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Sguardi dall'India


lunedì 08 novembre 2010 legge Sandro degli Esposti
Una lettura in parallelo di brani tratti da tre “diari di viaggio” di autori italiani contemporanei – i tre titoli: Un’Idea dell’India , 1962 di Alberto Moravia, L’odore dell’India, 1962 di Pierpaolo Pasolini, L’esperimento con l’India 1975 di Giorgio Manganelli - rende evidente come il contatto con paesi e popoli lontani dalle personali esperienze quotidiane susciti nei tre scrittori reazioni e riflessioni diversificate, che rimandano ad una diversità di sensibilità, di scelte culturali, di storie individuali. E può inoltre suggerire stimolanti questioni su che cosa significhi la “conoscenza del diverso” e quali percorsi intellettuali la rendano possibile.


Alberto Moravia
Da Un’Idea dell’India Incubi e Miraggi
Secondo il pensiero religioso indiano, il mondo dei sensi è Maya, cioè l’illusione. In accezione più larga sono Maya la Storia e il Cosmo. La parola Maya viene dal sanscrito “mayin” che vuol dire mago: il mondo dei sensi sarebbe dunque una magia, una commedia magica che l’Anima Universale (Brahman) recita a se stessa per suo imperscrutabile ed esclusivo divertimento. Da questa idea del mondo dei sensi come illusione discendono due conseguenze: la prima è che questo mondo è assurdo ed irreale; la seconda che l’uomo deve rigettarlo e, attraverso la pratica mistica ed ascetica (Yoga), pervenire alla realtà assoluta che si cela dietro le variopinte e labili apparenze della Maya. Ora questa realtà assoluta è, appunto, l’Anima Universale o Brahman.
Non vogliamo estenderci più di tanto su questa concezione fondamentale della religione indiana. Vorremmo invece sottolineare che essa è assente dai più antichi libri sacri, i Veda, nei quali il mondo dei sensi è considerato come qualche cosa di reale. Ora i Veda furono scritti verso il 1500 a.C., assai prima dell’invasione indoeuropea in India, probabilmente nell’Asia centrale, dove i mitici Ariani avevano le loro sedi. La concezione del mondo dei sensi come apparenza compare invece nelle Upanishad o commenti brahamanici ai Veda, scritte quest’ultime in India più di mille anni dopo l’invasione. Quanto dire che questa concezione così pessimista fu quasi certamente determinata dal cambiamento di ambiente naturale. A riprova, essa fu estranea e ripugnante alla cultura dei persiani e dei greci che pure erano della stessa stirpe degli indiani; e non apparve in Europa che in alcune filosofie e mai nelle religioni. Ci saranno altri motivi, sicuramente; però è fuori dubbio che in India la realtà non è mai del tutto al livello dei sensi dell’uomo, ossia non è mai tale da consentire un’identificazione indolore e agevole dell’uomo con l’ambiente naturale e sociale. Questa realtà è invece sempre anormale, intendendo per anormalità tutto ciò che non è alla misura umana; e lo è nelle due maniere fondamentali ed opposte dell’incubo ossia di un’irrealtà angosciosa del miraggio ossia di un’irrealtà seducente.
L’irrealtà dell’incubo è quella che colpisce a tutta prima il visitatore. Il clima tropicale sembra essere il motivo principale di questa sensazione opprimente. Afa, insostenibile, umidità forsennata, piogge torrenziali e, quando, come avviene d’inverno, il tempo è bello e fresco, qualche cosa di eccessivamente brillante nella luce e di dolorosamente sfarzoso nei colori fanno sì che l’uomo in India viva sempre un poco al di sopra dei propri sensi, in un’angosciosa condizione di perpetua incredulità esistenziale. Al clima, dunque, si deve se molti aspetti dell’India abbiano l’intensità insopportabile delle cose che si vedono e si vivono negli incubi. Per fare un altro paragone, vi sembrerà di avere agli occhi delle lenti troppo forti ed anelerete a cambiarle. Appunto come anela a destarsi colui che dormendo abbia un incubo.
Accanto alle cause naturali, però, bisogna mettere quelle umane: ciò che l’uomo ha fatto in India, il modo col quale esso ci vive, non soltanto non smentiscono l’oppressione del clima ma anche lo confermano e lo aggravano. Per fare un esempio, tutte le società sono Maya cioè apparenza, in quanto non sono mai in realtà come appaiono; ma nessuna società ha un’ossatura così contraria alla ragione come la società indiana. Il sistema sociale delle caste introduce nei rapporti umani, anche i più semplici, un sottile senso di assurdità e di irrealtà tanto più angoscioso in quanto nessuno pare capace di sottrarsi. Infatti, come si è visto in Europa sotto le dittature, un regime assurdo non cessa di essere tale perché accettato dalla maggioranza, anzi diventa tanto più assurdo. Un incubo di un genere diverso è costituito in India dalla ripetizione di certi aspetti del male fisico. Vedere un solo lebbroso o un solo malato di elefantiasi è certamente cosa triste; ma vedere decine di lebbrosi come a Benares o decine di malati di elefantiasi come a Cochin trasforma la tristezza in incredulità; proprio come durante un incubo viene fatto di pensare: tutto questo non è reale, adesso mi sveglierò. E la stessa cosa va detta per tutti gli infiniti aspetti della povertà indiana ripetuti, diffusi, insistenti ma mai veramente normali ed accettabili.
