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Austerlitz - W. G. Sebald

 


lunedì 12 aprile 2010 legge Michele Vangi
“Non ci si capacita proprio di questo lento dissolversi della vita nel corso dei decenni. Ed è qualcosa di inconcepibile per me il dover constatare e valutare la possibilità che, per esempio, questa persona reale che oggi ha ottantacinque anni, abbia avuto allora (come da fotografia) solo ventidue anni. E' mai possibile? Ci entra nella testa? Come prendiamo tutto ciò? Che ne facciamo di questa informazione?” Lo scrittore tedesco W. G. Sebald (1944-2001) amava inserire nei suoi romanzi e racconti immagini fotografiche. Per lui la fotografia era parte di una concezione della scrittura che inseguiva la concretezza viva e a tratti sconvolgente del ricordo. Dalle fotografie d'epoca si solleva secondo Sebald una patina che va a depositarsi sui testi, viceversa le immagini prese nelle reti del testo riescono a parlare al lettore-osservatore. Il salvataggio di universi microstorici, (ri)costruiti attraverso un intarsio sapiente di scrittura e immagini tecniche: questo sembra essere il culmine etico del progetto sebaldiano di cui Austerlitz (2001), il suo ultimo romanzo, è espressione fra le più compiute.
 


W.G. Sebald, Austerlitz, traduz. di A. Vigliani, Adelphi, Milano, 2006.
Un eccentrico inquieto (pp.13-14)


“Tra le persone in attesa nella Salle des pas perdus c’era Austerlitz, un uomo che allora, nel ´67, aveva un aspetto quasi giovanile, con i capelli biondi singolarmente ondulati, come li ho visti solo all’eroe germanico Siegfried nel film di Lang sui Nibelunghi. Non diversamente da tutti i nostri successivi incontri. Anche quella volta ad Anversa Austerlitz portava calzature pesanti, una sorta di pantaloni da lavoro in tela blu sbiadita e una giacca di buon taglio, ma completamente fuori moda, e – a parte l’aspetto esteriore – si distingueva dagli altri viaggiatori anche perché era l’unico a non guardare fisso nel vuoto con le mani in mano, tutto preso com’era dalla stesura di appunti e schizzi che avevano di certo un qualche nesso con quella sala sfarzosa in cui sedevamo entrambi – sala a mio avviso più adatta alle cerimonie ufficiali che non all’attesa della prima coincidenza per Parigi o Ostenda -, perché, nei momenti in cui non era impegnato a scrivere, il suo sguardo restava spesso e a lungo posato sulla fuga di finestre, sui pilastri scanalati, o su altri aspetti e dettagli di quella parte dell’edificio. A un certo punto Austerlitz tirò fuori dallo zaino una macchina fotografica, una vecchia Ensign con soffietto telescopico, e scattò parecchie foto degli specchi ormai completamente opacizzati; foto che io a tutt’oggi non sono ancora riuscito a ritrovare fra le centinaia, in prevalenza non assortite, che lui mi diede in consegna poco dopo il nostro nuovo incontro nell’inverno del 1996. Quando infine mi avvicinai ad Austerlitz per rivolgergli una domanda relativa al suo palese interesse per la sala d’attesa, lui – per nulla meravigliato del mio approccio diretto – rispose subito senza la minima esitazione, confermando quanto da allora ho avuto spesso modo di notare, ovvero che chi viaggia solo è in genere contento di trovare un interlocutore dopo giorni e giorni trascorsi in completo silenzio. Anzi, in simili occasioni, si è spesso constatato che i viaggiatori solitari sono persino disposti ad aprirsi, senza alcuna riserva, con uno sconosciuto. Ma quella volta, nella Salle des pas perdus, non fu certo questo il caso di Austerlitz, il quale anche in seguito non mi avrebbe raccontato quasi nulla della sua origine e della sua vita. Le nostre conversazioni “anversane”, come lui più tardi le avrebbe talvolta chiamate, riguardarono in primo luogo questioni di storia dell’architettura, rispondenti alle sue eccezionali conoscenze specialistiche; e questo già la sera in cui restammo seduti fin quasi a “ mezzanotte nel ristorante che si trova di fronte alla sala d’aspetto, sull’altro lato del grande atrio a cupola. I pochi clienti rimasti sino a tarda ora se ne andarono alla spicciolata finché nel locale, che per la sua disposizione era in tutto e per tutto l’immagine speculare della sala d’aspetto, gli unici a restare fummo noi […]”


Grida da un mondo sommerso (pp. 60-62)


