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Crisi dei partiti? tanto rumore per… - dalla rivista “Il Mulino”




lunedì 18 aprile 2011 legge Piero Ignazi
Questo incontro chiude un ciclo di riflessioni ed approfondimenti sul tema “Opposizione liquida”. L'intenzione era di aiutarci a comprendere il fenomeno diffuso di contrasto sociale che si esprime nel nostro paese al di fuori dei canoni “istituzionali” delle organizzazioni partitiche. I partiti politici non hanno mai goduto di buona fama. La stessa origine etimologica del termine «partito» non aiuta: deriva dal latino «partire», che implica l’idea della divisione, della separazione, e, implicitamente, del conflitto e della lotta. Tutta la cultura occidentale ha invece sempre esaltato il contrario: ovvero l’unità, l’armonia, la concordia. Eppure, in democrazia, di partiti c’è ancora molto bisogno ma altrettanto di cambi generazionali e di forme di partecipazione-rappresentanza che corrispondano ai nuovi assetti sociali.

Piero Ignazi è docente ordinario di Politica comparata e Politica estera dei paesi europei presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università di Bologna e Direttore della rivista Il Mulino.

 


Piero Ignazi, “La lunga storia e l’incerto futuro del partito politico”, Il Mulino, n. 2, marzo/aprile 2008.
I partiti politici non hanno mai goduto di buona fama. La stessa origine etimologica del termine «partito» non aiuta: deriva dal latino «partire», che implica l’idea della divisione, della separazione, e, implicitamente, del conflitto e della lotta. Tutta la cultura occidentale ha invece sempre esaltato il contrario: ovvero l’unità, l’armonia, la concordia. Eppure in democrazia di partiti c’è ancora bisogno.

Come ha scritto Giovanni Sartori nel suo celebre e celebrato Parties and Party Systems il partito politico, per essere accettato, doveva incontrare una ideologia politica che consentisse «diversità e dissenso». Vale a dire doveva prender forma il liberalismo. Solo con l’avvento di questa ideologia il partito conquista agibilità politica. Ma anche qui (come vedremo) con diffidenze e perplessità. Del resto il partito è stato identificato per secoli con il termine contiguo, ma peggiorativo, di fazione. La sovrapposizione tra fazione e partito ha delegittimato quest’ultimo per secoli. Il crollo dei liberi comuni medievali, dell’esperienza di autogoverno cittadino nel Regnum Italicum, dimostra all’intellighentzia europea dei secoli a venire quale danno portasse la «politica di fazione»: come lamentava all’epoca Marsilio da Padova, il summum bonum, rappresentato dalla pace e dall’unità, era stato distrutto dal prevalere delle fazioni. Benché Marsilio già concepisse l’idea che lo «Stato» fosse composto da partes, ognuna delle quali svolgeva armoniosamente il proprio ruolo, egli imputava alla lotta senza quartiere tra le fazioni la fine di quell’esperienza e la stessa «distruzione » dell’Italia. La libertà era persa per colpa delle divisioni, delle fazioni. E non solo la libertà era andata perduta; anche la sicurezza era minacciata dalla rissa, o come diceva Thomas Hobbes dalla factitious policy. L’autore del Leviatano non ha esitazioni nell’additare il nemico da abbattere: «è dovere dei principi – egli scrive – dissolvere e distruggere le fazioni» Perché esse sono come «una città dentro una città», vale a dire un nemico interno1. Il più pericoloso che si possa immaginare.
Solo nella seconda metà del XVIII secolo quando le guerre di religione hanno perso il loro impatto terrorizzante, affiora l’idea che una pars, un partito, possa essere accettabile. Hume, così come Burke, riconoscono che i partiti sono honorable connections e possono fondarsi su «principi», non solo su piccoli interessi, ambizioni, sete di potere ecc.
La rivoluzione francese e la rivoluzione americana, rappresentando due versioni diverse dello stesso impulso alla libertà avrebbero dovuto portare come corollario la piena legittimazione dei partiti. E invece, anche in quei contesti, sospetti e timori del carattere distruttivo e pernicioso dei partiti prevalgono sul valore della libera associazione. I rivoluzionari francesi hanno troppo in dispetto i corpi intermedi per pensare che tra il cittadino (l’individuo) e lo Stato possa frapporsi di nuovo una entità collettiva. Tutta la loro lotta per affermare il principio della libertà individuale e soprattutto della rappresentanza individuale non consente loro di accettare un organismo che filtri il «volere del popolo». La posizione dei rivoluzionari era congruente da un lato, con la visione atomistica della società introdotta dai philosophes settecenteschi, dall’altro con l’impostazione rousseauiana. Della prima recuperava l’esaltazione
dei diritti individuali ma svalutava di conseguenza l’idea di una rappresentanza collettiva, troppo vicina ai corps intermediaries pre-rivoluzionari; della seconda, il legame organico tra l’individuo e la comunità e la naturale formazione della volontà generale, a cui tutti partecipano e con la quale tutti concordano, salvo coloro che per «insufficiente educazione» dissentono. Poggiando su questi presupposti culturali è del tutto naturale che l’abate Sieyès scriva nel suo celeberrimo pamphlet Qu’est-que-ce le Tiers État che «gli interessi particolari devono essere isolati e la voce della pluralità [della maggioranza, diremmo oggi] deve essere sempre allineata al bene comune 2)»; oppure che Jean-Louis Saint-Just si spinga a dichiarare non solo che «le fazioni sono il più pericoloso veleno per l’ordine sociale 3)» – e fin qui siamo nella tradizione – ma anche che ogni partito è criminale […] similarmente alla fazione perché divide la cittadinanza: ogni fazione è criminale perché neutralizza il potere della pubblica virtù. La sovranità del popolo
domanda che esso sia unito, e che perciò si opponga alla fazione – perché ogni fazione è un attacco alla sovranità 4).
I rivoluzionari francesi, analogamente ai loro partner americani, come vedremo più avanti, osteggiavano i partiti per timore della loro forza disgregante del bene comune, e della coartazione/deviazione del principio di rappresentanza individuale; ma avendo proclamato i diritti individuali come principi universali non potevano spingersi fino al condannare in toto le libere associazioni.
Tant’è, che proprio nel periodo rivoluzionario nascono i primi embrioni di partiti politici moderni, cioè i primi partiti formatisi nella società, non all’interno del Parlamento. Il décret n. 62 dell’Assemblea nazionale, emanato il 17 dicembre 1789, che consente che «i cittadini possano incontrarsi liberamente e senza armi» (sic) per elaborare petizioni e richieste, e quello successivo del 13-19 novembre 1790 che autorizza la costituzione di «libere società»5 segnano probabilmente l’atto ufficiale di nascita dei partiti nel vecchio continente. La liberalizzazione, cioè la circolazione più o meno libera di idee diverse, e l’indizione delle prime elezioni competitive (relativamente) di massa, prodotte dalla Rivoluzione dell’89, favoriscono lo sviluppo delle prime organizzazioni partitiche. E infatti, i club e le associazioni politiche si irradiano da Parigi su tutto il territorio nazionale, tanto che in tre anni arrivano ad essere presenti in quasi tutte le località classificate all’epoca come centri urbani, cioè in circa 5.500 città. La nazionalizzazione della politica partitica conosce quindi un immediato e travolgente sviluppo. Proprio i giacobini, ideologicamente così sospettosi dei partiti/fazioni, sono quelli che più di ogni altro invece sfruttano il nuovo contesto politico per diffondersi in tutta la Francia. Alla vigilia della scissione dei Foglianti, nel luglio del 1791, sono censiti circa mille club giacobini, sparsi su tutto il territorio nazionale. E questo in presenza di norme particolarmente stringenti per la formazione di un club in periferia: infatti, era consentita la costituzione di un solo club per ciascuna città ed esso doveva ricevere l’approvazione di un membro dell’assemblea nazionale o dei soci del club parigino7. Oltre ad una serie di regole a cui i membri dei club dovevano sottostare, che richiamavano prassi delle reading societies inglesi o delle società del libero pensiero massoniche, l’aspetto innovativo del proto-partito giacobino riguarda il sorvegliato rapporto centro-periferia che prefigura una organizzazione verticale e ramificata, radicalmente diversa (rivoluzionaria, potremmo dire) rispetto alle altre forme associative precedenti. Il complesso impianto organizzativo interno e la sua strutturazione nazionale, indotti dalla inedita combinazione di liberalizzazione e competizione elettorale, costituiscono la novità assoluta del caso francese.
