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Vivere fra l'amore di sé e l'amore per gli altri - Nietzsche, Beckett, Alvi





lunedì 31 marzo 2008 legge Vittorio Riguzzi
Tre autori, tre nazionalità, culture, pensieri lontani. Eppure accomunati dalla ricerca di un senso al paradosso della condizione umana, l’intima distanza tra il mondo soggettivo e la realtà circostante, tra la poesia dello spirito e la concretezza della ragione. Ma soprattutto impegnati ad indagare, attraverso la filosofia o la letteratura, sull’inconciliabile conflitto tra l’amore di sé e l’esigenza dell’amore per gli altri. Di queste contraddizioni, il ‘900 è stato forse il massimo protagonista.
Vittorio Riguzzi è specializzato in filosofia della scienza e in teoria dell’arte contemporanea. Ha studiato in Inghilterra e negli Stati Uniti. E’ coautore di una storia della filosofia in tre volumi e di altri saggi sull’arte, la filosofia e la letteratura. E’ fondatore della
rivista culturale Dianoia e ideatore del “Teatro Filosofico”. Dopo innumerevoli docenze universitarie, ha fondato l’associazione culturale Mondotre di Bologna di cui è attualmente presidente.



Vivere fra l'amore di sè e l'amore per gli altri.
Fede, insuccessi e speranza di un progetto umano
Un origami testuale-sonoro
di Vittorio Riguzzi

Tre autori, tre nazionalità, culture, pensieri lontani. Eppure accomunati dalla ricerca di un senso al paradosso della condizione umana, l’intima distanza tra il mondo soggettivo e la realtà circostante, tra la poesia dello spirito e la concretezza della ragione. Ma soprattutto impegnati ad indagare, attraverso la filosofia o la letteratura, sull’inconciliabile conflitto tra l’amore di sé da una parte con la sua egotica euforia, il suo estatico narcisismo e la conseguente, abissale solitudine, e dall’altra l’esigenza dell’amore per gli altri come via di liberazione e riscatto per la stessa umanità. Di queste contraddizioni, il ‘900 è stato forse il massimo protagonista della storia. In questo secolo, nello specchio della cultura, di cui Nietzsche dà qui una splendida, sottile definizione, gli uomini hanno conosciuto le promesse entusiastiche e l’ombra nichilista dell’inidividualismo, ma anche - nell’abisso dei propri errori - l’autenticità del messaggio d’amore e solidarietà.
Da: SUL PATHOS DELLA VERITÀ
di Friedrich W. Nietzsche, tratto da Verità e Menzogna e altri scritti giovanili, Newton Compton Editore 1988 (tr. Sergio Givone, riv. da Vittorio Riguzzi)
Soundtrack theme:
Gabriel Fauré: Cantique de Jean Racine, Op. 11 5’24”
Commento
< FAURE’ >
Davvero la gloria non è che il boccone più squisito del nostro amor proprio? Essa, come brama, è certo propria degli uomini più rari e anzi solo dei loro momenti più rari. Sono i momenti delle illuminazioni subitanee, nei quali l'uomo stende il braccio imperioso quasi dovesse creare il mondo, attingendo luce da se stesso e irraggiandola intorno a sé. Qui lo compenetra la felice certezza che ciò che lo innalzò e lo tradusse in tanta profondità, cioè l'altezza di quell'irripetibile sensazione, non può essere precluso a nessuna posterità; nell'eterna necessità di queste rare illuminazioni per tutti coloro che verranno, l'uomo riconosce la necessità della sua gloria; l'umanità d'ora in avanti avrà bisogno di lui, e come quel momento d'illuminazione costituisce la quintessenza e la totalità della sua natura più propria, così egli crede, come uomo capace di tali momenti, d'essere immortale, e quindi si spoglia e abbandona alla caducità tutto il resto, in quanto cascarne, marciume, vanità, bestialità, ossia come pleonasma. Qualsiasi cosa che si dissolve e perisce noi l'osserviamo con animo astioso, spesso con senso di stupore, quasi che in ciò sperimentassimo qualcosa che in fondo è impossibile. Un grande albero si schianta con nostro disappunto e una montagna che frana ci angoscia. Non c'è notte di san Silvestro che non ci faccia sentire la contraddizione tra ESSERE e DIVENIRE.