Espressione diretta dell’incubo indiano è l’architettura di questo Paese: per esempio i templi brulicanti di sculture mostruose, nei quali si adorano simboli sessuali crudamente naturalistici o divinità spaventevoli come la dea Kalì. Ma nei templi antichi la sublimità dell’arte bilancia spesso la mostruosità delle rappresentazioni. Invece nell’architettura moderna, l’incubo domina senza freni, come nella pittura surrealistica. Incubo sono anche le stazioni, i palazzi governativi, le chiese in stile gotico che gli inglesi, contro ogni buon senso, hanno costruito in questi luoghi orientali, incubo i sacrari moderni indiani, simili a cassate siciliane, con giardini sparsi di ninfe di gesso colorato color pistacchio o fragola ed interni tappezzati di miriadi di specchi grandi e piccoli e popolati di grottesche statue di cartapesta colorata; incubo certe case di ricconi, come quella che vedemmo a Benares, nella quale, il proprietario, grande cacciatore e collezionista di curiosità, aveva tappezzato le stanze di leopardi e di orologi a cucù, di pelli di tigri e di specchi deformanti e di luna-park, di pelli di pantere e di oleografie popolari.
Ma non si finirebbe più nell’esemplificazione delle irrealtà e assurdità di specie angosciosa dell’India. In certo modo questa esemplificazione è fin troppo facile ed ovvia. Più difficile e più sottile è invece la definizione dell’irrealtà e assurdità di specie piacevole ossia del miraggio. In maniera un po’ schematica si potrebbe senz’altro affermare che tutti gli aspetti belli dell’India partecipano più o meno della qualità di inconsistenza e di inganno che è propria a certe allucinazioni dei deserti. E prima di tutto il paesaggio. Esso non ha mai il rilievo fermo e ben disegnato, i colori limpidi ed esatti del paesaggio mediterraneo. Il paesaggio indiano non ha volumi, anche quando è montuoso od accidentato; ed i suoi colori sono per lo più avvolti in una luminosità indiretta, remota e fluttuante. Sotto cieli immensi, questo paesaggio sembra piuttosto un’apparizione che una realtà. Apparizione misteriosa, malinconica, poetica che un vento un po’ forte potrebbe pian piano spingere via insieme alle nuvole, alle nebbie, ai fiumi.
Questo senso di miraggio è proprio in India anche alle opere degli uomini quando sono belle e in accordo con l’ambiente naturale. Niente è più irreale di certe cittadine fortificate che sorgono improvvise dalle irreali pianure indiane. Coi loro castelli merlati rossi e bruni inerpicati coi contrafforti e le torri su acropoli rupestri e leonine; le loro case fittamente raccolte intorno all’acropoli e circondate da cinte di mura intatte che serpeggiano su e giù per le forre e sui rilievi; queste città che non stanno sulla strada maestra, che non si ha il tempo di visitare e nelle quali probabilmente non si troverebbe che rovine, povertà, vuoto e silenzio, rimangono nella memoria piuttosto come apparizioni incantevoli di incerta origine e significato che come aspetti concreti di una civiltà ben distinta.  Chi la fondò e costruì? Che cosa vi avvenne? Quando furono prospere e potenti e quando decaddero? Nell’assenza della storia o meglio del senso della storia in India (gli indiani hanno il senso dei cicli cosmici, non quelli di cicli storici) tutte queste domande sembrano futili; e se ne conferma il carattere di magico trucco che il pensiero religioso dell’India attribuisce al mondo degli uomini con le sue glorie e le sue vicende. In un romanzo famoso: Passage to India di E.M. Forster,questo senso di irrealtà dell’India e degli indiani forma il fondo della narrazione e ne determina gli sviluppi. Ciò che divide ed oppone nel mondo gli inglesi agli indiani non è tanto il colore della pelle o i privilegi e i soprusi del colonialismo quanto il diverso sentimento della realtà che per i primi è un fatto sicuro e per i secondi, invece, qualche cosa di fluttuante e di incerto. Come dice Forster, ad un certo punto.”