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Ildefonso Cerdà - Teoria generale dell’urbanizzazione





lunedì 02 maggio 2011 legge Antonio Alberto Clemente
Il concetto di città finisce con questa frase: «l’urbe è un nodo nella viabilità universale». Era il 1867 quando Ildefonso Cerdà capì che era necessaria una nuova parola «per indicare quell’insieme di fatti diversi ed eterogenei chiamato città». Si chiudeva un’epoca e se ne apriva un’altra.. La città si è radicalmente trasformata con il passaggio della scala urbana da circoscritta a smisurata. Da tempo, ormai, le caratteristiche del fenomeno urbano non sono più concentrazione e continuità, ma dispersione e frammentazione. Il territorio appare come un raggruppamento di multiformi espressioni costruttive; di trame filamentose che si addensano ora in piccoli grumi edilizi, ora in estensioni senza fine: «la città va verso un altro essere o un’ altra essenza» e «un giorno dimenticherà persino di chiamarsi “città”» (Jean-Luc Nancy 1999). È un processo che inizia con l’incipit della Teoria generale dell’urbanizzazione di Cerdà: «inizierò il lettore allo studio di una materia completamente nuova, intatta, vergine. Poiché tutto era nuovo, ho dovuto cercare e inventare parole nuove per esprimere idee nuove, la cui spiegazione non si trovava in alcun lessico».


Ildefonso Cerdà, Teoria generale dell’urbanizzazione, Jaca Book, Milano 1984.

Edizione originale: Ildefonso Cerdà, Teoría general de la urbanización y aplicación de sus principios y doctrinas a la reforma y ensanche de Barcelona, Instituto de estudios fiscales, Barcelona 1968 (riproduzione in copia anastatica dell’edizione originale stampata a Madrid nel 1867, Imprenta Española, Torija, 14, Bajo).

       Indipendenza dell’individuo nell’abitazione,
indipendenza dell’abitazione nell’urbe,
           indipendenza dei movimenti nelle vie urbane.
            Ruralizzate l’urbano, urbanizzate la campagna...
Replete terram
(p. 69 )
AL LETTORESono nato nel primo terzo di questo secolo, in un’epoca in cui la società spagnola era ancora legata alle antiche tradizioni di immobilismo, e mi ricordo la profonda impressione provata quando, ancora molto giovane, ho visto per la prima volta, a Barcellona, l’applicazione del vapore alle macchine industriali.
Qualche anno dopo, avendo già viaggiato per mare a bordo di un battello a vela, feci una piccola crociera su una nave a vapore. Non dimenticherò mai neppure la sorpresa che questo motore aveva provocato allora nel mio spirito. Questa volta, esso non era più applicato ad una macchina fissata al suolo e destinata a mettere in moto altri macchinari ugualmente fissi e stabili: il motore, la macchina, l’ambiente, tutto si muoveva simultaneamente. Il risultato era il più potente, sicuro, rapido e confortevole di tutti i mezzi di locomozione conosciuti a quell’epoca.
Poco tempo dopo, nel 1844, appena uscito dalla Scuola di ingegneria e già interessato agli studi di filosofia sociale, ebbi l’occasione di fare un viaggio nel Sud della Francia, dove potei vedere l’applicazione pratica del vapore alla locomozione terrestre e provai nuovamente la stessa impressione. Conoscevo già la potenza del vapore così come il suo funzionamento teorico nelle locomotive; sotto quell’aspetto non c’era nulla che potesse sorprendermi. Bisognava quindi che trovassi il vero oggetto e la causa della mia sorpresa. In realtà, ciò che aveva colpito la mia immaginazione era la vista di quei lunghi convogli che trasportavano, prima in una direzione e poi nell’altra, una grande quantità di viaggiatori di condizioni sociali, età e sesso differenti, che facevano pensare a popolazioni intere che si spostavano, che cambiavano repentinamente domicilio. Questo spettacolo, sempre grandioso e nuovo per me, dopo la sorpresa che mi causò, elevò il mio spirito a più alte considerazioni di ordine sociale, soprattutto quando notai la difficoltà con cui tale massa di ospiti inattesi penetrava attraverso le strette porte della città, si riversava nelle strade strette e tortuose e cercava rifugio nelle misere case dei vecchi quartieri.