Che però un attimo della più alta pienezza cosmica si spenga come una fugace scintilla, per così dire senza posterità né retaggio alcuno, ciò ferisce nel modo più violento l’uomo morale. Il suo imperativo piuttosto suona: quel che è stato una volta dev'essere eternamente, affinché il concetto «uomo» si riproduca più bello. Che i grandi momenti formino una catena, che questa, come una catena di monti, leghi l'umanità attraverso i millenni, che per me quanto vi fu di più grande nel passato sia ancora grande e che il presentimento della fede nella gloria bramata si compia, ecco il pensiero fondamentale della cultura.
Nel bisogno che il grande sia eterno, divampa la terribile lotta della cultura; giacché tutto il resto, che pure vive, risponde no! Ciò che è abituale, piccolo, comune, ciò che riempie tutti gli angoli del mondo come pesante aria terrestre che tutti siamo costretti a respirare, avvolge ciò che è grande e, facendo impedimento, smorzando, soffocando, offuscando, ingannando si getta sul cammino che ciò che è grande deve compiere per giungere all'eternità. È un cammino che passa attraverso menti umane! Attraverso menti, cioè, di povere creature che vivono poco, che sono sovrastate dagli stessi bisogni, sempre di nuovo sono in balia delle stesse necessità e con fatica allontanano da sé la rovina per un breve tratto di tempo. Vogliono vivere, vivere in qualche modo - ad ogni costo. Chi potrebbe sospettare in loro quella faticosa competizione che è la corsa con la fiaccola, attraverso la quale soltanto ciò che grande può tramandarsi?
Eppure si desta sempre qualcuno che di fronte a questa grandezza, si sente felice come se la vita dell'uomo fosse una cosa magnifica
e
come se il più bel frutto di questa pianta amara dovesse consistere nel sapere che una volta è passato attraverso questa esistenza
un uomo stoico e altero,
< VOCE FUORICAMPO: “Eraclito…?” >
un altro capace di profondità,
< VOCE FUORICAMPO: “Buddha…?” >
un altro di misericordia,
< VOCE FUORICAMPO: “Cristo…?” >
< insieme fino a “cioè” > e tutti hanno lasciato un unico insegnamento, cioè che vive nel modo più bello questa vita colui che non la tiene in nessun conto.
Il fatto è che l'uomo comune prende questa spanna di essere in modo così cupamente serio, mentre quelli, nel loro viaggio verso l'immortalità, seppero portarsi sul piano di una risata olimpica o almeno d'un sublime sarcasmo; spesso anzi scesero nella tomba con ironia - e del resto cosa c'era in loro, da sotterrare?
(Tra questi cavalieri bramosi di gloria i più audaci, quelli d credono di trovare le loro insegne inscritte in una costellazione, sono da ricercarsi tra i filosofi).

Da: STIRRINGS STILL
di Samuel Beckett, tratto da Stirrings Still, publisher: North Star Line, 1991 (tr. Vittorio Riguzzi)
Soundtrack theme:
Daniel Lanoisarr /Brian Eno: The Secret Place - 3’27”
Brian Eno: Matta - 4’14”
Commento
< LANOISARR / ENO > fino alla fine del commento.
Una notte mentre sedeva a tavola mento in mano si vide alzarsi e andarsene. Una notte o un giorno. Perché quando la sua luce se ne andava lui non restava al buio. Allora una qualche luce gli veniva dal finestrone. Sotto il quale era lo sgabello su cui lui fintanto che voleva o che poteva era solito montare per vedere il cielo.
Come mai non si affacciasse per vedere cosa c’era sotto era dovuto forse al fatto che la finestra non era fatta per aprirsi o che lui non poteva o non voleva aprirla. Forse lui sapeva fin troppo bene cosa c’era sotto e non desiderava vederlo di nuovo. Per cui si limitava a starsene lì staccato da terra e guardare attraverso il vetro obnubilato il cielo senza nubi. La sua fioca immutabile luce diversa da qualunque altra luce che lui ricordasse dai giorni e dalle notti in cui il giorno seguiva da presso la notte e la notte il giorno. Quella luce esterna allora quando la sua se ne andava diventava la sua unica luce finché a sua volta anch’essa se ne andava e lo lasciava al buio. Finché a sua volta anch’essa se ne andava.