…niente in India è identificabile e il solo fatto di voler identificare qualche cosa ne causa la scomparsa oppure la trasformazione in qualche cosa di diverso”. Effettivamente l’India è il Paese delle cose che ci sono e non ci sono, che vanno e vengono e la cui esistenza comunque non dimostrabile con mezzi scientifici. Simbolo di una certa India tradizionale potrebbe essere il cosiddetto rope-trick (trucco della corda) in questo modo descritto dal viaggiatore arabo Ibn Batuta. “Prese una palla di legno con diversi buchi attraverso i quali passavano delle lunghe corde. Gettò la palla per aria ed essa si alzò fino a quando non la vedemmo più. Quando non rimase in mano al fachiro che un’estremità della corda, egli ordinò ad un ragazzo, suo aiutante di arrampicarsi. Il che colui eseguì scomparendo ben presto dai nostri occhi. Il fachiro lo chiamò tre volte senza ricevere risposta, allora, adirato, prese un coltello. Si arrampicò a sua volta sulla corda e scomparve. Poco dopo, ecco vedemmo cascare a terra prima una mano del ragazzo, poi un piede, poi l’altra mano, poi l’altro pied e alla fine il corpo e la testa. Il fachiro, discese quindi ansimante e con i vestiti macchiati di sangue. Ma su un ordine dell’emiro, egli raccolse le membra del ragazzo, le rimise insieme alla meglio ed ecco che il ragazzo si levò in piedi, come se niente fosse stato”. Noi non abbiamo visto questo rope-trick che pur tuttavia si fa ancora ed è stato pure fotografato, ma alcuni anni or sono, a Ceylon, vedemmo il mango-trick, consistente nel piantare nel suolo un seme di mango e poi, stesovi sopra un fazzoletto e fatti alcun i gesti rituali, far spuntare o meglio far credere che spunti una pianta verde e prospera alta mezzo metro, nel tempo di pochi minuti.  lo stesso fachiro del mango trick, eseguì quella volta, per noi, ancora un altro gioco illusionistico nel quale, inginocchiatosi a terra completamente ignudo, si metteva due dita in bocca e ne cavava una dopo l’altra una quindicina di biglie di marmo della grandezza delle comuni palle del biliardo. Questi tricks comunque siano ottenuti se con mezzi di suggestione ipnotica o altri, hanno per noi un carattere soprattutto indicativo. Essi stanno infatti a significare che la credenza nella natura illusoria della realtà sensibile, una volta varcate le frontiere dell’India, non è soltanto una profonda speculazione filosofica e religiosa ma anche un’abitudine mentale popolare che ispira e giustifica fino ai ciarlatani da fiera. A questo punto, però, bisognerebbe osservare che la concezione del mondo dei sensi come Maya cioè illusioni è pessimista soltanto ove la si consideri dal punto di vista mondano Se invece la si guarda dal punto di vista religioso è La più ottimista che si possa immaginare in quanto, nel momento stesso in cui si svaluta la realtà sensibile, afferma con assoluta sicurezza e meravigliosa complessità di aspetti e di significati l’esistenza di un a realtà sotterranea. Gli incubi ed i miraggi dell’India non sono forse che gli indizi dell’eterna capacità religiosa indiana che domani potrebbe ridestarsi per la sollecitazione di una particolare congiuntura storica. . Ricordiamo a questo proposito la frase di un giovane indiano laureato in archeologia che ci accompagnò a visitare una delle più antiche tebaidi del mondo, le grotte buddiste di Ajanta: “Secondo la scienza moderna la materia è energia. Ora che cos’è l’energia se non il soffio divino ossia l’Atman?”. Egli parlava per ingenuo nazionalismo, volendo dimostrarci che, nonostante il progresso scientifico occidentale, il pensiero religioso indiano, vecchio di cinquemila anni, era ancora all’avanguardia. Tuttavia era significativo che il suo orgoglio patriottico non ricorresse alle glorie terrene degli antichi imperi indiani bensì al primato dell’Atman.

Pierpaolo Pasolini
Da “L’odore dell’India”
Gli indiani in questo momento sono un immenso popolo di frastornati, di vacillanti; come delle persone vissute per lungo tempo al buio, e improvvisamente riportate alla luce. La loro reazione è mite, di stupore ben dominato e umile. Ma tutta quell’ombra atroce da ci sono appena usciti continua a gravare minacciosa sul loro orizzonte. Per esempio sono state abolite le caste. La vita or, procede come se tale abolizione fosse reale: in realtà non lo è ancora. Gli indiani forse se ne rendono conto in ogni momento della giornata, in ogni circostanza. Ma per un osservatore come ero io, la cosa aveva un’aria ambigua e sfuggente.
E’ proprio vero che gli intoccabili non esistono più? In pratica, io davo la mano a tutti quelli che mi capitavano, e tutti me la davano, senza imbarazzo: eppure testimoni attendibili, sia indiani che europei, continuavano insistenti a dire che l’intoccabilità non è affatto scomparsa.
E’ concepibile un popolo moderno in cui ci siano milioni di intoccabili? Gli indiani sono poi in numero enorme, e in crescita continua: non sono, per così dire, nemmeno numerabili: infatti non esiste ancora una stato civile. L’unica differenziazione tra un individuo e un altro è, in pratica, il suo credo ed il suo rito religioso: a cui appunto gli individui si attaccano con folle tenacia, specializzandosi in una tipicità che non serve a nulla, è pura, maniaca esteriorità rituale.