Tuttavia, come abbiamo visto, questo esperimento mancava di retroterra culturale perché i rivoluzionari francesi, pur praticando la competizione politico-elettorale, in realtà la consideravano negativa (e non per nulla incominciano a tagliar le teste ai «nemici del popolo»). Ancora preda del sospetto che i partiti potessero inoculare il germe della divisione «faziosa» o trasformarsi in corps intermediares, i rivoluzionari chiusero in fretta l’esperimento della politica partitica. La legge Le Chapelier del 1791 lo attesta chiaramente: «tra lo Stato e il cittadino non deve interporsi nulla». Ci pensarono poi i contro-rivoluzionari a seppellire definitivamente, e con ben più stringente coerenza, la perniciosa idea che si potesse dividere la comunità. La «buona società» non può ricomprendere il conflitto perché la volontà generale è «data», è fornita da una autorità legittimata dal volere divino; la «buona società» è organica e gerarchica, ognuno ha il proprio posto desunto dalla tradizione, tradizione che «interpreta» il volere divino. Il potere è quindi unico e indivisibile, è organizzato in forme gerarchica e trascende ogni intervento umano. Questo framewok teorico, monistico e organicistico, ha fornito le armi più affilate per argomentare il rifiuto del liberalismo e della politica partitica. Ma anche al di là dell’Atlantico le cose non andavano troppo bene per i partiti. I padri fondatori degli Stati Uniti condividevano con i loro corrispondenti europei la stessa insofferenza per le «democrazie pure», dove i conflitti di interesse e di parte avrebbero nociuto al bene comune. James Madison,
coautore dei Federalist Papers temeva anch’egli le fazioni, da lui definite come «connotate da un qualche impulso comune passionale o d’interessi, contrario ai diritti dei cittadini8»; ma era consapevole non si sarebbero potute evitare e si limitava ad invocare delle regole e dei meccanismi per tenere sotto controllo la loro «violenza devastatrice». Madison e con lui gli altri padri fondatori si muovevano sulla stessa lunghezza d’onda di Tocqueville il quale, pur riconoscendo che il partito «è un male necessario in un governo libero», metteva in guardia dal pericolo rappresentato dai «piccoli partiti» cioè da quelle associazioni mosse da interessi particolari, guidate da persone ambiziose e egoiste, da lui definite spregiativamente politicien (termine che da allora entra nel lessico politico). Insomma il paradigma del sentimento antipartitico nell’età rivoluzionaria franco-americana è definito sia dall’ostilità assoluta dell’ideologia contro-rivoluzionaria incardinata sui concetti di armonia, unità organica e legittimazione sovra-naturale, sia dall’insofferenza e dal disagio dei rivoluzionari e dei protoliberali delle due sponde dell’Atlantico i quali temono che al seguito dei diritti universali, e quindi della libertà di espressione e di associazione, ne consegui la perdita della libertà a causa del prevalere degli interessi particolari. La soluzione individuata, a fatica, in maniera incerta e spesso contraddittoria, è riassunta nelle «sagge» parole di Benjamin Constant il quale, prendendo atto che «non è possibile eliminare le fazioni e allo stesso tempo preservare la libertà», ammonisce di «rendere le fazioni il meno pericolose possibili e, poiché in certe occasioni esse possono vincere, di anticipare e mitigare le conseguenze della loro vittoria9». Tradotto in ingegneria istituzionale significa creare un sistema che, pur garantendo i diritti civili, e in in certa misura anche quelli politici, impedisca la «tirannia della maggioranza»: uno spettro che già Tocqueville aveva più volte evocato di ritorno dal suo viaggio in America.
Bisogna aspettare il fluire del secolo affinché il partito conquisti, faticosamente, legittimità: una conquista che segue due percorsi diversi. L’uno, lungo la via parlamentare, cioè attraverso l’aggregazione di eletti che progressivamente si riconoscono come portatori delle stesse opinioni (e degli stessi interessi) e danno vita, dall’interno delle assemblee rappresentative, ai partiti di notabili. L’altro percorso passa per la società, dove il processo di mobilitazione sociale, indotto dall’industrializzazione, concentra e rende sensibili alle sirene dell’ideologia socialista masse prima disperse nel territorio (senza dimenticare il parallelo processo di formazione dei partiti di massa confessionali in reazione alla curvatura secolarizzante avviata dalle élite liberali alla fine dell’Ottocento). In sostanza, con l’estensione del suffragio e le garanzie dei diritti civili e politici, l’ostilità ai partiti sembra finalmente cadere. In realtà così non è perché, come vedremo, permane a lungo, molto a lungo, e arriva fino ai giorni nostri, un
sottofondo di perplessità, di diffidenza, di ostilità e finanche di radicale opposizione nei loro confronti.
Ma prima di giungere all’oggi, osserviamo come, nel secolo breve, il cammino dei partiti prenda due direzioni, all’apparenza opposte, ma in realtà convergenti su un punto essenziale, quello del loro ruolo nel sistema politico: un ruolo centrale. Il Novecento vede la massima esaltazione del partito in quanto tale, sotto forma da un lato del partito di massa di ispirazione socialista e confessionale, e dall’altro del partito «totalitario», bolscevico e nazionalsocialista.
Proprio quest’ultimo tipo di partito offre la più compiuta espressione dell’onnipotenza partitica. E se nel caso del nazionalsocialismo, nonostante i proclami hitleriani – come quello al congresso di Norimberga dove Hitler afferma che «non è lo Stato che ci comanda bensì siamo noi a comandare lo Stato» 
in realtà la dualità di poteri non scomparirà mai del tutto, nel caso sovietico viene fatta tabula rasa di ogni altro contropotere istituzionale per costruire ex novo tutte le strutture del potere, ovviamente incardinate nel partito. Indipendentemente dalla direzione imboccata il secolo breve pone al centro della vita politica il partito politico; e questo vale tanto nei sistemi costituzionali, quanto in quelli totalitari. Anzi il livello massimo di idealizzazione e persino di sacralizzazione si raggiunge laddove è ammesso un solo partito. L’ostilità alla «partizione» della società dei secoli passati si ritrova qui nella riduzione ad unum, a un solo partito e, a maggior ragione, nell’eliminazione di ogni dissenso interno. L’ispirazione monista e organicistica, rabbiosamente ostile ad ogni differenziazione, raggiunge la sua massima compiutezza nel periodo tra le due guerre.