“Quell’ unica volta in cui, sulla diga di Vyrnwy, Elias mi aprì, di proposito o inavvertitamente, il suo animo di predicatore, io ne condivisi a tal punto i sentimenti che proprio lui, il Giusto, mi apparve come l’unico sopravvissuto alla catastrofe dell’inondazione di Llanwddyn, mentre tutti gli altri, i genitori, i fratelli, i parenti, i vicini e in generale gli abitanti del villaggio, li immaginavo ancora sul fondo, dove continuavano a starsene nelle loro case o ad andarsene in giro per i vicoli, senza poter parlare però e con occhi spalancati, troppo spalancati. A quest’idea che mi ero fatto dell’esistenza subacquea della popolazione di Llanwddyn aveva in parte contribuito anche l’album mostratomi da Elias per la prima volta quella sera al nostro ritorno, album che conteneva parecchie vedute del suo paese natale inabissato tra i flutti. Poiché in casa del predicatore non c’erano altre immagini, io continuavo a guardare e a riguardare le poche fotografie che in seguito sarebbero entrate in mio possesso insieme con il calendario calvinista, finché le persone che da quelle mi fissavano: il fabbro con il grembiule di cuoio, il maestro di posta già padre di Elias, il pastore che camminava per la strada del villaggio con le pecore, e soprattutto la bambina seduta su una seggiola in giardino con il cagnetto in grembo, mi divennero così familiari come se avessi vissuto con loro sul fondo del lago. Di notte, prima di addormentarmi nella mia stanza gelida, avevo spesso la sensazione di essermi inabissato anch’io nell’acqua scura, di dover tenere gli occhi spalancati, non diversamente dalle povere anime di Vyrnwy, per riuscire a cogliere in alto sopra di me un debole chiarore e l’immagine riflessa, franta dalle onde, della torre di pietra che si erge così minacciosa e appartata sulla riva lambita dai boschi.


” Il piccolo paggio (pp. 197-198)

“Si ha l’impressione, disse, che in esse si agiti qualcosa, ci sembra di udire lievi sospiri di disperazione, […] quasi le immagini avessero anche loro una memoria e si ricordassero di come allora eravamo noi, i sopravvissuti, e di com’erano quegli altri che adesso ci hanno lasciato. Sì, e qui sull’altra fotografia, disse Vêra, dopo qualche istante, qui ci sei tu, Jaquot, nel febbraio del 1939, più o meno sei mesi prima della tua partenza da Praga. Avevi avuto il permesso di accompagnare Agáta a un ballo in maschera in casa di uno dei suoi influenti ammiratori e, apposta per l’occasione, ti confezionarono questo costume tutto bianco. Jaquot Austerlitz paže ružové králowny, è scritto sul retro per mano di tuo nonno, che proprio in quei giorni era in visita da noi. La fotografia era davanti a me, disse Austerlitz, ma io non avevo il coraggio di toccarla. Le parole paže ružové králowny, paže ružové králowny continuavano a ronzarmi in testa finché da lontano non mi venne incontro il loro significato e io rividi il quadro vivente con la regina delle rose e, al suo fianco, il piccolo paggio. Di me in quel ruolo non riuscii però, a ricordare nulla, per quanti sforzi facessi quella sera e anche in seguito. Riconobbi sì l’inconsueta attaccatura dei capelli, obliqua lungo la fronte, ma per il resto tutto in me era venuto meno, sopraffatto dal sentimento dal passato. Da allora ho sottoposto molte volte a un attento esame la fotografia, il terreno brullo e piatto in cui mi trovavo, senza riuscire a immaginare dove fosse, la zona scura, indistinta, oltre l’orizzonte, i capelli ricciuti del bambino, d’una chiarezza spettrale al loro bordo esterno, la mantiglia sul braccio apparentemente piegato ad angolo oppure, come mi è venuto da pensare, disse Austerlitz, rotto o steccato, i sei grossi bottoni di madreperla, il cappello stravagante con la piuma di Airone e perfino le pieghe nei calzettoni, ho sottoposto ad analisi ciascun dettaglio con la lente di ingrandimento, ma senza riuscire a trovare il minimo riscontro. E ogni volta mi sentivo scandagliato dallo sguardo indagatore del paggio, il quale era venuto a reclamare la sua parte e ora, alle prime luci del giorno, lì sul campo vuoto, aspettava che io raccogliessi il guanto e allontanassi la sciagura incombente su di lui.”


Fotogrammi di Theresienstadt (pp. 267-268)


Durante il concerto la macchina da presa inquadra da vicino le diverse persone, fra le altre anche un vecchio signore, la cui testa grigia dai capelli tagliati corti occupa la metà destra dell’immagine, mentre nella metà sinistra, un po’ sullo sfondo e spostato verso il bordo superiore, appare il viso di una donna più giovane, quasi indistinguibile dall’ombra nera che la circonda, ed è anche per questo che io sulle prime non l’avevo assolutamente notata. Intorno al collo, disse Austerlitz, porta una catenina a tre giri sottili che risalta appena sul suo abito scuro e accollato, mentre fra i capelli, da una parte, ha un fiore bianco. Esattamente così mi immaginavo l’attrice Agáta sulla base dei miei deboli ricordi e degli altri scarsi riferimenti che oggi posseggo, esattamente questo – penso – è il suo aspetto, e continuo a guardare quel viso nel contempo estraneo e familiare, disse Austerlitz, faccio scorrere all’indietro la pellicola, volta per volta, e vedo l’indicatore del tempo nell’angolo a sinistra in alto dello schermo, i numeri che le nascondo in parte la fronte, i minuti e i secondi, da 10:53 a 10:57, e i centesimi di secondo, che girano talmente in fretta da non poter essere né decifrati né trattenuti.”

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