Perciò ogni indiano tende a “fissarsi”, a riconoscersi nella meccanicità di una mansione, nella ripetizione di un atto. Senza questa meccanicità e questa ripetizione, il suo senso di identità riceverebbe un brutto colpo: tenderebbe a dissociarsi  e a svaporare. Perciò, a tutti i livelli, gli indiani appaiono come codificati. E’ quello che in Europa si chiama conformismo, ma che qui non essendo borghese o piccolo borghese, ma tradizionale, di  una tradizione antica e disperata, non ha nulla di misero e meschino: la piccolezza a cui riduce l’uomo ha qualcosa di grandioso. Tutto in India, a osservare bene, tende a classificarsi, cioè a fissarsi degenerando. Di questo si hanno infiniti, per quanto confusi, esempi. Nelle case e negli alberghi le mansioni dei servi hanno divisioni e prerogative patologiche: un bramino non potrà fare quello che fa un sick, e un sick non si adatterà mai a fare quello che fa un intoccabile. Entrare in un albergo significa entrare nel cuore di una serie di specializzazioni folli. Altre specializzazioni folli si hanno durane i pranzi: e lo sanno bene le mogli dei diplomatici, quando devono organizzare qualche cena a cui sono invitati indù, musulmani, bramini eccetera: ci devono essere cento qualità di cibi, perché il cibarsi è rituale, e il rito non è trasgredibile. A livello più basso, in una trattoria popolare, assistere ai pranzi della gente è un vero spettacolo. Gli indù per rito devono mangiare con le mani, anzi, con una mano sola, non ricordo se la sinistra o la destra: si vedono perciò delle folle di monchi che appallottolano il riso, lo bagnano nel grasso curry e se lo portano alla bocca come in una silenziosa scommessa. Alle volte la codificazione ha degli aspetti sublimi, come mi è successo di osservare passeggiando per il villaggio di Ajunta. Erano i primi giorni che ero in India: da Bombay eravamo andati in aereo ad Aurangabad e da Aurangabad in macchina ai templi di Ellora, e, appunto, alle cave di Ajanta. Il caldo era feroce: l’estate (che d’inverno si dimentica sempre) era nella sua piena gloria, il cielo logorato dal troppo sole. Stremati dalla visita alle cave, sparse su un costone roccioso lungo un fiumiciattolo per tigri e leopardi, ci eravamo fermati un momento al villaggio. Moravia si era trattenuto sulla macchina, in un filo d’ombra, fra le indescrivibili catapecchie in fila sul polverone: io non avevo potuto resistere a fare due passi. Le cose mi colpivano ancora con violenza inaudita: cariche di interrogativi, e, come dire, di potenza espressiva. I colori dei pepli delle donne, che lì erano perdutamente accesi, senza nessuna delicatezza, verdi che erano azzurri, azzurri che erano viola; l’oro delle conchette per l’acqua, piccole prezioso come scrigni; i mucchi di folla vestiti di stracci svolazzanti; i sorrisi nelle facce nere sotto i turbanti bianchi: tutto mi riverberava nella cornea, imprimendosi con tale violenza da scalfirla. Camminai per la strada soffice di polvere, stretta tra le file di casupole rette da zoccoli sopra gli scoli, e piccole come stabbi, di legno dipinto; per lo più erano i soliti negozietti, con dentro accoccolato il mercante; banane e ananas erano distesi per terra, con branchi di ragazzetti giovani introno, sotto l’ombra contorta di qualche banjan con le radici spioventi tra i rami; e file di donne camminavano tra la sporcizia coi loro bambinelli dagli occhi dipinti. Poi, la strada svoltava a destra, verso una minuta porta medievale di pietra, sul cui zoccolo erano accucciati dei piccoli banditi, coi baffetti sul labbro superiore, come scrostati da qualche pala d’altare.
