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Menzogna e sortilegio e Aracoeli - Elsa Morante





lunedì 07 aprile 2008 legge Sabina Urbinati
La realtà esterna è fatta di verità molteplici, ma è priva di un ordine: l’artista ha il compito di darle ordine.
L’opera d’arte è un microcosmo che tesse in un’unione perfetta ragione e immaginazione, consentendo di riscattare “la città umana dai mostri dell’assurdo”, come scrive Elsa Morante. E solo passando consapevolmente attraverso il male comune, l’artista può (e deve) assumersi l’impegno morale di mostrare al prossimo la verità poetica della realtà.
Anche quei romanzi della Morante considerati meno politici, perché descrivono mondi privati e ambienti familiari, in realtà sono profondamente intrisi di quella critica sociale alle istituzioni familiari e borghesi che deve caratterizzare l’opere d’arte “realista”, e quindi sovversiva. E le donne e il loro corpo, luogo dicotomico di erotismo e maternità, sono le vittime destinate della famiglia con le sue regole istituzionalizzate.


Elsa Morante  Menzogna e sortilegio (da Opere, Milano, Mondadori 1996)
pp. 812-816
Si era in luglio, l’aria nella città era polverosa e soffocante, ma mia madre non soffriva più del gran caldo come al principio dell’estate. Guarita dall’inerzia che la spossava durante le lunghe ore di luce, parve a un tratto, come le piante dei climi aridi, attingere nell’aridità la propria esuberanza, la propria forma irregolare e fantastica. Divenne preda a una costante animazione, che non si volgeva ad alcuna attività proficua (ella, anzi, ancor più di prima, trascurava ogni suo dovere e viveva nell’ozio), e destava in chi la vedesse un sentimento quasi doloroso. Tutti conoscono l’affetto mescolato di pietà che si prova dinanzi al fervore eccessivo di certi fanciulli, soli e disarmati nel freddo regno degli adulti….
…Alla mattina, s’infilava al posto della camicia da notte una semplice sottoveste, o la vestaglia di cotone leggero, e fino all’ora di dormire s’aggirava discinta, coi capelli scomposti come al momento che s’era levata dal letto, i piedi nudi nelle ciabattelle consunte. Il suo fosco, ombroso pudore dinanzi a mio padre, parve d’improvviso caduto, ed ella non ebbe più alcun ritegno di spogliarsi e di acconciarsi in presenza di lui, ma anzi ostentava in questi atti una noncuranza provocatrice, e un languore maligno, quasi un piacere della spudoratezza. In verità, fin da piccolina io m’ero avvezza a vederla spogliarsi con libera semplicità e senza vergogna quando eravamo sole noi due; ma tale materna costumanza, che a me pareva naturale e eterna, non rassomigliava in nulla a questo suo nuovo comportamento. Allora, come già vi dissi, ella usava comportarsi innanzi a me con la medesima placidità distratta che se fosse stata sola, e non si nascondeva alla mia innocenza come non ci si nasconde agli occhi degli innocenti animali; a me il suo corpo appariva casto e venerabile come una statua consacrata né avrei potuto mai rassomigliarlo a quello delle altre donne. Adesso, invece, mentre ad usci spalancati, in camera, si toglieva l’abito e si sganciava il busto; o, seduta mezzo nuda sul divano del salotto, si infilava le calze quasi indugiando, aveva pur senza guardarci, nelle sue pupille scure un’espressione accesa e sfrontata con cui sembrava rinnegare il suo sposalizio, la sua maternità, e avere a scherno la nostra devozione. Ostentava sovente le sue bianchissime spalle, e il petto mezzo scoperto, con l’aria di dire a mio padre: “vedi quanto son bella. E sono amata. E ti odio”. E spesso prorompeva senza ragione in risate morbide e squillanti in cui mi pareva di riudire, esclamate in mille toni, le parole: “Povera Elisa! Povera Elisa! Povera Elisa”.