Con la vittoria della democrazia, prima contro i fascismi e poi contro il comunismo sovietico, e il conseguente trionfo dell’ideologia liberale, il partito politico non dovrebbe più trovare nemici: in effetti, a livello ideologico, ormai, non ce ne sono quasi più. I cittadini delle democrazie consolidate, e non solo, considerano essenziali i partiti politici. Su 20 Paesi, sono 13 quelli in cui coloro che dichiarano di poter fare a meno dei partiti non arrivano al 10%; in altri sei Paesi si collocano tra il 10 e il 20%; solo in Ucrania, sulla cui maturità democratica permangono seri dubbi, è sopra questa quota (26%)10. Se restringiamo il campo alle democrazie consolidate, la media di coloro che non hanno esitazioni nel definire i partiti assolutamente necessari è del 76%. Pochissimi dichiarano di poter fare a meno di questi strumenti in democrazia. Solo i partiti populisti di estrema destra, più o meno consciamente (e convintamente), continuano a veicolare ideali organicisti relativi a un mitico tempo passato, dove non c’erano divisioni e l’armonia e la concordia prevalevano sulle divisioni e sui «bassi» interessi. Ma facciamo un passo indietro e torniamo ai primi decenni post-bellici. Dopo la seconda guerra mondiale il partito politico è all’apogeo della sua forza e della sua legittimità. Le lotte di liberazione dal nazifascismo condotte dai partiti in clandestinità assegnano loro uno status di interpreti legittimi della
volontà popolare mai conosciuto prima con tanta larghezza. Si pensi alla capacità di condizionamento dei partiti francesi nei confronti del generale De Gaulle, costretto al gran rifiuto già nel 1946. O alla modalità della transizione dall’occupazione nemica alla democrazia in Belgio, Olanda, Italia, Danimarca e Norvegia
dove sono i partiti a guidare il processo di ristabilimento delle istituzioni democratiche. Il partito ha conquistato la sua piena legittimità sul campo. Inoltre, negli anni Cinquanta raggiunge la sua massima espansione organizzativa in termini di iscritti, sedi, organizzazioni fiancheggiatrici. Trionfa, e si radica così nell’immaginario politico di tutta l’opinione pubblica europea,
il modello di partito dominante in quella fase: il partito di massa. La diffusione di questo modello, anche tra i partiti borghesi – «il contagio da sinistra» di cui aveva parlato Maurice Duverger nel suo famoso saggio – è favorita dal fatto che tale tipo di partito è il prodotto naturale della società industriale di massa: vale a dire di una società industrializzata, urbanizzata, segmentata in precise classi sociali, inquadrata da organizzazioni di interessi massicce e politicamente schierate, attraversata da ideologie forti. Questo tipo di partito si caratterizza per essere diffuso territorialmente ovunque, per essere aperto a tutti, per fornire luoghi di discussione politica così come di socializzazione e di sociabilità, per selezionare, attraverso meccanismi complessi e volte tortuosi, la classe dirigente, per elaborare politiche e prendere decisioni attraverso un processo che formalmente e idealmente va dal basso all’alto.
Questo è il partito che trionfa negli anni Cinquanta. Quel partito non esiste praticamente più. Semplificando all’estremo, la sua scomparsa dipende dal fatto che la società industriale, che quel partito rifletteva e dalla quale quel partito si alimentava, non esiste più. Alla società industriale è subentrata la società post-industriale. Non ci sono più le grandi fabbriche e la concentrazione operaia, non ci sono più milioni di persone che svolgono le stesse mansioni, guadagnando lo stesso salario, condividendo le stesse condizioni lavorative (e spesso anche abitative), non ci sono le masse di fedeli ubbidienti alle indicazioni dei pastori di anime, non ci sono più le ideologie onnicomprensive e mobilitanti, non ci sono più soltanto i mezzi di comunicazione a stampa. La società si è socialmente, economicamente, culturalmente e ideologicamente differenziata. Solo su due aspetti si è omogeneizzata: nella secolarizzazione e
nella fruizione massiccia di mass media visuali. I partiti non potevano non risentire di questo passaggio epocale. A partire dagli anni Ottanta hanno cominciato a perdere presa sulla società. Lentamente, e poi con un moto accelerato, in tutte le democrazie consolidate calano gli iscritti e si chiudono le sezioni.
In 13 Paesi di lunga esperienza democratica le perdite di iscritti superano addirittura il 50% in rapporto ai primi anni Ottanta. Il rapporto iscritti elettori evidenzia con ancor maggior drammaticità il declino. Nel 1980 circa il 10% dell’elettorato dei Paesi europei aderiva ad un partito, alla fine degli anni Novanta
la percentuale si è dimezzata ed è scesa intorno al 5%11.
Certo, la crisi dei partiti è legata al contesto esterno che muta. La «società liquida», per usare l’espressione di Zygmunt Bauman, in cui viviamo postula appartenenze labili, transeunti, passeggere, che riflettono identità sfrangiate. I partiti hanno mantenuto a lungo l’abitudine a considerare determinati gruppi sociali come un territorio di caccia privilegiato, una classe gardée, mentre invece questi legami si sono allentati e sono stati sostituiti da mille altri fili «individuali» non più raggruppabili sotto una sola etichetta identificante e mobilitante. Ma l’ostacolo che i partiti devono sormontare è non solo quello di un adattamento organizzativo a un nuovo contesto – e vedremo quali sforzi hanno intrapreso recentemente – quanto quello di invertire il clima, negativo, che li
circonda. L’immagine pubblica dei partiti è pessima. Nella vecchia Unione europea a 15, meno del 20% della popolazione negli anni Novanta concedeva fiducia ai partiti; essi sono collocati all’ultimo posto nel gradimento per una serie di istituzioni e organizzazioni. Lo stesso vale anche nelle nuove democrazie centro-europee.E quando si chiede ai cittadini se i partiti si preoccupano di quello che la gente pensa la risposta è un sonoro no.
Come si vede, il differenziale tra la valutazione sull’indispensabilità dei partiti per il buon funzionamento della democrazia e il giudizio sulla loro affidabilità è in certi casi abissale. Ad esempio, in Germania l’80% considera i partiti necessari ma solo il 18% ritiene che i partiti si interessino dei problemi della cittadinanza. I partiti sono considerati sempre più chiusi in loro stessi, con classi politiche insensibili alle domande dei cittadini, lontane dai veri bisogni dell’«uomo della strada» e, per finire, avidi e corrotti. Insomma, una vera casta, per parafrasare un pamphlet di successo. Già, ma da dove viene questa cattiva immagine? Possiamo azzardare una risposta riprendendo Tocqueville, ma anche altri, nella sua disinibizione tra i partiti portatori di piccoli interessi settoriali e quelli grandi, o di principio, interpreti di interessi generali. Questo frame interpretativo si può anche tradurre in un approccio più moderno diciamo così cioè nella teoria degli incentivi. Gli incentivi che spingono e motivano ad una azione pubblica, come quella di iscriversi ad un partito appunto, possono essere suddivisi in due tipi: incentivi collettivi e simbolici da un lato e incentivi particolaristi e materiali dall’altro. Ora, è chiaro quanto il primo tipo di incentivi nella sfera politica sia diminuito negli ultimi trent’anni. La forza identificativa e mobilitante delle ideologie
è venuta meno. Il processo di secolarizzazione ha investito sia le religioni trascendenti che quelli immanenti, vale a dire le ideologie di trasformazione radicale della società. A ciò aggiungiamo il consumerism, la diversificazione e la più ampia offerta di occasioni di socializzazione e di occupazione del tempo libero, e un più generale processo di individualizzazione-atomizzazione. Di qui la caduta verticale delle iscrizioni e della diffusione territoriale delle sedi. La trasformazione della società, con conseguente caduta degli incentivi collettivi e simbolici alla adesione ai partiti, ha favorito il declino della loro forza visibile.
Il passaggio dal prevalere di un tipo di incentivo ad un altro ha anche un altro impatto, che rimanda all’interrogativo sopra avanzato sull’origine della disistima per i partiti. Vale a dire la diffusione di incentivi selettivi e materiali ha contribuito a «delegittimare» i partiti. Ma facciamo un passo indietro.