Lì le case erano dei veri pollai: in una piccola come un piccolo palcoscenico di burattini, e grigia di sudiciume, c’erano due, tre bambinelli nudi: altri bambinelli nudi erano sparsi intorno. Mi guardavano fissi, ogni tanto gridandomi una parola come : “natan, natan” alle spalle. Dall’altra parte della stradina, tutta polvere e fango di fogna, c’era un’altra casetta: di pietra questa, con un alto zoccolo. sopra questo zoccolo era distesa una vecchia, proprio lungo la soglia. Pareva inchiodata sulla pietra. Come in un incubo, pareva si volesse alzare e non potesse. Era evidentemente in agonia. Magra come un bambino, tirata dai fasci dei suoi poveri nervi contratti, stava lì supina, con la nuca sulla pietra, agitando la testa a destra e a sinistra. Il suo vestito era verde, d’un verde acceso, ed era completamente aperto davanti: il suo seno distrutto era tutto scoperto. Anche dei bambini che mi avevano seguito, ora, la guardavano con me: e anche nel loro sguardo c’era un leggero sgomento, ma come rassegnato e scontato. Feci ancora qualche passo verso di lei: verso lo zoccolo, e verso la piccola fogna secca che vi scorreva sotto. Il verde acceso della stoffa, la pelle scura e raggricciata…. Ma da vicino, mi accorsi che i movimenti della bocca, che parevano pure moti di dolore, di smaniosa insofferenza, erano invece parole, suoni. Infatti, la vecchia morente, cantava. Non era proprio un canto articolato, ma una nenia, una cantilena. Del resto, ogni canto indiano è così. Il dolore, lo spavento, lo spasimo, la tortura avevano trovato quella cifra in cui cristallizzarsi: sfuggivano alla loro particolarità intollerabile per sistemarsi, e quasi ordinarsi, in quel povero meccanismo di parole e melodia. Era poco più che un pigolio, che usciva da quel seno nudo e rattrappito, da quelle povere membra giunte alla fine della loro via fisica, avvolte in quel vestito verde di giovinetta: eppure bastava a trasformare l’intollerabilità della morte in uno dei tanti disperati, ma tollerabili, atti di vita. In questo caso, ripeto, la codificazione (o ritualizzazione che pone riparo alla miseria psicologica indù) aveva qualcosa di sublime. In altri casi si ha il processo esattamente contrario, si arriva cioè al sordido, all’immondo. Lo stesso rispetto per la normatività e la litote hanno i giornali indiani: ma questi talvolta fino al ridicolo: i quotidiani di Bombay e di Calcutta, cioè di due inferni, sembrano quelli di Zurigo o Bellinzona. Caratteri piccoli, impaginatura aristocratica, lingua perfetta, graziosa e non priva di umorismo. In tal caso la codificazione ah le caratteristiche ben note del conformismo: infatti siamo a livello non più popolare, ma borghese e intellettuale. In India c’è circa l’ottantacinque per cento di analfabeti (i quali, per lo più, nel loro ambito sono tuttavia coltissimi): si deduca, dunque l’esiguità del numero degli intellettuali, che bene o male, operino e giudichino e si comportino a livello di Nehru: e siamo in grado di collaborare con lui. Ho avuto occasione di conoscerne molti, di questi intellettuali indiani. Anzi, sono andato in India proprio col pretesto di un invito alla commemorazione del poeta Tagore, che è considerato il più grande poeta indiano moderno, ma che in realtà è poco più che un poeta dialettale: un Barbacani o un Pascarella, per intenderci, con molto spiritualismo alle spalle, anziché il nostro solito qualunquismo. Appena giunti a Bombay, Moravia ed io abbiamo assiduamente partecipato ai lavori di questo congresso. Essi si svolgevano all’aperto nel prato di un teatro lungo la via centrale della città. Era stato alzato un grande padiglione, sull’erbetta estiva, e lussuosi lembi di stoffa non facevano altro che palpitare agli aliti tiepidi, ai potenti fiati dell’odore dell’India. Sotto il padiglione brulicava una folla di dignitari, di scribi, di schiavi, di principi: o almeno di persone vestite come dignitari, scribi, schiavi e principi: o almeno di persone vestite come dignitari, scribi, schiavi e principi. . Anche i loro pepli candidi, o gialli o arancione, e i sari colorati delle donne, svolazzavano a quel vento indicibile, residuo di altre epoche storiche. In fondo al padiglione sorgeva un piccolo palcoscenico dove, nel tepore dell’estate dolce, infetta e snervante, si alternavano gli oratori, davanti a dei microfoni potentemente installati. Erano poeti, critici, giornalisti, venuti da tutti gli stati dell’India a dare la loro testimonianza al poeta celebrato: chi coi piccoli lineamenti quasi mongolici del Nord; chi con le belle facce del centro, brune ed incorniciate di superbi capelli ondulati; chi con la greve ed ossuta corporatura montanara, da vecchio contadino; chi col corpicino agile degli indiani che si vedono brulicare nei bazar. E tutti coi più diversi costumi: da quello elegantissimo che usa portare Nehru, coi calzoni stretti, una casacca scura stretta ai fianchi, alla tunica arancione dei buddisti, ai drappi stretti sulla spalla come gli antichi greci, al famoso lenzuolo fatto passare tra le gambe coi polpacci scoperti, e, infine, al vestito un po’ goffamente europeo. Ma ciò che univa e identificava tutti era un profondo conformismo: che quasi riusciva a commuovere. A nessuno veniva minimamente in testa di dare una vera e propria testimonianza critica, con quanto di sorprendente, di illegale e di scandaloso questa comporta: essi si affannavano solamente a dare un tributo di affetto, a districare un pensiero retorico scritto con tutta l’anima. Tra l’indifferenza del pubblico, del resto, che prevedeva ogni cosa con la massima apatia: dato che era in uno stato d’animo simile a quello degli operatori, in stasi anziché in eccitazione, ma segnato da una medesima fiacchezza: quasi per smarrimento traumatico, o denutrizione, L’abitudine di classificare e di gerarchizzare (che tutto sommato indica negli intellettuali, oltre che la debolezza razionale, la tipica dolcezza ed umiltà degli indiani) deriva da quell’atroce archetipo mentale che informa di sé ogni atto del pensare e dell’agire indiano: il principio di casta. Di esso, negli intellettuali, rimane, la meccanica, appunto, classificante e gerarchizzante: che fissa le cose e le idee in una specie di quadro immobile che non si evolve senza patemi ed angosce. Gli stessi patemi e le stesse angosce che si dipingono visibilmente nelle facce dei camerieri quando gli si chiede qualcosa che è fuori dal menù o dalle abitudini.