Dimentica del rispetto dovuto a se stessa e al proprio orgoglio, sembrava gustare una sorta di gioia torbida nell’impartire ordini a mio padre, come a un servo, e nel vederlo ubbidire. Egli le ubbidiva sempre. Una sera, al ritorno da uno dei nostri soliti assurdi vagabondaggi, trovammo mio padre già in casa; e lei, tutta accaldata, ansante, appoggiandosi col gomito al ripiano della credenza, gli si rivolse con una voce ilare e volgare che non pareva la sua, comandandogli di slacciarle le scarpe. Egli si dispose subito ad ubbidirle, chinandosi ai suoi piedi; quando d’un tratto, chi sa perché, la vista di lui destò in mia madre un riso prolungato, folle, ch’ella fu incapace di calmare sebbene si lagnasse di provarne un acuto dolore al pretto: e che rassomigliava non tanto a uno sfogo di gaiezza, quanto a una crisi nervosa. Così ridendo e lagnandosi nel tempo stesso, come in preda a una sofferenza, mia madre si abbatté a sedere col capo riverso, scuotendosi tanto che le forcine le caddero dalla crocchia; intanto ella si brancicava la camicetta e tentava di liberarsi dal busto che la opprimeva. E come mio padre ed io venimmo in suo soccorso, poggiò sulla spalliera della sedia il volto chiazzato di rossore, dalla bocca ilare, sogguardandoci con occhiate oblique e sonnolente. Ogni tanto, si volgeva trasognata alla mia voce febbrile, che la supplicava di tornare in sé. Io temevo infatti, inspiegabilmente, che quella risata la uccidesse gettandola nell’inferno, come un peccato mortale; e non riconoscevo più la mia bella signora in quella donna sguaiata e pazza.

pp. 316-319
Naturalmente, si sentiva nei suoi discorsi l’ignoranza della contadina, ma c’era in essi un che d’immaginoso e di strano: ella parlava in certi momenti come un poeta. Se la sua parente la rimproverava, non di rado rispondeva male, magari con parolacce, essendo iraconda; e, se percossa, piangeva un poco, ma presto dimenticava i colpi e le lagrime, ricominciando a fare la pazza.
Era di persona grande, non ancora proprio grassa, ma assai florida e di robusta ossatura. La pelle, sebbene alquanto lentigginosa, era luminosa e fresca, e tutta coperta d’una sottile lanugine dorata. Aveva capelli non molto lunghi, ma foltissimi, ricciuti, d’un color castagno vicino al rosso, la bocca un poco grande, vermiglia e sempre ridente, coi suoi dentini bianchi, le guance rotonde. Le sue gambe e le sue braccia erano piuttosto tozze e grossolane, ma in questa lor forma goffa c’era qualcosa di affettuoso, tale quasi da commuovere. La cosa più bella, però, della sua bella persona, erano gli occhi, di sguardo per lo più mansueto come quello d’un vitello, di luce sfavillante e cordiale. Ella era curiosa, ma non pettegola; pigra e piuttosto ghiotta. Era avida, e perfino avara, nel senso che le piaceva d’accumulare; ma nello stesso tempo amava spendere, non sapendo rinunciare ai piaceri. E sebbene d’indole egoista, era capace, nell’impeto, di sacrificarsi.
A due tentazioni Rosaria non sapeva resistere: la prima erano le carezze. Non rispondeva al vero quanto credeva Francesco, che ella si fosse traviata a causa della inesperienza e della miseria. In verità, come certi fiduciosi animali domestici, per istinto ella si abbandonava alle carezze, e con gratitudine le assecondava. Si accorgono forse gli animali, nel loro cuore semplice, se chi li vezzeggia è brutto, o malvagio, o altrimenti spregevole? Distinguono il povero dal ricco? il giovane dal vecchio? No di certo; basta a quei voluttuosi, per la loro gioia, che il bacio e le blandizie siano gentili. Così era fatta Rosaria; e dovunque, dimentica, ella trovava il suo piacere.