Tutte queste osservazioni mi ricordavano le impressioni che avevo riportato nelle due occasioni precedenti e mi spinsero a gettare uno sguardo retrospettivo sull’epoca della mia giovinezza, quando la società sembrava immobile. Confrontando il passato con il presente, capii che l’applicazione del motore come forza motrice segnava per l’umanità la fine di un’epoca e l’inizio di altra e che in quel momento ci trovavamo in un vero periodo di transizione. La sua durata sarà più o meno lunga secondo il carattere che assumerà la lotta, appena iniziata, tra il passato con le sue tradizioni, il presente con i suoi interessi, e l’avvenire con le sue nobili aspirazioni.
Non ho alcun dubbio su quale sarà l’esito. L’epoca che sta nascendo genererà una civiltà generosa e feconda, che trasformerà radicalmente il modo di essere e il funzionamento della società, sia nel campo dell’industria che in quello dell’economia, della politica e dei rapporti sociali; essa finirà per impossessarsi del mondo intero.
Ho visto sopravvenire a passo accelerato la nuova civiltà che già batte alle nostre porte e i cui primi effetti si fanno sentire nelle grandi città che - per la natura e le circostanze della lotta intrapresa - saranno il campo di battaglia di questo scontro titanico tra due civiltà per la conquista del mondo.
Dopo aver gettato un rapido sguardo sui grandi centri urbani, mi convinsi che essi, con il loro organismo prodotto da civiltà pressoché statiche, oppongono numerosi intralci e ostacoli alla nuova civiltà che esige spazi più vasti, una più grande libertà di movimento, e dispiega una intensa attività. Simili ostacoli dovranno essere rimossi se questa nuova civiltà non vuole condannarsi ad un immobilismo che è incompatibile con i suoi elementi costitutivi ed essenziali.
Supponevo che altri avessero provato prima di me le stesse impressioni e che avrei trovato qualcuno con cui iniziare, da un punto di vista filosofico, lo studio dell’ampiezza e dell’influenza trasformatrice che i nuovi mezzi d’azione messi a disposizione degli individui avrebbero esercitato sulla società umana e soprattutto sulle grandi città che la nuova civiltà ha trasformato in altrettanti centri di vita sociale. Pubblicando i risultati delle sue ricerche, l’autore avrebbe consigliato ai governi di affrettarsi a preparare le popolazioni alla nuova situazione. Esaminai allora i cataloghi di tutte le biblioteche nazionali e straniere con l’intenzione di fare un inventario di tutti i libri che trattavano questo argomento. Ma grande fu la mia sorpresa nel constatare che niente, assolutamente niente era stato scritto su un soggetto di tale importanza e portata. Fu allora che ebbi l’idea di dedicare allo studio di questa materia tutto il tempo libero che la mia professione di ingegnere al servizio dello Stato mi lasciava, per raccogliere i dati e acquisire le conoscenze necessarie a chiarire una questione di importanza capitale. Questo primo passo, di cui in quei momenti di entusiasmo non immaginavo la portata e di cui non mi pentirò mai, fu quello che decise il destino della mia vita.
Le mie prime ricerche sulle esigenze della nuova civiltà, le cui caratteristiche peculiari sono il movimento e la comunicazione, e il confronto tra queste esigenze e ciò che le nostre antiche città, dove tutto è ristretto e meschino, potevano offrire per soddisfarle, mi mostrarono prospettive nuove, ampie, immense, un mondo nuovo per la scienza, verso il quale decisi di dirigere la rotta. Le scoperte che, in questa esplorazione scientifica, facevo ogni giorno, acuivano la mia curiosità, mi incoraggiavano a continuare e mi davano nuove forze, malgrado gli ostacoli che spesso sbarravano la mia strada. Nel frattempo il lavoro colossale che avevo intrapreso, per essere svolto da un solo individuo, mi imponeva di dedicarvi tutto il mio tempo e le mie facoltà. Era incompatibile con qualsiasi altra seria occupazione. Presi allora (nel 1849) la decisione di fare questo sacrificio in omaggio all’idea dell’urbanizzazione.
L’apparizione di nuove applicazioni dell’elettricità mi indusse a prendere questa decisione che non definirei eroica, ma coraggiosa. L’elettricità è, certamente, conosciuta fin dall’antichità, ma una volta in possesso della nuova civiltà, e tenuto conto delle sue applicazioni possibili che oggi non è ancora dato prevedere, essa farà precipitare gli avvenimenti e accelererà il corso delle trasformazioni così potentemente avviate in conseguenza delle applicazioni del vapore.