 Giorgio Manganelli
da “L’esperimento con l’India”
 La porta dell’aereo – la casa volante e protettiva ha una porta – si spalanca, lentamente; fuori, alle cinque di mattina è ancora notte, i soliti riflettori mimano una scena da gangster; ma è l’aria che invadendo l’abitacolo, avvolgendomi mentre scendo per la scaletta, mi annuncia che sono altrove. Conosco questa aria, la annuso e mi annusa: è l’aria tropicale, acquosa, morbida, calda di erbe macerate, di animali, di fogne aperte, inasprita da un sapore di orina, di bestia in cattività; è un’aria che mi commuove, mi eccita per la sua qualità disfatta ed ingenua, la sua gravezza generatrice di fungosità, di muffe, di muschio; questa è l’aria dell’India, un’aria sporca e vitale, purulenta e dolciastra, putrefatta ed infantile. Con quest’aria si può giocare, in quest’aria si può morire, comunque quest’aria è completamente pervasiva, ti conta le dita delle mani, ti tocca la nuca, ti accarezza come la lingua di un animale appena uscito dalle selve, più curioso che goloso. Hai l’impressione di immergerti in una palude d’aria, e l’Europa sprofonda alle mie spalle, sprofonda il pulitino Siddharta, anche il Vedanta, spiegato da Aldous Huxley, è un fantasma igienico; io sono in India, alle soglie di una malattia continentale, di un luogo che con la prima zaffata d’aria mi bofonchia alcunché di disfacimenti e di immortalità, di lebbra e di idoli. Nel tempo necessario per le poche formalità, alle dogane di Bombay – sono fiero di rispondere che “non ho macchina fotografica”- la notte arrotola il suo schermo, si slaccia le stelle, e comincia un’alba un po’ riassunta, che diventa una frettolosa aurora e infine un giorno pieno. Vengo circondato da magri, filiformi facchini, qualcuno mi induce a prendere un biglietto per un autobus. E’ un autobus altamente improbabile, corroso dall’aria, deserto; aspettano altri clienti, mi dicono in un terribile inglese, e l’autobus resta vuoto, pensa alla morte, alle maniglie che gli mancano, alla luce che non si accende, ai ventilatori che agitano le brevi pale come le ciglia di una vegliarda seduttrice; intanto, grandi uccelli, con ogni probabilità avvoltoi di ruolo, ruotano sul piazzale dell’aeroporto, grandi ed un poco fastosi, e mandano un loro verso che sa di ampio appetito, di truci conversazioni; mi adocchiano con interesse, con un vago compiacimento. In qualunque parte del mondo, quel soggiorno sulla corriera deserta e disfatta, protetta dal volo cruciforme degli avvoltoi, sarebbe condizione affatto sinistra: ma lì a Bombay è stranamente eccitante, un luogo così denso e fitto di immagini terrestri, immagini inconsuete, come se fossi approdato in un pianeta dalle luci ignote ed impossibili. Nessuno viene sulla corriera, che in tal modo può continuare le sue rugginose meditazioni; un taciturno adolescente mi restituisce il denaro del biglietto e vengo travasato in un tassì. Anche il tassì non gode di florida salute, è rugoso, sdentato, sbocconcellato, come se glia avvoltoi l’avessero assaggiato; ma insomma mi promette di portarmi a Bombay, sia pure con una tal sfiducia nell’esistenza della città, che non sa di pessimismo ma di una saggezza intorpidita dai malesseri dei tropici. Entrare a Bombay provenendo dall’aeroporto dà la sensazione di conoscere un qualche grande corpo penetrandolo dallo sfintere: giacché non v’è dubbio che il lungo itinerario che mi porterà al centro di Bombay, che si trova in periferia, ha attinenza con l’ano e le pudende della città. Si passa attraverso una doppia, o tripla fila di casupole messe assieme con pezzi di lamiera, legni, tele; ma casupole non sono: piuttosto tane mobili, covili erratici; su una serie di questi posatoi qualcuno ha con bizzarra ilarità dipinto dei festosi sintomi religiosi. Il tassì  passa attraverso questi luoghi umani, ignorato, come attraverso un muro di pazienza secolare: una pazienza piagata e non avvilita. La sensazione che provocano queste casupole infime, sudice, infette, barcollanti tra rigagnoli ed immondizie, è stranamente liberatrice: non c’è alcun tentativo di velare, di nascondere, di eludere; la fondamentale sporcizia dell’esistere, la sua qualità escrementizia e torbida, viene vissuta con pacatezza; io vengo da u continente di gabinetti candidi, e mi trovo lanciato nel cuore di un mondo che non paventa di sfoggiare i propri escrementi.Questo mondo – lo scopro ora una volta per sempre – non è accidentalmente sporco: lo è in modo essenziale, costante, pacato; ma questo sporco non è il nostro, l’ombra di una civiltà che ha catturato le proprie deiezioni in gabbie di immacolata