Prima ancora di venire in città, ella non ignorava le carezze e i baci. Sebbene vivesse in una casupola isolata in mezzo alla montagna, già, in segreto, ella aveva conosciuto gli amori di contadini suoi coetanei, e quelli d’un pastore adulto che passava sui monti solo pochi mesi. Non s’era, tuttavia, innamorata mai; giacché, per il suo carattere vanitoso e fantastico, pensava sempre agli uomini della città, esaltandoli con la mente.
La seconda tentazione a cui non sapeva resistere, erano i regali. Poiché molti erano i suoi vizi, vanità, gola, lussuria, infinito era il numero dei suoi desideri, ed era assai facile sedurla con le offerte. Bastava il miraggio d’un dono, anche modesto, perché ella cedesse; ma non di rado si dava per niente…
…Così Rosaria iniziò la sua vita disonesta. Ma gli uomini che incontrava in quei primi tempi erano viaggiatori di poco conto, operai, guardie di questura o piccoli impiegati. Si dava talvolta per una cena all’osteria, per un paio di scarpette, per una collana di finte perle. Ancora ignorava il lusso, le passeggiate in carrozza, i quartieri eleganti; ma i suoi poveri piaceri e gingilli le parevano grandi e splendidi. Un bicchierino di mistrà o di acquavite le bastava per inebriarsi; e allora cantava, rideva, si spogliava di tutte le vesti, come una ballerina di caffè. E diceva nel suo dialetto, con voce cantante, parole affettuose, o sguaiate, o strane. Tutti quegli effimeri amanti le piacevano, sebbene non ne amasse nessuno. Con tutti era materna e appassionata; ma pochi di questi amori duravano più di una sera. In realtà, era come se ella avesse un solo amante: e costui si chiamava Desiderio. Era il suo desiderio di baci, di vizi e di follia che prendeva corpo ora nell’uno ora nell’altro di quei brevi amori.

Elsa Morante Aracoeli (Torino, Einaudi 1982)
pp. 118-120
La mattina, a Totetaco (dopo che l’Arcangelo San Gabriel aveva spalancato con la spada il sipario della luce) io venivo svegliato dalla voce ridente di Aracoeli che mi solleticava sotto il mento dicendo: Mamola mamola mamola! Poi, mandavamo insieme un bacio verso il quadro della Macarena, e ciò bastava a contentare Dio fino alla preghiera serale. Questa consisteva tutta in due parole: “Deo gratias” (perché Aracoeli non aveva pazienza per le recitazione troppo lunghe) alle quali facevamo seguire il nostro solito frettoloso bacetto sulle punte delle dita. E il nostro unico bacio, secondo le spiegazioni di Aracoeli, toccava a tre persone (Jesus, il padre e la madre) che in realtà ne erano una: Dio. Difatti Dio era Jesus, ma era anche il padre di Jesus e anche sua madre. Dio era un bambinetto, e al tempo stesso una gransignora in abiti di gala, e anche un uomo barbuto incoronato di spine (le stesse riconoscibili, al buio, in forma di stelle).
Simili fenomeni sacri non urtavano nessuna mia logica, e il dogma della trinità non mi tornava astruso. Per me fra l’unità e i suoi multipli non esistevano confini precisi, così come ancora l’io non si distingueva chiaramente dal tu e dall’altro, né i sessi uno dall’altro. Per tutto il tempo di Totetaco, io non ebbi nozione di essere maschio, ossia uno che mai poteva diventare donna come Aracoeli.