I partiti non sono solo il by-product dei cambiamenti sociali: sono anche artefici delle loro fortune. Sono attori che intervengono sui processi. E soprattutto come tutte le organizzazioni complesse sono molto attaccati alla loro sopravvivenza e al loro sviluppo. E quindi mettono in atto azioni coerente con questi fini. Perciò, mentre era in atto questo processo di disgregazione dell’organizzazione del partito nel territorio, i partiti avevano avviato un altro processo volto a tamponare gli effetti negativi della perdita di iscritti – che tuttavia, come vedremo, ha avuto un effetto perverso perché ha contribuito ad acuire la crisi di reclutamento e di legittimità dei partiti stessi. Il punto cruciale è che, a partire dalla fine degli anni Settanta, i partiti hanno modificato il loro rapporto con lo Stato. Da intermediari, da broker tra società civile e Stato quali erano stati per tutto il secolo, i partiti hanno incominciato a incistarsi sempre più nello Stato allo scopo di estrarre dallo Stato stesso risorse per il loro funzionamento. Ciò al fine di sopperire alla perdita del lavoro gratuito e dei finanziamenti che un alto numero di iscritti apportava alla macchina organizzativa del partito. Con la parziale eccezione della Gran Bretagna e della Svizzera, tutti i Paesi europei hanno seguito l’esempio tedesco, pioniere nella destinazione di risorse pubbliche ai partiti. Le norme sui finanziamenti ai partiti si diffondono a macchia d’olio, anche nei Paesi di recente democratizzazione nell’Europa centro-orientale (ad esclusione di Ucraina, Moldavia e Lettonia) e diventano sempre più generose tanto che in alcuni casi arrivano a coprire più dell’80% del bilancio dei partiti. Non solo, ma l’invasione dei partiti nello Stato riguarda anche l’accesso ai media, i rimborsi elettorali, l’attribuzione di sedi e soprattutto di staff alle rappresentanze elette ai vari livelli, tanto che il personale impiegato nei quartier generali dei partiti europei è più che triplicato rispetto agli anni Settanta e le sedi dei partiti (ad eccezione del caso italiano) si sono ampliate avvalendosi di strumentazioni sofisticate e di un personale molto più ampio. Cifre tra l’altro sottostimate perché oltre al personale dipendente vi è una crescita esponenziale delle spese per consulenze, dai pollster agli esperti di comunicazione, dai pubblicitari agli uffici studi. Quindi, di fronte alla loro crisi nel territorio i partiti si sono rafforzati nelle loro strutture centrali utilizzando generosi finanziamenti dello Stato. E come se non bastasse hanno anche sfruttato le risorse pubbliche a fini clientelari o di patronage. Un fenomeno non nuovo in Italia, e nemmeno in Belgio o in Austria, ma diffusosi in tempi recenti negli altri Paesi europei a eccezione di quelli scandinavi, dove le nomine negli uffici pubblici nelle «Quangos», nelle autorità indipendenti, nelle agenzie semi-pubbliche avvengono tutte lungo linee partitiche. E questo vale anche per i Paesi di recente democrazia dove il «party patronage […] è in grande crescita»12. Un solo esempio: due terzi dei posti nella Pubblica amministrazione e nel settore para-governativo in Polonia sono attribuiti agli aderenti e simpatizzanti dei vari partiti13. Riassumendo, i partiti hanno sopperito alla crisi organizzativa in termini di capacità di reclutamento con un sempre più esteso e vorace controllo di risorse pubbliche. Non solo si sono generosamente finanziati ma hanno anche colonizzato lo Stato imponendo loro uomini attraverso nomine discrezionali nella Amministrazione pubblica e nelle agenzie para-pubbliche. In altri termini hanno sostituito gli incentivi collettivi e simbolici di identificazione, incentivi settoriali e materiali con i quali gratificare gli iscritti (trattandoli in sostanza da clientes). Questo passaggio dal collettivo-simbolico al particolaristicomateriale ha consentito ai partiti di reggere come organizzazioni; anzi li rese anche più forti di prima. Ma allo stesso tempo ha contribuito a minare le basi del loro consenso, e anche a prosciugare la fonte di legittimazione che consisteva essenzialmente nell’operare per interessi collettivi. La pessima valutazione che viene assegnata ai partiti dai cittadini di tutte le democrazie occidentali attesta come siano entrati in un circolo vizioso: più perdono iscritti più hanno bisogno di attingere risorse dallo Stato, risorse che poi distribuiscono in maniera particolaristica. Quindi, più diventano statizzati e particolarizzati,
più perdono consenso e stima. E, in fondo, diventano sempre più simili a public utilities.
Detto ciò, va però sottolineato che le élite partitiche si sono rese conto del rischio di creare strutture sempre più autoreferenziali e chiuse. Di perdere quel minimo di legittimità di cui hanno bisogno vitale. Sicché, volenti o nolenti, hanno preso dei provvedimenti; lungo le direttrici di maggior apertura e maggiore
accountability. L’apertura e l’accountability si sono concretizzate nel
coinvolgimento nelle decisioni vitali del partito del maggior numero possibile di personale con il meccanismo più trasparente e più bottom-up possibile. Il che significa coinvolgere direttamente tutti gli iscritti, e in certi casi anche tutti i cittadini, nel processo decisionale sia per la selezione dei candidati alle elezioni e per la nomina dei dirigenti, sia per scelte politiche di grande rilievo (il
referendum sull’Europa nei socialisti francesi). Tutti i maggiori partiti europei, anche quelli più «oligarchici» e più chiusi come, ad esempio, i gollisti francesi o i conservatori britannici, hanno imboccato questa strada. David Cameron è stato eletto con un ballottaggio tra tutti gli iscritti del partito conservatore dopo che il gruppo parlamentare aveva scelto i due contendenti finali; Nicolas Sarkozy, come prima Michèle Alliot-Marie, è stato eletto da tutti i membri dell’Ump. L’eccezione, ça va sans dire, è quella italiana dove i processi decisionali sono ancora terribilmente verticisti e solo le recenti «primarie» per la nomina del leader del neonato Partito democratico hanno invertito la tendenza. L’apertura e la democratizzazione del processo decisionale non dipende solo dalla buona volontà o dalla resipiscenza delle élite partitiche di fronte all’emorragia di iscritti. È sempre più stringentemente imposta da vincoli legislativi. Si sta affermando in Europa una tendenza alla giurisdizzazione della vita politica e anche della vita interna dei partiti. In Germania, in Finlandia e in una certa misura anche nei Paesi postcomunisti le procedure interne ai partiti sono sottoposte a normative pubbliche che ne sorvegliano la correttezza democratica.
Nonostante le innovazioni degli ultimi anni sia pressioni normative sia sulla autonoma «buona volontà» da parte dei partiti, finora, non ci sono inversioni di tendenza nel distacco affettivo e organizzativo. Del resto i partiti non si stanno ritirando dalle casematte occupate nello Stato e nelle agenzie parapubbliche
Finché sono percepiti come una sorta di agenzia pubblica che fornisce benefit o servizi a seconda dei casi, e non come uno strumento di partecipazione, di collettore di domande, di espressione delle volontà «della base», è per loro difficile riattivare quei legami affettivi che hanno garantito la loro prosperità organizzativa e la loro piena e corale legittimazione. Forse, seguendo l’intuizione di Bernand Manin14 quando distingue tra democrazia dei partiti e democrazia dell’opinione, si deve ammettere che, in una società baumaniamente liquida, l’articolazione democratica attraverso i partiti è sempre più residuale.

NOTE
1_ T. Hobbes, The English works of Thomas Hobbes of Malmesburg, Darmstadt, Scientia Verlag Aalen, 1966, pp. 175-176.
2_ E. Sieyès, Qu’est-que-ce le Tiers État, Geneva, Droz, 1970, p. 207.
3_ L.A. Saint-Just, Oeuvres completes, Paris, G. Lebovici, 1984, p. 911.
4_ Ibidem, p. 734.
5_ R. Huard, La naissance du parti politique en France, Paris, Presses de Sciences Po, 1996, p. 359.
6_ P. Gueniffey e R. Halévi, Club e società popolari, pp. 432-446, trad. it. in F. Furet e M. Ozuf (a cura di), Dizionario critico della rivoluzione francese, Milano, Bompiani, 1988, p. 432.
7_ Ibidem, p 437.
8-J. Madison, The Federalist Papers, Toronto, Bantam, 1982, M10.
9- B. Constant, Principles of politics applicable to all representative governments, in Id., PoliticalWritings, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, p. 225.
10__ Dati tratti da R. Dalton e S.A. Weldon, Public Images of Political Parties: A Necessary Evil?, «West
11European Politics», 28, pp. 931-951, 2004 e da P. Mair, Democracy Beyond Parties, Center for the Study of Democracy, Working Paper 5/6, 2005.
12__ Dati riportati in Mair, Democracy Beyond Parties, cit., P. Ignazi, The rise of the state-centered party and its questionable legitimacy, 2005, in via di pubblicazione.
13__ P. Kopeky, Political Parties and the State in Post-Communist Europe: The nature of symbiosis, «The Journal of Communist Studies and Transition Politics», 22, 2006, pp. 251-273.
14__ A. Szczerbiak, State party funding and patronage in post-1989 Poland, Ibidem, pp. 298-319.
15__ B. Manin, Principes du gouvernement representative, Paris, Calmann-Lévy, 1995.