ceramica, ma lo sporco originario, aurorale, quello sporco che abbiamo tradito, come abbiamo tradito tutto intero il nostro corpo, i nostri peli, il sudore, le unghie, i genitali, lo sfintere. Sia gloria allo sfintere: io procedo in mezzo ad un mondo anonimo, mortale e letale, ma che non ha nemmeno cominciato a paventare la totalità felicemente immonda del proprio corpo.E’ una strana sensazione, in cui predomina una sorta di sbalordita, sgarbata felicità: anche se io so che non sono degno di questo mondo così superbamente invaso dalla propria terrestrità. Qualche mucca magra ed errabonda gironzola per la strada, evitata con cura dai tassì, e mi sembra una di quelle goffe ma sacre edicole che si trovano in campagna, o negli angoli dei vicoli romani o napoletani. Macilente ma pacate, lievemente surreali, le mucche conferiscono alla selva umana una pia lentezza, una sfaticata e misteriosa delicatezza. Scrisse un poeta di queste parti, molti secoli or sono: “ il tempio di Kailasa fu progetto su una foglia di tamarindo”. Le foglie di tamarindo sono minuscole più del seme: dunque il tempio di Kailasa è un capolavoro di virtuosismo, di organicità, un perfetto incontro di forma naturale ed artificiale. E’ stato lavorato interamente scavando la roccia: non è costruito. Gradini, pinnacoli, bassorilievi, minuscole edicole chiuse nel grande tempio, dèi e demoni, l’innumerevole danzatore Siva e la cara ed ambigua sposa Parvati sono usciti dal fondo ella roccia, dove stavano nascosti, secondo il mito platonico. Può un capolavoro, un prodigio di sottigliezza tecnica essere insieme affascinane ed inquietante? Mentre ne scrivo, provo di nuovo quel senso di ammirato disagio che avvertito percorrendo i gradini del più famoso e splendido tempio di Ellora. Ad Ellora trentaquattro templi scavati nella roccia si giustappongono lungo uno spazio assai più ampio che ad Ajanta. I templi stanno a trenta chilometri da Aurangabad; a differenza di quelli di Ajanta solo alcuni sono buddhisti: e di questi taluni sono stati manomessi da successivi scavatori induisti; e induista è la maggior parte di questi templi, eccetto cinque, gli ultimi nell’ordine, che sono giainisti. Come ad Ajanta, ad Ellora si tocca in modo spietato quella mite terribilità che sconvolge il visitatore dell’India. E’ inutile dire che il tempio di Kailasa è “bello”; quasi mai il gesto estetico indiano agisce in modo così pacatamene lusinghiero, il tempio di Kailasa, che fa mura dei lati del monte appena levigati, che nasce tutto dal sasso, e che insieme è lezioso, maestoso, affollato, taciturno, ovviamente retto da un arcaico legame di simboli, ha qualcosa di angoscioso, di fondo, il sapore di una nascita da sempre in corso. Forse fu progettato sopra e secondo una foglia di tamarindo, ma è lecito, è possibile, è umano un gesto così fatto? Si avverte qualcosa di potente, di spietato, di mortalmente amico. Un tempio come questo è pressoché impossibile “vederlo”: esso va abitato, da ogni punto vedi qualcosa e qualcosa perdi, sei immerso in una sommessa esplosione di un linguaggio, in qualunque punto ti collochi senti frammenti di un discorso occulto ed intenso, un discorso che mescola danza, ironia, gioco, gioielli, tutto celebrato da esseri poliformi, demoni del cielo ed angeli d’abisso. Quante volte bisognerà percorrere questo tempio per essere nel centro di tutto questo linguaggio? Ed è una cosa tollerabile? Il tempio di Kailasa provoca nel corpo una sorta di fecondo malessere: dopo tutto, non è un’opera di virtuosismo, ma piuttosto un’impresa di alchimia minerale, un viluppo di visceri di sasso; è sacra, questa impresa, ed è ampia, come se il tempo fosse una supplica e insieme un’astuzia per la cattura degli dei. Ho parlato di malessere corporale: si avverte che ciò che abbiamo sempre saputo, che gli isterici e gli psicosomatici sanno a memoria, e cioè che il nostro corpo è un organismo di simboli, e che vi possono essere condizioni in cui i simboli subiscono una drammatica trasformazione. Calcutta mi chiama con una gran voce: è una roca voce di carne malata, una festa epidemica, il clangore dei devoti e della dea Kali – la Madre – un luogo decrepito e giovane, un cadavere neonato. Non voglio sapere se quel segno delle labbra sia riso o lebbra. Sono nella città deforme, e il suo benvenuto terribile e senz’ira, io l’accetto. Sono nel cento di Calcutta,un centro astratto, mentale, paradossale. E’ uno spazio vuoto ma non deserto, lungo chilometri che separa l’abitato dalla corrente del fiume Hooghly. Io ammino per questo spazio, e faccio l’inventario degli oggetti, degli esseri