Lontano un orologio batteva le ore e le mezz’ore. Proprio come quando Darly fra gli altri una volta era morto abbandonandolo. Rintocchi ora chiari come se portati da un vento ora fioco sull’ora immota. Grida lontane ora fioche ora chiare. Mento in mano con la mezza speranza che quando fosse scoccata l’ora la mezz’ora non l’avrebbe fatto e con una mezza paura che non l’avrebbe fatto. Lo stesso allo scoccare della mezz’ora. Lo stesso quando le grida un attimo cessavano. O semplicemente con la curiosità. O semplicemente in attesa. In attesa di sentire.
C’era stato un tempo in cui lui alle volte alzava la testa quanto basta per vedere le mani. Per quanto fosse dato di vederle. Una posata sul tavolo e l’altra sull’una. In riposo dopo tutto ciò che avevano fatto. Alzava la sua testa d’un tempo un’attimo per vedere le sue mani d’un tempo. Poi tornava a posarla su quelle per farla riposare. Dopo tutto ciò che aveva fatto.
< ENO > fino a “ancora e sempre”
Una notte o un giorno allora mentre sedeva a tavola mento in mano si vide alzarsi e andarsene. Dapprima alzarsi e restare aggrappato al tavolo. Poi sedersi di nuovo. Poi di nuovo alzarsi e restare di nuovo aggrappato al tavolo. E poi andarsene. Cominciare ad avviarsi. Su invisibili piedi cominciare ad avviarsi. Così lento che soltanto il cambiamento di posto stava a dimostrare che era andato. Come quando spariva solo per riapparire dopo in altro posto. Poi spariva di nuovo solo per di nuovo riapparire dopo in un altro posto ancora. Un altro posto al posto dove sedeva a tavola mento in mano. Stesso posto e stesso tavolo di quando Darly ad esempio era morto abbandonandolo. Di quando anche altri a loro volta e prima e dopo. Di quando anche altri a loro volta sarebbero morti abbandonandolo finché anche lui a sua volta. Mento in mano con la mezza speranza che quando fosse sparito di nuovo non sarebbe di nuovo riapparso e con una mezza paura che non l’avrebbe fatto. O semplicemente con la curiosità. O semplicemente in attesa. In attesa di vedere se sarebbe o no riapparso. Lasciandolo o no di nuovo solo in attesa ancora e sempre di niente.

WILD BILL CODY, internato
di Geminello Alvi, tratto da: Uomini del Novecento, Adelphi 1995
Soundtrack themes:
Dimmu Borgir: Fear and Wonder – 2’48”
Samuel Barber: tratto da Agnus Dei (Choir Version) –
Commento
Alla fine del 1943 la ventenne recluta dell'esercito degli Stati Uniti George Ritchie veniva, assieme ad altre migliaia, addestrata in un campo militare del Texas. Marciava, giocava a carte, era banalmente felice d'essere com'era; impaziente di andare in guerra per sistemare a dovere gialli e hitleriti. Ma, per quanto non fosse fragile e mai si fosse davvero seriamente ammalato, un giorno iniziò a sudare e a non poter più marciare. Si accorsero, troppo tardi, che era una polmonite. Finì su una branda, e quasi stava per morire. Una notte gli parve persino d'uscire «a clessidra» dal suo corpo, e quando poi vi tornò dentro si trovò accanto, in immagine, il Cristo che gli sorrideva. Guarì; ma cambiò carattere e si vide molto invecchiato.
< DIMMU BORGIR > fino alla fine.