Edmondo Berselli, “Gruppo di famiglia con televisione”, Il Mulino, n. 3/2010
Con l’apparizione in Italia di una destra ufficiale, riconosciuta espressamente in quanto tale e in quanto tale proposta senza remore agli elettori, sono tornati sul terreno politico alcuni temi a cui in passato era stata offerta un’attenzione secondaria. Si tratta in particolare della scuola e della famiglia. Sarebbe possibile svolgere analisi in profondità sul significato politico relativo alla scelta di questi temi. Ma, anche a un primo sguardo, si notano facilmente alcune ragioni che hanno determinato la selezione e la sottolineatura di issues convenzionalmente attribuite alla sfera d’interessi del mondo cattolico e in passato sostenute, seppure non troppo strenuamente, dalla Democrazia cristiana.
Innanzitutto, come è stato spesso notato, la nascita dell’aggregazione elettorale coagulata da Silvio Berlusconi è stata premiata per il suo intento di sostituire la rappresentanza politica dei ceti moderati, e non invece per la volontà di scomporre questi ceti sulla base degli interessi e di riallineare gli schieramenti in modo netto. Il tramonto di un partito sociologicamente versatile come la Dc suggeriva l’opportunità di creare uno schieramento capace di fare presa a raggio molto vasto. Occorreva quindi, per rendere efficace l’operazione anche sotto il profilo delle simbologie di riferimento, assicurare al Polo delle libertà e del buongoverno un’ispirazione di fondo che potesse contemperare la varietà e talora la contraddittorietà delle ispirazioni politiche delle forze raccolte nel cartello di centrodestra.
Il primo fattore di coagulo è stato senz’altro un pronunciato anticomunismo, protratto fino a non riconoscere all’alleanza dei progressisti uno statuto di stampo democratico-liberale, e quindi a negare tenacemente ai competitori una qualità fondamentale di legittimazione politica. Ma in positivo, fuori da questa contrapposizione duramente antagonistica liberali/illiberali, è stato il richiamo alle concezioni cattoliche una delle chiavi più sfruttate dalla coalizione berlusconiana. In parte per obiettive
ragioni di interesse dei partiti raccolti nel Polo: sia Alleanza nazionale sia il Centro cristiano-democratico avevano una convenienza primaria nel proclamarsi eredi del patrimonio elettorale democristiano; mentre Forza Italia, che non nascondeva nel suo programma l’obiettivo di divenire un altro (dopo la Dc) «partito-società», virtualmente egemonico su un amplissimo ventaglio di fasce sociali, aveva bisogno di illustrare con un contenuto meno mondano il suo ottimismo neoliberista.
Ne è discesa una specie di «retorica del cattolicesimo» in cui si sono espresse connotazioni piuttosto variegate. Di solito è prevalsa l’intonazione sorridente, con revocazione rassicurante di un sentimento generico ma – si suppone – condiviso da una quota maggioritaria della popolazione; talora l’appello ai principi cattolici ha assunto invece coloriture polemiche accese, come quando il ministro dell’Ambiente Altero Matteoli ha definito l’aborto un omicidio (posizione su cui si è dichiarato in seguito d’accordo anche il leader di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini) o in occasione del dibattuto intervento «integralista» di Irene Pivetti al Meeting di Comunione e liberazione a Rimini. Ma più
generalmente il richiamo alle idealità cattoliche è echeggiato come una tonalità di fondo, che appariva in grado di aggiungere gradevolezza e moderazione alle promesse di ristrutturazione dello Stato e all’attuazione di una concezione neoliberista dell’economia e della società. È anche per questo che, a dispetto dell’appoggio della gerarchia al tentativo di Martinazzoli di resistere al centro, Forza Italia ha esercitato un’attrazione molto forte su quella parte di mondo cattolico, come la galassia di Comunione e liberazione, particolarmente attenta alle ragioni del
fare, dell’operare, dell’intraprendere: e che quindi, trovatasi alle prese con la scelta secca fra le pastoie dello «statalismo» e le opportunità della de-regolazione, ha provato come minimo un’immediata simpatia per chi più evidentemente prospettava opportunità. Sotto questo profilo, la scelta della scuola privata (cioè, se si escludono esperienze laiche assolutamente minoritarie, della scuola cattolica tout court), come tema qualificante dell’attività di governo ha un senso poco più che evocativo, settoriale e limitato com’è, dal momento che il messaggio favorevole all’istruzione privata si rivolge quasi soltanto verso quelle riserve di mondo cattolico particolarmente interessate – per più acuta sensibilità religiosa e per il conseguente rifiuto di una scuola secolarizzata e fuori controllo per ciò che attiene alle ispirazioni dell’insegnamento – a processi di formazione sostanzialmente autogestiti. Invece quello della famiglia è un tema dai contorni pressoché universali, e che contiene una grandissima pluralità di implicazioni, che possono riverberarsi su aspetti molteplici della vita collettiva. Oltre tutto, proprio la famiglia in quanto tale, sia come fondamento sociale sia come simbolo di «eticità naturale», rappresenta un anello decisivo nella catena fra le due polarità ideologiche del centrodestra attuale, vale a dire fra tradizione e modernizzazione. Tanto più interessante perché si situa strategicamente in uno spazio in cui da una parte ci sono matrici di giudizio attinenti al complesso law & order, concezioni para-corporative dell’ordine produttivo, vocazioni nazionalpopuliste, e
tutto quanto si può iscrivere in una visione fortemente regolata della vita collettiva; e dall’altra invece una deriva consumistico-individualistica complementare a una concezione in cui è difficile distinguere la società dal mercato, gli individui dai consumatori.
Proprio per questo il vessillo della famiglia, «nucleo fondante della società», esposto al pubblico con frequenza rituale, risulta interessante, addirittura a partire dalla stessa condizione familiare dei principali esponenti del nuovo corso. Si badi che le riflessioni che seguono sono esenti da qualsiasi sottolineatura moralistica: ma una delle caratteristiche inedite (una fra le altre, naturalmente) del ceto dirigente emerso al livello più alto con la discontinuità politica sanzionata dalle elezioni del 27-28 marzo 1994 è data proprio dalla presenza, in ruoli politici e istituzionali di primissimo piano, di uomini e donne caratterizzati da una situazione familiare non tradizionale1. Pura casualità, si può dire,
oppure fisiologico allineamento del personale politico agli standard comportamentali del Paese reale dopo decenni di mancato ricambio che aveva significato di fatto separatezza. Forse tuttavia è possibile stabilire senza essere accusati di accanimento antigovernativo (le biografie in sé sono piuttosto eloquenti) che, quanto meno per ciò che riguarda le situazioni matrimoniali e familiari, pur rivolgendo intensi atti d’ossequio alla tradizione il centrodestra propende naturaliter per la modernità.
