfredo Mantovano, sottosegretario agli Interni, leccese ed ex magistrato di quel distretto, “pare impossibile ma la gente non ha mai percepito tanta insicurezza come ora.” […]
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Proprio la storia delle ronde, del resto, dice tutto. Pareva a un certo punto che l’Italia intera infestata da orde di spacciatori, stupratori e tagliagole non potesse resistere un solo istante di più senza la creazione di squadroni di milizie volontarie che pattugliassero le strade. ‘E bastata l’imposizione, pretesa innanzitutto dai poliziotto e dai carabinieri, di poche regole minime che tenessero alla larga bulli, attaccabrighe, Nembo Kid di periferia e Rambo da bar sport perché già a metà ottobre 2009 un flash dell’Ansa denunciasse un flop. Spettacolare il caso di Arcore, la “Versailles” berlusconiana: nonostante l’appello ad “arruolarsi” lanciato in piazza dal Cavaliere, nonostante i manifesti su tutti i muri, nonostante l’impegno diretto del sindaco destrorso, dopo mesi di proclami e settimane di reclutamento i volontari erano due. Su sedicimila.
“Mi hanno raccontato di un giovane padre il cui bambino ha paura dell’uomo nero”, ha scritto sulla “Repubblica” Adriano Sofri. “Il padre gli ha detto che non risulta a sua memoria un solo caso di uomo nero, gli ha fatto vedere le statistiche: niente, il bambino ha ancora paura. Chi non si intenerirebbe di un bambino spaventato dall’uomo nero? Purché una popolazione di milioni di adulti non pretenda di fare tenerezza anche lei. La xenofobia, si dice, è la paura del diverso, dunque è qualcosa di naturale. Chi non prova un’apprensione, una diffidenza, un’angoscia nei confronti dello sconosciuto? Mah: non ci si crogioli troppo con le etimologie. La xenofobia è anche l’invenzione del diverso, e il disprezzo, l’avversione e la persecuzione del diverso. ‘E da un passo dal razzismo e spesso quel passo l’ha fatto. Gli italiani non sono xenofobi, non sono razzisti? Ah, Padre, non metterci alla prova, non indurci in tentazione …”
Una cosa è certa: anche in Francia sono spietati sulle espulsioni, ma nessun esponente delle forze del governo si sogna di urlare per le strade “clandestini di merda”. In Gran Bretagna hanno addirittura più problemi di terrorismo islamico ma nessun esponente delle forze di governo si sogna di urlare per le strade “islamici di merda”. E lo stesso Geert Wilders che parla di “fascismo islamico” non si sogna di sversare pipì di maiale sui luoghi destinati a ospitare moschee. […]
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Da allora, negli anni, abbiamo sentito e letto di tutto. “Immigrati clandestini, torturali. ‘E legittima difesa.”, dice una pagina di Facebook della sezione di Mirano che prima della dissociazione registrava tra gli amici diversi leader leghisti. “Gli immigrati sono animali da tenere in un ghetto chiuso con la sbarra e lasciare che si ammazzino tra loro”, discetta il consigliere comunale di Treviso Pierantonio Fanton. “Bisogna usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto fatto a un nostro cittadino”, dichiara il suo collega Giorgio Bettio. “Ci vuole una guardia civile contro i negri, bisogna semplificare le procedure per il porto d’armi perché la gente possa difendersi”, teorizza Erminio Boso. “Quando ci libererete dai negri, dalle puttane, dei criminali, dai ladri extracomunitari, dagli stupratori color nocciola e dagli zingari che infestano le nostre case, le nostre spiagge, le nostre vite, le nostre menti? Ne abbiamo le palle piene. A dir poco. Sbatteteli fuori questi maledetti”, strilla “la Padania” in un articolo del 1997 che, spiega il direttore di allora, usa “toni forti per esprimere nella sostanza il pensiero di molti cittadini”.
Per non dire degli sfoghi sul sito del partito, denunciati dalla “Repubblica”: “Gli ebrei? “Maledetti cani bastardi, aveva ragione Hitler”. (…) “Carletto da Venezia” suggerisce la soluzione per liberare le nostre città dalle prostitute straniere: “Basta imbarcarle a Genova su una petroliera e magari fare affondare le puttane alle Bermuda”. “Secondo me l’unica soluzione a questi problemi è il napalm, altro che rimpatri, tanto dopo dieci giorni sarebbero di nuovo qui a rompere i ciglioni. Padania libera!” “Non mi piacciono i terroni, ti sciogliamo nell’acido se vieni qui al Polo Nord.” “C’era da aspettarselo. Che i komunisti del kazzo tirassero fuori qualcosa contro la Lega Nord. I veri nazisti sono quei bastardi komunisti che vogliono annientare la nostra identità imponendo la società multirazziale”.”
Parole in libertà? Riascoltiamo allora quelle che Umberto Bossi, il padre-padrone del partito, scandì al congresso della Lega al Palavobis alla fine degli anni Novanta: “Nei prossimi dieci anni vogliono portare in Padania 13 o 15 milioni di immigrati, per tenere nella colonia romano-congolese questa maledetta razza padana, razza pura, razza eletta”. Lo stesso concetto espresso da Gustav Kossimma, lo storico tedesco che scrisse un celebre manuale di preistoria della nazione germanica, che dichiarò l’archeologia “scienza di interesse nazionale” e contribuì ad aprire la strada al nazismo elaborando le definizione “una razza, una cultura, un popolo”. […]
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E allora come la mettiamo? Vuoi vedere che gli italiani non sono razzisti quando non hanno “altri” nei dintorni e lo diventano quando sono costretti invece a confrontarsi, come sostiene il filosofo Salvatore Veca e come rivela il libro in cui Giuseppe Caliceti (Marocchino! Storie italiane di bambini stranieri) ha raccolto i pensierini degli scolaretti immigrati? Diciamo che sono razzisti “alla loro maniera”, rispondeva vent’anni fa Giorgio Bocca, “alla maniera di un paese cattolico latino che sta da millenni al crocevia della storia delle migrazioni, delle invasioni e delle traduzioni; un paese che ha ignorato o ridotto al minimo le guerre civili di religione; che è arrivato per ultimo con scarsa convinzione all’esperienza coloniale ignorando per secoli problemi della convivenza fra gente di colore diverso”.
E chiudeva quel suo libro, intitolato proprio Gli italiani sono razzisti?, spiegando che in quel momento non c’erano “ancora grossi drammi” però… Però “tutto cammina maledettamente in fretta in questo mondo, compreso il razzismo. Stiamoci attenti”. Una raccomandazione che oggi va raddoppiata. Anche l’altra volta cominciò tutto con piccole forzature nazionaliste apparentemente insulse, come quei manifesti che a Torino, in nome dell’italianità e del disprezzo per i negri, annunciavano Louis Armstrong chiamando il mitico trombettista jazz con il nome tradotto in italiano: “Concerto di Luigi Braccioduro”. C’era da sorridere. Ma si sa come è andata poi a finire…