Confesso sinceramente che il sacrificio che mi parve più difficile e in realtà mi addolorò di più fu quello della posizione che avevo raggiunto nel corso della mia carriera a prezzo di tanti sforzi, nella quale avevo riposto tante speranze. Ciononostante, lo compii senza esitare. Avevo bisogno di essere completamente libero e indipendente, senza alcun ostacolo che potesse frenare la mia spinta irresistibile e che mi impedisse di consacrarmi interamente agli studi sull’urbanizzazione, anche a prezzo della mia fortuna, del mio benessere, dei miei affetti o, ancora, della mia posizione sociale, poiché la mia condotta e la mia abnegazione mi hanno procurato le più dure critiche di una censura pubblica e privata che, da dieci anni, riempie la mia vita di amarezza.
Tutti questi sacrifici mi sembrano ben poca cosa se confrontati alla grandezza degli obiettivi altamente umanitari di cui attendo la prossima realizzazione. Mi considero largamente ricompensato dall’accoglienza generosa e dalla efficace protezione che gli organismi consultivi e il governo di Sua Maestà hanno accordato ai miei modesti lavori.
Oggi, conformemente a una disposizione del governo approvata dalle Cortés e sanzionata da Sua Maestà, questi lavori sono a disposizione del pubblico. Ad esso che, in ultima istanza, spetta di pronunciare il giudizio supremo e senza appello che attendo con serenità e impazienza; sarà il pubblico a decidere se venti anni di impegno hanno potuto produrre, finalizzandolo ad applicazioni pratiche, qualcosa di utile all’umanità, cosa che è stata e resta il mio obiettivo. (pp.71-74)

PREFAZIONELe nostre città non sono opera delle attuali generazioni, né delle precedenti: né di questo secolo, né del secolo passato. Esse sono l’opera, perseverante e continua, di molte generazioni, di molti secoli, di molte civiltà diverse. Sono come quei monumenti storici ai quali ogni generazione, ogni secolo ed ogni civiltà ha aggiunto al suo passaggio una nuova pietra, che non è stata posta per capriccio, ma con deliberata intenzione. In ciascuna di queste aggiunte eterogenee si esprimono le necessità, le inclinazioni, le tendenze di ogni generazione, di ogni secolo, di ogni civiltà, e insieme i mezzi impiegati per soddisfarle. Esse sono come gli strati delle formazioni geologiche: ognuno di essi rivela esattamente agli occhi dello scienziato le condizioni reali della natura all’epoca della sua formazione.
Quest’opera eterogenea, frutto di sforzi e di obiettivi così diversi, ha potuto conservarsi fino ad oggi perché, a prezzo di qualche miglioramento o di qualche modifica, ogni civiltà successiva è riuscita ad adattarla al suo uso e ai suoi bisogni, che erano di poco differenti da quelli della civiltà precedente. Non sarebbe difficile far notare gli accomodamenti diversi che hanno permesso ad ogni civiltà di realizzare un simile adattamento. Ma non è il momento di attardarsi su ciò. Il vero problema, quello che ha tutto l’interesse dell’attualità, è di sapere se la generazione contemporanea non sia sostanzialmente diversa dalle generazioni precedenti. Considerando che il nostro secolo ha iniziato una marcia gigantesca che lascia molto indietro il secolo precedente, considerando i cambiamenti insoliti e straordinari che continuamente investono l’attuale civiltà, l’agitazione impaziente e febbrile che essa manifesta nelle sue aspirazioni, questa civiltà non si troverà fra poco completamente contrapposta alla civiltà precedente? La questione importante è dunque di sapere se, nel momento in cui una trasformazione profonda e radicale si realizza, quest’opera monumentale, frutto di epoche successive di cui nessuna è simile alla nostra, possa essere adattata e adeguata ai nuovi bisogni che noi oggi sentiamo, che si manifestano ogni giorno e che non furono mai previsti e immaginati nelle epoche precedenti...