Si può benissimo dire, come ha fatto nell’agosto ’94 a Rimini la
presidente della Camera Irene Pivetti, che la Dc ha dato un contributo risolutivo alla scristianizzazione dell’Italia accettando la legge sull’aborto, «tradendo» cioè i principi a cui dichiarava di rifarsi. Ma resta poi da vedere se l’accettazione democratica di una legge votata dal Parlamento, e passata indenne al vaglio di un referendum popolare, sia stata la maggiore responsabilità democristiana in termini di corrività verso il processo di secolarizzazione. Che sia mancata una testimonianza dura e pura, che la propensione scudocrociata all’accomodamento si sia espressa compiutamente anche sulla questione dell’aborto, è fuori
dubbio. Resterebbe da vedere anche se il venire a patti con una deliberazione parlamentare, assunta nel rispetto delle procedure democratiche, sia da ascrivere ai peccati o ai meriti della Dc: e d’acchito verrebbe spontaneo catalogarla nel registro di quella particolare saggezza, sovente tortuosa e non priva di unzione, che la classe politica democristiana ha sempre dimostrato verso la regola democratica. Infine, come ultima cosa da vedere, si potrebbe valutare se la polemica fondata su un cristianesimo
intransigente porta politicamente molto più in là di una divisione
manichea dei cattolici fra buoni e cattivi, con la cattiveria che starebbe inevitabilmente dal lato dei compromessi modernisti di «Famiglia cristiana» e dei cattolici senza troppe certezze, mentre la bontà allignerebbe fatalmente sul versante dei più convinti vandeani. Se si respinge la fascinazione semplificatoria del «pensiero reazionario», deliberatamente antimoderno e intriso di animose velleità integrali, risulta probabilmente più utile, anche in termini sociologici, cercare di analizzare quali sono stati i veri «peccati contro il cattolicesimo» della Dc. E per una volta si potrebbero evitare i temi di gran fondo: si potrebbe cioè evitare di chiedersi quali danneggiamenti il lassismo di stile doroteo
o andreottiano relativamente ai conti pubblici abbia inferto, non
solo al bilancio dello Stato, ma anche al tessuto etico della collettività, e fino a che punto l’esercizio del potere abbia logorato, insieme alla fibra morale dei dirigenti politici, la struttura della convivenza civile. Potremmo prendere invece il caso dell’utilizzo del mezzo televisivo, sicuramente uno dei più potenti fattori di produzione culturale, se non il più potente in assoluto, e certamente uno dei principali strumenti atti a creare, se non vogliamo pronunciare una parola impegnativa come consenso, convenzioni politiche diffuse. Certo in questo caso è particolarmente difficile risalire dagli effetti alle cause (ammesso che un rapporto causale ci sia) e individuare se il risultato finale rappresentato da una società che viene giudicata incline a una concezione edonistica della vita, all’ammirazione della ricchezza, alla tutela gelosa delle prerogative individuali o corporative sia da porre in relazione con il messaggio corale che la tv ha propagato negli ultimi dieci-quindici anni. E ci si può anche chiedere, nel caso di una risposta positiva, se esistevano effettivamente possibilità obiettive e realistiche di proporre standard culturali e comportamentali diversi.
Sta di fatto che mentre gli intelletti più consapevoli del mondo del cattolicesimo politico si sforzavano, anche nell’ultima campagna elettorale, di richiamare l’attenzione degli elettori sull’importanza della concezione che era alla base del popolarismo cattolico, quel «personalismo comunitario» che impronta di sé la prima parte della Costituzione, la televisione di Stato ha continuato per anni e con sistematicità a proporre una visione del mondo sostanzialmente antitetica. Abdicazione morale? Cedimento alle logiche di un mondo sconsacrato? Non si può escludere, ma è anche possibile che il messaggio individua il listico-consumista della televisione pubblica sia semplicemente intrinseco al mezzo, plasmato dalla tecnica e dal rapporto con il pubblico;e che quindi non esistessero possibilità ragionevoli di curvare il complesso di idee trasmesso dal piccolo schermo secondo una traiettoria più consona alle ispirazioni culturali del suo principale, come lo definì Bruno Vespa, «editore di riferimento». In linea di semplice ipotesi si puòanche pensare che l’intento di tenere sotto controllo i meccanismi dell’informazione politica avesse sull’altro piatto della bilancia un miopelaissez-faire sul versante della produzione di spettacolo.
Può anche darsi che la nascita del duopolio Rai-Fininvest abbia determinato automaticamente, con la rincorsa delle quote di audience e la concorrenza sullo share, una programmazione particolarmente attenta ad attrarre il pubblico proponendogli «sogni d’oro», anziché una severa pedagogia socio-culturale. Certo è che il cambiamento negli stili e nelle proposte è stato molto netto. Un esempio, per quello che vale. Nella tv di vent’anni fa, auspice e massimo cerimoniere Mike Bongiorno, uno dei principali prodotti televisivi era il quiz. Vale a dire una struttura spettacolare non esente da una sua implicita, per quanto rozza, moralità, dal momento che i gettoni d’oro costituivano una contropartita alle capacità del concorrente. Dai tempi di Lascia o raddoppia al Rischiatutto, da Degoli alla signora Longari, il premio in denaro, la ricchezza, il sogno di un improvviso benessere avevano come premessa una competenza, magari eccentrica o perfino aberrante, una prestazione eccezionale, qualcosa di talmente raro da far meritare automaticamente la straordinaria ricompensa che veniva dopo la domanda finale in cabina. Il pubblico assisteva agli esercizi di memoria di paranoici della specializzazione così come si poteva assistere al triplo salto mortale di un acrobata: il funambolo apparteneva a una realtà «altra», separata dalla quotidianità; esisteva come fenomeno in tutto e per tutto televisivo, di cui non si aveva altra esperienza se non attraverso l’occhio del piccolo schermo. Invece, a mano a mano che i palinsesti saturavano tutte le fasce orarie e che le ore morte venivano riempite dai programmi, attraverso l’infinita varietà di «giochini» telefonici e di premi grandi e piccoli si veniva configurando un’interazione fra televisione e pubblico in cui la felicità, il denaro, il premio erano praticamente svincolati da una prestazione quale che fosse. La premessa fondamentale, quella che dava di fatto un quasi-diritto alla ricompensa, era semplicemente quella di seguire il programma.
Alle solitudini degli appartamenti metropolitani si rispondeva con un’offerta continua di illusioni, per modeste che fossero: facendo capire che quella solitudine era calata in un flusso meraviglioso di immagini, un mondo etereo dove il benessere era a portata di mano. Anche tu, assenteista insoddisfatta, piccolo-borghese inquieta, casalinga frustrata, pensionato ingrigito, potevi indovinare il numero dei fagioli della Carrà, accedere per un momento alla celebrità, «partecipare» a un evento, acchiappare la scia della cometa delle illusioni. Sono i primi esempi di televisione interattiva, in cui lo spettatore può tentare di diventare attore. Si vince sempre. E se non si vince oggi, si vincerà domani, con un’altra telefonata, con un altro programma. D’altra parte, non si vinceva sempre anche in Borsa, prima del martedì nero e del venerdì magro, non si stava realizzando il sogno di moltiplicare i soldi senza fatica, semplicemente puntando su questa o quella società quotata, su questo o quel fondo d’investimento? Non si avverava il miracolo di un capitalismo autenticamente popolare, un gioco del lotto a colpo sicuro, in cui tutto il parco buoi scopriva di avere diritto alla ricchezza? «Che ho vinto? Che ho vinto?», chiedevano con perfetta improntitudine al telefono i falsi giocatori inventati da Arbore in Indietro tutta, prima ancora di avere ascoltato la domanda, il quiz, il giochetto. ¦Potrebbe essere noioso e non immune da ritorsioni moralistiche procedere a un elenco delle categorie spirituali prodotte, o se non prodotte selezionate, amplificate e diffuse, dalla televisione. Eppure, che cosa otterremmo se mettessimo nel frullatore l’intera programmazione televisiva e ne distillassimo come quintessenze il significato morale di fondo? Alla rinfusa: un’esasperazione della sessualità presentata di norma come diritto individuale al piacere, a cui fa da sfondo l’esaltazione del corpo, sia nei programmi sia nella pubblicità; una celebrazione enfatica della ricchezza esibita e del consumo vistoso; un clima di festa perenne, di sagra irresponsabile. Nulla di sobrio, niente di austero, ci mancherebbe. Il fatto è che questo brodo molto moderno viene preparato praticamente all’unisono dalla Fininvest come dalla Rai. Da questo punto di vista il duopolio è una finzione, e non è un caso che si cominci a parlare con sempre maggiore appropriatezza di
«sistema» televisivo. Si interpreti in tutte le accezioni praticabili il termine «sistema», ma riesce difficile negare che dopo avere partecipato alle giostre di Dallas e di Dynasty (televisione privata) assistere ai mediocri fasti di Beautiful (televisione pubblica) rappresentasse un’immersione nello stesso fiume.