tendenzialmente anche se clandestinamente vivi che qui si affollano. Mi sento un allievo monatto. In questi chilometri trovo tutto: baracche di venditori ambulanti di cibi, cani, pozzanghere, liquame, una vegetazione anonima e pervasiva, feci; se mai la divinità del colera si è scelta una sede per il suo tempio sempre aperto, deve essere di questa sorte. Si può camminare per quel luogo vuoto fino a non avvertire se non come moto lontani i rumori della città. Calcutta è accampata attorno ad un vuoto. Se continuerete l’inventario di quel nulla vedrete un grande ed isolato minareto, un monumento bellico, campi da corsa, un accampamento di profughi dal Bangladesh, e dovunque quella minima, anonima vita, o morte, che è il terribile fascino di Calcutta. Se non avete visto Calcutta voi non avete visto non già l’India, ma il mondo. E’ una città impossibile, inesistente, un' allegoria, un labirinto, un incubo, una rivelazione. Questa città, e forse essa sola, è già pronta per il giudizio universale; forse, ignari, a Calcutta siamo già dietro le quinte, nel guardaroba della fine del mondo. Tutti, anche le guide turistiche, raccontano l’inaudita miseria di Calcutta; ma la miseria è ancora un concetto quantitativo: di nuovo sconvolge ed abbaglia lo scoprire che nel mondo indiano la miseria, la sofferenza, la malattia, la deformità, la morte non hanno che una coincidenza semantica con le nostre parole. E’ vero: a Calcutta vedrete esseri umani, con diritto di voto, che posseggono un cencio – veste, coperta, sudario – e una ciotola – per chiedere l’elemosina, per mangiare, per usarlo come guanciale. Ogni notte dormono sul marciapiedi. Muoiono di pioggia, di fame, di vento, di freddo. Muoiono alla svelta, senza intralciare il traffico, sono abituati a morire. E tuttavia …Calcutta è tutto fuorché una città mortuaria. La anima una vitalità ambigua, che accoglie in sé decadenza e nascita. Se vi aggirate per questi quartieri vedrete una dopo l’altra, case divorate dalla consunzione tropicale, muri che cedono alla loro vocazione vegetale; tutta la città pare intenta ad una propria minuta opera di reincarnazione in giungla. Queste casupole, si costruiscono o si seminano? Questa città di edifici fatiscenti, di miseri, di morti, di mostri, è bizzarramente allegra: non direi in modo sinistro, ma in modo infantile; e l’allegria infantile ha le stigmate dei penosi passati da cui si è districata. Ignoro se sia possibile conoscere Calcutta, questa città avviluppata come una matassa di vene e di tumori, di parassiti e di fiori, può forse essere conosciuta solo per minuscoli settori, molto meno di un quartiere. Un gruppo di case, un tempio, i vecchi, desolati, stupendi cimiteri dei francesi e degli inglesi del Settecento e dell’Ottocento. Come disperatamente quelle lapidi cercano di tener ferma l’ombra di un morto in questa città terrestre ed infera, dove nulla ha mai avuto un nome. Quelle lapidi raccontano la follia europea davanti al “modo di morire asiatico” è il proclama che a gran voce rivendica il diritto “bianco” ad una specifica agonia, ad una morte immortale e monumentale. L’ironia infinita dell’erba avvolge le tombe, stravagante documento di esotica follia: l’allegria catastrofica di Calcutta si nutre di queste morti candite di marmo. I mostri: in tutta l’India vedrete mostri, ma a Calcutta dovete affrontare la loro esistenza come uno dei temi di questo modo di esistere. Noi europei, ho sentito dire, siamo permissivi. Alcolici, droghe e genitali. E, con i mostri come ce la caviamo? Abbiamo aperto i nostri cottolengo? I deformi, le membra spaccate, le labbra lacerate, le braccia che si biforcano al gomito, le gambe arrotolate in un gigantesco piede d’elefante, e quel mostro che ho visto vicino a Madras, normale fino alla vita, e poi null’altro che un fiore di sfintere con attorno filamenti incollati di gambe? Mi hanno raccontato che in un tempio uno di questi mostri è stato dipinto, per dargli più persuasiva grazia. In India il mostro è “a casa”. In questo paese che non conosce l’orrore, l’uomo dell’orrore può uscire dai nostri ghetti mentali, dai nostri incubi, e trascinarsi ai nostri piedi. Alla sera, finito di mangiare, uscivo a passeggiare tra i mostri: ragni di carne, gambe morte, braccia vegetali ed attorte, bocche scavate in una cartilagine di testa, ocarine da gemiti ed agonie. Che pace, che onestà, questo commercio col mostruoso. Nulla nel nostro mondo è più mostruoso di questo rifiuto del mostruoso; chiudeteli nei ghetti, non dobbiamo vederli,non esistono, sono impossibili. L’universo intero è impossibile, e qui in India, lo sanno.