Il mio obiettivo è di mettere in evidenza, per consentire la comprensione e, per cosi dire, far toccare con mano, la causa prima del profondo malessere che affligge le moderne società rinchiuse nelle grandi città e che minaccia di distruggerle. Mi è parso necessario esaminare ab initio, e prima di tutto, in quale modo si sono formati gli immensi agglomerati che noi ammiriamo oggi. Questo è l’oggetto della prima parte del mio lavoro, in cui, dopo aver fornito un’idea generale dell’urbanizzazione, descrivo le sue origini, il suo sviluppo, la sua storia. Non potevo dimenticare le analisi che, nei miei lavori di ricerca, mi avevano portato a conseguire risultati tanto soddisfacenti. Così, dopo aver trattato dell’urbanizzazione nel suo insieme, mi sono dedicato allo studio dei suoi aspetti particolari: un lavoro anatomico grazie al quale, introducendo lo scalpello nel fondo più intimo e nascosto dell’organismo urbano e sociale, sono riuscito a sorprendere, in vivo, la causa originaria, il germe attivo della grave malattia che rode le viscere dell’umanità. Questo lavoro di dissezione servirà al momento giusto al lettore, come è servito a me, per acquisire una conoscenza esatta dei principi della scienza dell’urbanizzazione cosi come delle regole dell’arte che permettono la loro applicazione, e faciliterà la comprensione delle parti che seguono, dedicate alla teoria e alla tecnica.
Lo studio e la conoscenza di una malattia sarebbero inutili se non conducessero all’individuazione e all’applicazione del suo rimedio. Per tale motivo, la seconda parte di questo lavoro tratta del sistema e della teoria che si dovrebbe applicare per estirpare il male, teoria che consiste nell’esposizione dei principi generali la cui applicazione dovrebbe condurci ad una urbanizzazione perfetta.
Il mio compito non finiva qui. Dovevo infatti ridurre la rigidità dei principi teorici, dar loro una elasticità che li rendesse utilizzabili per mezzo di regole pratiche e aprisse cosi la strada alla transizione alle soluzioni di cui ho parlato sopra. Questo è l’oggetto della terza parte dedicata alla tecnica. Le grandi verità speculative spesso colpiscono per l’eccesso della loro luminosità. È necessario ridurle a dimensioni che permettano a chiunque di contemplarle e di avvicinarle senza sentirsi respinto. Per questo motivo, parallelamente alla scienza e dopo di essa, viene l’arte che la rende realizzabile.
Il mio proposito restava ancora incompleto fino a che mancava quello che mi appariva come l’oggetto principale dell’impresa, lo studio dell’espansione e della «riforma» di Barcellona; il cui studio doveva essere considerato come un esempio di applicazione dei principi e precetti proclamati e insegnati dalla scienza e ridotti dall’arte a regole pratiche. Per questo motivo, ho dovuto porre nella quarta e ultima parte lo studio della riforma e dell’espansione di Barcellona, che illustrerà exempli gratia l’applicazione dei precetti e delle regole.
Il resto sarà opera del tempo a cui affido la conferma e la traduzione nella pratica delle mie teorie. (pp. 77- 80)

INTRODUZIONEInizierò il lettore allo studio di una materia completamente nuova, intatta, vergine. Poiché tutto era nuovo, ho dovuto cercare e inventare parole nuove per esprimere idee nuove, la cui spiegazione non si trovava in alcun lessico. Posto d’innanzi all’alternativa di inventare una parola o di smettere di scrivere, ho preferito inventare e scrivere piuttosto che tacere.
Per prima cosa ho dovuto dare un nome a questo mare magnum fatto di persone, di cose, di interessi di ogni genere, di mille elementi diversi che sembrano funzionare, ognuno a suo modo, in modo indipendente. Ma una osservazione minuziosa e critica scopre che essi hanno relazioni costanti gli uni con gli altri e che, di conseguenza, finiscono col formare un’unità. Io so che l’insieme di tutti questi elementi, considerato soprattutto nel suo aspetto materiale, è chiamato città. Tuttavia il mio obiettivo non era di esprimere questa materialità, ma piuttosto di mettere in rilievo come e secondo quale sistema si sono formati i diversi elementi, come sono organizzati e come funzionano: al di là della materialità volevo indicare l’organismo, la vita, per cosi dire, che anima la parte materiale. Era chiaro che il termine città non serviva al mio scopo. Avrei potuto usare qualche derivato di civitas, ma tutte queste parole erano già cariche di signficati molto lontani da quello che cercavo di esprimere. Dopo aver tentato di utilizzare e abbandonato numerose parole semplici e composte, mi sono ricordato del termine urbs che, riservato all’onnipossente Roma, non è stato trasmesso ai popoli che hanno adottato la sua lingua, e si prestava meglio ai miei fini. Poteva infatti fornirmi qualche derivato adeguato, per così dire vergine, altrettanto nuovo che il soggetto al quale volevo applicarlo, ed era abbastanza generale e comprensibile per indicare questo insieme di fatti diversi ed eterogenei chiamato città. La parola civitas, derivata da civis, e cioè cittadino, aveva un significato analogo a quello della parola poblacion che ci serve oggi per indicare un gruppo di costruzioni, benché sia più adatto a designare gli abitanti che la parte materiale delle costruzioni. Ma la parola urbs, contrazione di urbum che indicava l’aratro, strumento col quale i Romani, all’atto della fondazione, delimitavano l’area che sarebbe stata occupata da una poblacion quando veniva fondata, denota ed esprime tutto ciò che poteva contenere lo spazio circoscritto dal solco tracciato con l’aiuto dei buoi sacri. Si può quindi dire che, tracciando questo solco, i Romani urbanizzavano l’area e tutto ciò che essa conteneva. Con questo solco si compiva una vera opera di urbanizzazione, e cioè l’atto di convertire in urbs un campo aperto o libero.