Si disse, ai tempi di Dallas, che questo serial concedeva alla «gente comune » (ma forse allora, all’inizio degli anni Ottanta, qualcuno poteva ancora arrischiarsi a dire proletariato senza passare immediatamente per retrò) la chance di sentirsi moralmente superiore ai ricchissimi personaggi della finzione televisiva. A distanza di tempo, registrato il trascendentale successo politico di Silvio Berlusconi, viene da pensare che in realtà il sentimento del pubblico rispetto al perfido J.R. Ewing, il tycoon del petrolio, fosse di tutt’altro tipo. Ma se è adeguata alla realtà l’idea di una omologazione di fondo, negli stili e nei contenuti, fra televisione pubblica e privata, non sembrerebbe allora del tutto convincente nemmeno l’identificazione dell’attuale presidente del Consiglio come il «grande scristianizzatore» dell’Italia contemporanea. Il giudizio è stato espresso con estrema chiarezza dallo scrittore cattolico Vittorio Messori, in alcune dichiarazioni successive all’exploit pivettiano al Meeting di Cl2. È certo che, proprio per stigma genetico, essendo nate con l’obbligo di stare sul mercato senza la protezione del canone d’abbonamento, le reti della Fininvest hanno dovuto rincorrere il pubblico puntando su ciò che fino ad allora la tv di Stato si guardava bene dall’offrire; e quindi, ecco la maggiore spregiudicatezza, qualche strappo alle regole, scollature più profonde, libertà di parolaccia. E forse potrà anche risultare sorprendente che, malgrado tutti gli inchini che si sono visti ai valori del cattolicesimo e della famiglia, una rete Fininvest mandi in onda spettacolini soft core prodotti dalla factory di «Playboy». Ma sono inezie, sfumature, nient’altro che variazioni su un tema: «Ebbene sì, ho fornicato – come diceva l’anziano aristocratico inglese – ma è stato tanti anni fa, in un Paese straniero, e la ragazza è morta». Per l’appunto: si commettono peccati di entità lievemente maggiore quando l’ora è tarda, i bambini sono a letto, e le coppie, regolarmente sposate, in attesa di andarci. Nella morale cattolica «fai da te» che sembra essere
il vero criterio assimilato in tutte le sue implicazioni dai ceti moderati (che sono poi quelli a cui si propongono modelli di riferimento in genere smodati), potrebbe darsi che anche questo venga considerato un buon viatico all’intesa coniugale, alla stessa stregua della luna durante la serata romantica nella reggia di Caserta durante il G7. Ci sarebbe spazio per considerazioni non insignificanti sul delinearsi di stili di comportamento che percorrono il doppio binario dell’accettazione di un cristianesimo più che altro sentimental-convenzionale e del rifiuto del carattere vincolante dei precetti ecclesiastici in tema di morale, sessualità, matrimonio compresi; ma fermiamoci a questa idea della famiglia, sbandierata al di là di qualsiasi forma abbia assunto in quanto istituzione e di qualsiasi cosa voglia significare sul piano sociale. Anche con echi lievemente imbarazzanti, tenuto conto che, mentre il senso dello Stato è sempre stato carente, il senso della famiglia non è mai mancato. Forse, ecco, con la differenza che i vecchi imprenditori politici democristiani la consideravano un serbatoio di voti mentre per i manager di Publitalia sarà un target di consumi, e per gli homines novi scremati da Forza Italia l’embrione di un club politico moderato.
Sia come sia, dire famiglia evoca qualcosa. E quindi, spettacolo inevitabilmente «per le famiglie» i varietà del sabato sera e della domenica pomeriggio, i Biberon e i Saluti e baci, il nazionalpopolare di Baudo e la telenovela: accomunati, per chi li produce, da una spessa indifferenza per la qualità dello spettacolo, e perciò stesso, come conseguenza diretta, con la convinzione sottostante che anche la qualità delle famiglie non sia gran che. Non si corre troppo in là a dire, se il sillogismo funziona, che anche al culmine del processo di modernizzazione la premessa dell’«ideologia» televisiva è esattamente simmetrica alla convinzione attribuita al realismo di Ettore Bernabei, secondo cui gli italiani erano, fatti i conti, «cinquanta milioni di teste di c.». Alla luce di questa indifferenza estetica ed etica, può anche venire il sospetto che nel giudicare il rapporto fra televisione e società possa essere replicata – su un altro piano ma con la medesima intenzione moralistica – l’idea metafisica della distinzione fra il Paese legale e il Paese reale, fra la politica e la società: potrebbe delinearsi cioè, anche solo a scopi polemici, la concezione di una televisione «cattiva» capace di esercitare un’influenza nefasta su una società intimamente «buona». Si tratta di una riduzione semplicistica che con ogni probabilità non reggerebbe a verifica. È una tesi che nei suoi tratti essenziali può assumere un suo rilievo strumentale se viene fatta propria da settori limitati, «corporativi», di opinione pubblica, interessati a promuovere istanze polemiche proprio nei riguardi dei processi di modernizzazione e quindi a eleggere come bersagli polemici i più vistosi idola di una contemporaneità ritenuta nel suo complesso un inquietante e stordente procedere della perdita di valori. Come si è accennato, se c’è uno schema che inquadra il rapporto televisione/pubblico è piuttosto quello di una loro progrediente identificazione. È anzi all’interno di uno schema di sovrapposizione senza attriti che si potrebbero analizzare i giochi di specchi fra emissione di modelli e comportamenti di massa, esaminando come gli uni interagiscono con gli altri. Si potrebbe registrare, ad esempio, che la tendenza dei programmi di intrattenimento è rivolta a incorporare il pubblico nella trasmissione, annullando il diaframma fra chi produce spettacolo
e chi lo riceve. Mentre lo spettacolo televisivo tradizionale (il vecchio Studio Uno, per capirci) non usciva dallo schema teatrale (di qua lo spettacolo, di là un pubblico in platea), a poco a poco la distanza è stata annullata. Una delle prime efficaci sottolineature di questa evoluzione, elaborata in piena consapevolezza «critica», è stata offerta dal programma di Renzo Arbore Indietro tutta, dove spalti di figuranti facevano da pubblico finto e da coreografia vera allo spettacolo. Ma chi ha approfondito più deliberatamente questo modello, perfezionandolo ed esasperandolo via via nel tempo, è stato più propriamente il vecchio sodale di Arbore, Gianni Boncompagni. Prima con il «contenitore» di Domenica In, nel quale un folto gruppo di ragazzine è stato istituzionalizzato come elemento dello spettacolo, «coro» messo rigorosamente in uniforme, chiamato a scandire, ad accompagnare e ad animare i passaggi del programma. E alla fine con l’equazione totale praticata con Non è la Rai, la trasmissione di Ambra.
Chi ha fermato almeno una volta il telecomando sul programma di Boncompagni sa che, nel suo genere, è geniale. Si tratta di un evento quotidiano senza pubblico, una «macchina celibe» di intrattenimento, dove i ruoli sono intercambiabili, a rotazione, fra protagoniste e gregarie. Vederlo dal tinello di casa, per un’aspirante Ambra, è come guardare un acquario in cui tutto è variopinto, così spontaneo in apparenza, dove quelle sue coetanee sexy ma non troppo, e belle ma non tanto da mortificarti («Le vogliamo carucce – ha teorizzato Boncompagni – perché se sono eccessive poi non c’è identificazione»), quelle sue virtuali compagne di scuola ridono, ballano, cantano, si entusiasmano, si commuovono e versano lacrimoni di soddisfazione a turno, le une per le altre. Tutto perfettamente confezionato, più vero del vero, per quanto sigillato ermeticamente, sotto vuoto spinto.
A prima vista si direbbe che questo congegno è un formidabile produttore di esclusione. E però, in via complementare, chissà che emozione illudersi di essere là, oltre lo schermo, dentro la scatola magica; quindi, chissà che frustrazione umiliante non poterci essere, con le «magiche» Pamela, Francesca e Roberta, e dovere sopportare invece, fuori dalle ore della trasmissione, la noia della vita con papà e mamma e il fratellino piccolo e lo strazio della scuola e dei professori. E dunque, per esserci, nel luglio ’94 si affollano e sfilano in quindicimila alla selezione per la nuova serie della trasmissione, davanti allo sguardo allenato di Boncompagni, il quale osserva, giudica, e alla fine approva o condanna. I resoconti sui provini sono rivelatori dell’atteggiamento con cui le ragazze guardano alla promessa di felicità televisiva. Succede per esempio che il regista ne boccia una ma quella capisce invece che l’hanno promossa: «Ed è scoppiata in un pianto liberatorio così terribile, con singhiozzi così esagerati, così bestiali, buttandosi addosso alla ragazza che l’accompagnava che tutti gli occhi si sono appuntati su di me con un rimprovero preventivo. Ho detto: okey, presa, non parliamone più».