Sbarcò in Normandia; scoprì le brutture con cui, inevitabile, la guerra rompe e scarnifica i crani e le carni. Nel maggio del 1945 con un gruppo di medici arrivò in un paesino tedesco vicino a Wuppertal. Ammirò il paesaggio fino a una spianata polverosa tra gli alberi, dov'era un campo di concentramento. C'erano là uomini che pesavano trenta chili e.parevano marionette appese: erano prigionieri russi, zingari, francesi, molti deportati ebrei. Vagavano, muti, e agitavano le braccia nell'aria senza forza, ma avvinghiandosi tra loro come fanno quelli che affogano muovendo ritmici il collo. E s'affollavano intrecciandosi l'uno sopra l'altro: così morivano, anche solo per aver bevuto una minestra. In russo, e in una babilonia d'altre lingue, chi li sorreggeva litigava per loro. Neppure badavano alle guardie tedesche che, con un bracciale della polizia militare americana, ordinavano il traffico. Ovunque un odore insopprimibile di putrefazione, e trattori che accatastavano i cadaveri in fosse comuni per evitare epidemie. Ritchie fu destinato in un ufficio a riordinare gli archivi; e da dietro una finestra vide vagare un tale. I soldati americani l'avevano chiamato Wild Bill Cody per quanto girovagava mai esausto. Era un ebreo polacco magro come gli altri deportati, e però non camminava storto, neppure guardava al modo degli altri. La sua positura era ben eretta, gli occhi ancora presenti, le energie inesauste. Parlava cinque lingue; girava facendo da interprete; aiutò anche il soldato Ritchie a ricostruire gli elenchi dei vivi e dei morti. Ritchie si stupì che Bill Cody, pur ridotto com'era, si stancasse addirittura meno di lui; e pensò che fosse stato deportato da pochi mesi. Ma un giorno, scoprendo negli archivi, scoprì il nome polacco sotto cui era registrato il suo arrivo alla fine del 1939. Per sei anni era sopravvissuto alla fame, alle baracche senz'aria e alI'«animalizzazione». Ancora più si sorprese che, fossero russi, latini, zingari o norvegesi, tutti lo trattassero da amico. E proprio a Bill Cody, anzi, demandavano d'arbitrare i litigi che degeneravano sovente in risse tra razze. Bill il Selvaggio era, come Buffalo Bill, la risorsa estrema di cui nelle situazioni più intricate gli americani potevano fidarsi. [«Bill is our greatest asset» sentenziava definitivo il colonnello medico.] L'enigma del magrissimo uomo mai esausto, capace di quietare tutti, durò fino a quando un giorno il soldato Ritchie disse la sua sui pestaggi e le vendette. Spiegò a Bill che molti là dentro non solo avevano sofferto loro, ma avevano perduto anche i familiari: così era naturale che non perdonassero. Wild BilI Cody lo contraddisse, con la sua voce un po' di gola narrò la sua storia.
< BARBER >
«Vivevamo nel ghetto ebreo di Varsavia ... » - parlava lentamente - «io, mia moglie, le mie due figliolette colle trecce, gli altri miei tre figli maschi più piccoli. I tedeschi delle SS arrivarono nella nostra strada, ci ordinarono contro un muro e iniziarono a sparare. Urlai e piansi, perché ammazzassero anche me lì accanto ai miei in tutto quel sangue. Ma glielo dissi in tedesco. E allora pensarono bene di deportarmi in un lager» Fece una pausa ... come se rivedesse moglie e cinque figli davanti a sé.
« Dovetti decidere. Concedermi d'odiare i soldati che avevano fatto questo? Fu una decisione semplice. lo ero allora avvocato. Avevo visto come l'odio riduce i corpi e le menti degli uomini. L'odio aveva già ucciso le sei persone che contavano per me di più al mondo. Decisi che avrei trascorso gli anni che sarebbero rimasti, pochi o molti, amando chiunque avessi incontrato».
Di Wild Bill Cody non sappiamo cosa accadde poi. Ritchie invece divenne medico. Nel 1978, poco prima della pensione, scrisse uno stranissimo libro, autobiografico: Return from Tomorrow. Tra l'altro, racconta che in quel lager, e ammalato di un'esperienza che era peggio della guerra, prese la curiosa abitudine di guardare in viso gli uomini finché gli tornava davanti il viso di Cristo.
Bill Cody, e Ritchie, importano perché non si diede per loro altro mondo se non quello che essi vollero.