Questi sono i motivi filologici che mi hanno indotto ad adottare il termine urbanizzazione. Tale termine indica l’insieme degli atti che tendono a creare un raggruppamento di costruzioni e a regolarizzare il loro funzionamento, così come designa l’insieme dei principi, dottrine e regole che si devono applicare perché le costruzioni e il loro raggruppamento, invece di reprimere, indebolire e corrompere le facoltà fisiche, morali e intellettuali dell’uomo che vive in una società, contribuiscano a favorire il suo sviluppo e ad accrescere il benessere sia individuale che pubblico.
Per le stesse ragioni, ho adottato i termini urbanizzazione e urbanizzatore che il lettore troverà in ogni pagina di questo libro.
Per quel che riguarda il termine urbe, che uso tanto spesso, dirò che è stato necessario adottarlo perché la nostra lingua non possiede termini adeguati ad esprimere il concetto cui mi riferisco. Per indicare un gruppo di costruzioni, abbiamo le parole città, villa, borgo, villaggio, frazione, parrocchia, casale, fattoria, casa di campagna, ma esse corrispondono alla gerarchia dei diversi agglomerati secondo il numero delle costruzioni e l’estensione. Un tempo, indicavano anche la diversità dei modi di vita e dei privilegi accordati a ciascun centro attraverso decreti ed altri favori dai nostri monarchi. Ma a me occorreva poter indicare semplicemente e genericamente un raggruppamento di costruzioni, senza queste considerazioni di estensione o di gerarchia che non interessano la scienza dell’urbanizzazione. Desiderando evitare i termini poblacion e pueblo, sono stato obbligato a servirmi del termine urbe, derivato dal latino, usato in modo generico, nel senso più ampio possibile.
Mi rendo molto bene conto che l’urbanizzazione assomma tutte le condizioni necessarie per occupare un proprio posto tra le scienze che insegnano all’uomo il cammino del suo perfezionamento, un posto che i tecnici e i filosofi si affretteranno a concederle non appena sarà stata studiata, analizzata e compresa in modo adeguato. Finché questo non avverrà, l’urbanizzazione non potrà che aspirare ad essere conosciuta e considerata come un fatto notevole per la sua complessità e di importanza considerevole per l’influenza che ha esercitato, esercita ed eserciterà sempre nella vita dell’uomo sociale. Da questo punto di vista, l’urbanizzazione è semplicemente un raggruppamento di costruzioni poste in relazione e in comunicazione, di modo che gli abitanti possano incontrarsi, aiutarsi, difendersi e collaborare così da concorrere all’accrescimento del benessere e della prosperità comuni.