Per un’Ambra Angiolini che sembra essere nata professionista, che ha in repertorio un catalogo intero di furbizie espressive e di strumenti comunicativi, ci sono migliaia di casi sociologici al ribasso, esemplificazioni rionali, eccessi, ottusità e cecità di una provincia profonda, sconvolta dal richiamo della televisione. Boncompagni – lo ha confidato in un’intervista a «L’Espresso»3 – ha conservato tutti i provini registrati: «Perché sono sicuro che fra vent’anni saranno un documento storico, un reperto d’epoca prezioso». L’occhio clinico-cinico del regista cataloga un campionario sociale ed esistenziale «inquietante», perché le aspiranti sembrano tutte «clonate», «fascia sociale medio-bassa», «tutte apparecchiatissime, acconciate con pettinature inverosimili, con quei tacconi orribili che vanno quest’anno, strozzate in vestiti minimi. Più erano formose più si stringevano». E ancora: «Tutte che dicevano “borza”, “danza” con la zeta dolce… Tutte un po’ intimidite a spiegarsi con parole assolutamente identiche: facevano tutte ancora la scuola dell’obbligo e, se erano state bocciate, era sempre “perché i professori ce l’avevano” con loro, mentre il tempo libero lo passavano tutte a fare “gnente”. Nessuna lettura, nessun interesse preciso». La crudeltà fredda, come da entomologo, di Boncompagni fissa con lo spillo istantanee di solitudine, interni di case dell’hinterland, caseggiati
in periferie dove «dal punto di vista dei rapporti uomo-donna la nostra è la stessa civiltà contadina di duemila anni fa», in cui «il maschio è terribile, antico, ignorante», e dove lo schema infallibile di giudizio trasmesso di padre in figlio è «la ragazza che ci sta è una troia, quella che non ci sta è una stronza». Nella crudezza delle espressioni si coglie la visione disincantata di una società italiana in pericoloso bilico fra dimensione arcaica e secolarizzazione apocalittica. Al centro esatto di questo equilibrio così funambolico c’è il mondo colorato della televisione. Che
cosa ci si può aspettare allora dalla tv? Che riesca nel miracolo di trasformare l’emarginazione sociale in riscatto, la subalternità culturale in protagonismo? L’afasia in comunicazione? La bambina involgarita della porta accanto in una sophisticated lady? No, piuttosto la produzione di miti, e autoconsumo di mitologie. Cioè conformismo adeguato ai tempi, prodotto dalla televisione e da essa replicato e intensificato all’infinito. Rispondono infatti le giovani italiane, tutte già piccole Parietti e simil-Marini, confessando obiettivi esistenziali da serial californiano e già abituate a replicare alle domande in stile da rotocalco: «Mi vorrei comprare la villa con la piscina, come si vede in tv». «Faccio animazione nelle discoteche». «Non ho assolutamente tempo per i fidanzati». Se è vero quello che dice Boncompagni a proposito delle periferie metropolitane e della provincia più marginale, siamo ancora in una condizione che non trova migliore descrizione rispetto a quella della stranota formula «il medioevo più la televisione». Una società arcaica nei suoi sentimenti più profondi e nei suoi comportamenti primari su cui attecchiscono però, almeno in superficie, tutte le varietà standardizzate del comportamento up-to-date. Ci si potrebbe sbizzarrire a enumerare le possibili combinazioni di arcaico e ultramoderno offerte da un sincretismo di questo genere, le aspirazioni su cui modellare la propria vita. Ciò nondimeno si tratterebbe di un esercizio non eccessivamente fruttuoso, se l’intento fosse di individuare ciò che si ritiene positivo, e di puntarci sopra a fini pedagogici. Proprio l’impasto così difficilmente districabile fra antico e nuovo, fra premoderno e postmoderno, sembra in realtà la cifra più diffusa nella società, al livello collettivo come per gli individui. È per questo che alla fine riesce incongruo proporre come caratterizzazione politica specifica, come interesse selezionato, temi aurorali come quello rappresentato dalla famiglia: proprio perché l’audience è ugualmente sensibile sia all’evocazione sentimentale o melanconica di valori tradizionali sia all’attrazione della convenzionalità «moderna» scandita dai piaceri e dalle trasgressioni (sempre a un passo dal tramutarsi in convenzioni) della civiltà di massa. Un tema che richiama costitutivamente saldezza di convinzioni e coerenza di comportamenti risulta efficace solo per quelle minoranze (avanguardie o retroguardie che dir si voglia) che puntano su fattori forti di identificazione, e che si sentono in grado di sfidare polemicamente il senso comune, l’atteggiamento convenzionale delle maggioranze. Ma su un piano generale la testimonianza, anche nei suoi contenuti di contrapposizione esplicita a una tendenza omologata, tradotta in messaggio televisivo, appoggiata a un supporto massmediale, si presta a una ricezione frammentata, tende a non differenziarsi dagli altri elementi proposti alla sfera del consumo. Anche se fosse spendibile una proposta continua e sistematica di valori, ispirazioni ideali, complessi simbolici riferiti a modelli «comunitari», questa proposta tenderebbe ad appiattirsi, a depotenziarsi, a configurarsi senza soluzione di continuità come una delle numerosissime configurazioni della mappa che disegna l’orizzonte tradizione-modernità. Si potrebbe concludere insomma con un pronunciato realismo, il che equivale detto più esplicitamente a sostanziale sfiducia, verso i tentativi di invertire eroicamente la rotta;ma anche, per ciò che riguarda il passato, verso l’attribuzione di imputazioni e responsabilità specifiche in ordine a processi complicati come la scristianizzazione.
Come in Non è la Rai, probabilmente, è caduta la paratia fra spettacolo e pubblico. A questo punto l’identificazione è esatta, la sovrapposizione perfetta. Una certa idea della televisione, così come una certa idea della famiglia, appartengono al passato, quando l’una e l’altra erano diverse. Oggi, presentare alla società – agli spettatori – oleografie pacificanti e richiami a convenzioni nostalgiche vuol dire con ogni probabilità non produrre né intrattenimento né politica, ma più prosaicamente far confluire echi ideologici in una proposta, alla fine, che attiene all’estetica dei mulini bianchi: insomma, alla pubblicità.

1 Almeno in parte, e sotto una luce sarcastica, coglie questo aspetto Massimo Fini su «L’Europeo» del 7 settembre 1994: «Arridatece Forlani perché anche lui aveva una moglie ma nessuno l’ha mai vista. E la cosa, a dire il vero, vale per tutti i leader democristiani: saranno stati quello che saranno stati ma perlomeno non ci hanno mai inflitto le loro mogli, che erano un po’ come le consorti dei segretari del Pcus (prima dell’infame Gorbaciov) che si vedevano solo ai funerali degli augusti mariti strette in lise pelliccette di astrakan».
2 «Io ero a Rimini, quando lei ha parlato. Li ho sentiti, gli applausi che riceveva per quella sua sortita sul “popolo in esilio”, quando demonizzava la Dc che secondo lei sarebbe responsabile della scristianizzazione in Italia. Io non demonizzo nemmenoBerlusconi, vediamo come va. Ma devo ricordare a Pivetti che se c’è stato un responsabile della scristianizzazione, in Italia, questo è il Cavaliere. Le sue reti sono il simbolo di un’umanità per cui Dio non è neppure un’ipotesi. Certo, il degrado morale è un trend di tutto l’Occidente, ma Pivetti non può ignorare che le paillettes di Berlusconi, che la sua idea di tempo libero come ricerca di cose lontane dalla serietà della vita, son ben più responsabili della scristianizzazione che non la spartizione delle tessere che faceva Sbardella» (intervista a Silvia Giacomoni, «la Repubblica», 30 agosto 1994).
3 Cfr. l’intervista raccolta da Stefania Rossini, Ambra e le altre? Serena disperazione, «L’Espresso», 22 luglio 1994.