L’urbanizzazione, di cui in genere si attribuisce l’origine e lo sviluppo al caso, obbedisce invece, per l’osservatore filosofo, a dei principi immutabili, a delle regole fisse, e risponde a un fine altamente umanitario. Noi la studieremo dalle sue origini fino ai giorni nostri. La sua storia ce ne mostrerà gli elementi costitutivi, i principi che la reggono e i mezzi che devono essere impiegati perché l’umanità, che per natura e sotto l’impulso di un istinto irresistibile cerca la felicità e il benessere nei grandi agglomerati, non vi incontri invece la tortura, la degenerazione fisica, l’annientamento morale e intellettuale. (pp. 81-83)

Delle vie urbane o strade: origine e finalitàPunto di partenza e di arrivo di tutte le strade è sempre l’abitazione o dimora dell’uomo. La comunicazione fra questi due punti estremi in genere non è diretta e deve effettuarsi attraverso strade intermedie. Un sistema di strade assomiglia a un bacino fluviale. Le sorgenti formano dei ruscelli che scorrono verso i torrenti. Questi sboccano negli affluenti che, a loro volta, si gettano nel fiume che porterà tutte le acque al mare. Allo stesso modo, l’uomo esce dalla sua casa e imbocca un sentiero che lo conduce a un tracciato di maggiore importanza che sbocca su una strada di importanza locale. Questa porta a una strada regionale, poi a una strada nazionale, così di seguito, fino alla riva del mare dove le diverse strade si perderanno in ogni direzione entro questo elemento navigabile per raggiungere i diversi punti del globo.
L’urbe, considerata come un’appendice del grande sistema stradale universale non è niente di più che una specie di luogo di sosta più o meno esteso, più o meno complesso, più o meno importante, secondo il numero di industrie, di depositi e di abitazioni che la compongono. Così ogni urbe possiede sempre una o più strade che la collegano alla grande rete stradale che attraversa il nostro globo. Da queste strade, che noi chiamiamo trascendentali, partono altre strade che danno accesso a tutta l’urbe. Da esse, che sono le strade propriamente urbane, si staccano altre strade che comunicano con le abitazioni private, insieme punto di partenza e punto di arrivo della grande rete stradale universale, il cui flusso e riflusso è l’immagine autentica della vita dell’umanità. Così, anche se non è qui possibile studiare il funzionamento e la fisiologia di questa vita, studieremo almeno l’economia «viaria» dell’urbe e cioè i mezzi e gli strumenti di cui la vita dispone per manifestarsi in ogni centro urbano. (pp. 120-122)

Origine ed etimologia dei nomi generici delle urbesCercare l’origine di una parola non è mai un lavoro inutile: vuol dire cercarne il senso originario e ricostruire il succedersi delle sue varianti nel corso dei secoli. Questa storia è simile a quella che l’azione delle epoche successive permette di leggere sui monumenti architettonici, dei quali si può dire che sono la storia scritta in caratteri di pietra. Allo stesso modo, la storia dell’urbanizzazione è scritta a grandi caratteri nelle sue vestigia, tra le quali sono da annoverare, più simboliche e più difficili da interpretare, le parole di uso comune o quelle tecniche, e le idee o gli oggetti che esse designano.
Non è sufficiente aver studiato a fondo una lingua qualsiasi e l’etimologia delle parole che la compongono. In nessun paese del mondo si parla una lingua originale e pura. Tutte le lingue sono composte di parole ‘autoctone’ e di parole prese a prestito da altre lingue, conseguenza necessaria del commercio e dei rapporti fra i popoli. Le parole vengono trasmesse da un paese all’altro più facilmente che le mode e i costumi. Questo fatto può essere constatato in tutti i tempi, e anche quando i popoli vivevano chiusi in se stessi, solitari e isolati gli uni dagli altri. Al giorno d’oggi il fenomeno non può che svilupparsi. Una alla volta scompaiono tutte le barriere che separavano le nazioni e le facevano considerare nemiche. L’elettricità e il vapore, il telegrafo e le ferrovie eliminano le distanze, stabiliscono relazioni più frequenti tra le regioni più lontane e fanno emergere una tendenza irresistibile dell’umanità verso l’unità universale. (p. 142)

Riforme e trasformazioni delle urbes per preparare la transizione dalla locomozione su ruote ordinaria a quella perfezionata.Il primo consiste nel mettersi completamente nelle mani della scienza ed obbedirle ciecamente facendo astrazione da tutto ciò che esiste, per sottomettere le realizzazioni ai suoi principi incontestati. Il secondo consiste nell’affidarsi all’arte e al genio, senza tuttavia dimenticare i principi della scienza, in modo da conciliare le esigenze di oggi con quelle di domani. Il primo mezzo va bene nel caso della creazione di nuove urbes o nell’ampliamento delle attuali. Il secondo è, in linea di massima, adatto alle trasformazioni urbane. L’uno e l’altro sono ad ogni modo intimamente legati: il secondo non può esistere senza il primo e, senza il contributo del secondo, questo resterebbe incompleto e i suoi risultati pratici sarebbero insufficienti. (p. 170)