La notte, io dormivo annidato fra le sue braccia, godendo le sue morbidezze e i suoi tepori come un pulcino gode le piume della cova. E la diversità delle sue membra, accosto alle mie, si dava al mio senso beato come un atto sostanziale della maternità: un adempimento di là da ogni domanda. A me, le sue nudità di donna rimanevano sempre nascoste; perfino, essa badava, nell’allattarmi, a non troppo denudarsi le mammelle (il più caro oggetto della nostra intimità, che spesso, anche svezzato, io ricercavo ansiosamente, annaspando, attraverso la tela delle sue lunghissime camice da notte). Sulle forme del suo corpo, difatti, regnava una specie di comandamento rigoroso: esse dovevano tenersi coperte. Certe immagini del passato, col loro movimento nel tempo, chiederebbero una musica, al posto delle parole: però volendo chiamare a nome, uno per uno, i temi che musicavano la mia madre-ragazza, il tema supremo, in cui la riconosco (e m’innamora ancora oggi) si chiamerebbe: pudore…
…Forse a mio padre (a lui solo) essa si mostrava nuda? Però io, conoscendola, sono certo che i suoi sensi erano casti come quelli di una bambina ignara. Per lei la copula era una specie di atto magico – un tributo dovuto allo sposo, dell’ordine dei bacetti dovuti a Dio. Essa si lasciava a mio padre non per piacere dei sensi, ma per consentimento e fiducia. Tutto quanto le veniva da lui le pareva benefico e, in certo modo, santo. Il loro amore le trasfigurava non solo i luoghi e i tempi dove lui le stava vicino, ma anche gli intervalli dell’assenza. Lui somigliava all’Angel de la Guarda che, pure non veduto, fedele stende sui fedeli le sue molte ali trasparenti.
L’esistenza di Aracoeli a Totetaco si nutriva, come quella di un albero, di due sostanze vitali: una linfa montante che le sue radici bevevano dalla terra, e una tensione verso l’energia solare luminosa. La prima, era la mia presenza; e l’altra, era l’attesa di mio padre; ma di questa, come del segreto proibito della mia nascita, a me non doveva trapelare nulla.
pp. 249-250
Essa ormai non aveva più nessuna scelta; sotto gli accessi rabbiosi del suo morbo si dava nelle braccia di qualsiasi uomo, senza guardarne la classe né il modo né la figura, ma soltanto il sesso. La sola condizione a cui non trasgrediva, nonostante tutto, era che l’uomo fosse un ignoto di passaggio, straniero al nostro palazzo e alla nostra cerchia. E certo anche per questo rifuggiva più che mai dai conoscenti e dai vicini, e dalle riunioni familiari e luoghi di vacanza istituiti, buttandosi alla ventura nelle vie come una povera meretrice clandestina. E io mi stringevo a lei come un vitellino alla mucca, per lui sempre odorante del suo latte divino. Di qui si nutriva da sempre il fulgore dei suoi grandi aloni concentrici, dove ogni senso presente mi si sperdeva, e ogni atto e moto suo – perfino le sue crisi oscene – trovava per me una destinazione sacra. Ma a quest’ora le sue care mammelle s’erano prosciugate, e occulte mandibole lavoravano con ferocia nel suo ventre oscuro.
Mi chiedo se in quelle crisi – e prima, e dopo – un qualche discorso, sia pure rudimentale, si svolgesse fra lei stessa e il suo proprio corpo. Ma la questione è vacua. Il nostro corpo, difatti, è straniero a noi stessi quanto gli ammassi stellari o i fondi vulcanici. Nessun dialogo possibile. Nessun alfabeto comune. Non possiamo calarci nella sua fabbrica tenebrosa. E in certe fasi cruciali, esso ci lega a sé nello stesso rapporto che lega un forzato alla ruota del suo supplizio. Rammento di avere non so quando sorpreso Aracoeli accasciata in silenzio su una panchetta dell’ingresso, con lo sguardo ingrandito che domandava anche a me, là davanti: “Ma che mi succede? Che cosa è mai, questa che mi succede?” Nei suoi occhi, sotto la luce opaca, il nero morato delle iridi stingeva sul bianco della sclera, smorzandosi in un povero colore d’innocenza, grigio-azzurrino che ricordava la piuma di certi colombi.
Il suo morbo ossessivo tanto più doveva straziarla perché inconfessabile. A tutti incoffessabile, e – peggio che a tutti gli altri – a mio padre, il solo suo amico. Una sera, la udii singhiozzare disperatamente nella camera matrimoniale, dove stava rinchiusa assieme a lui: “Picchiami!” gli gridava, “Pestami sotto i piedi! Rompimi le ossa! Ammazzami!” Non distinguevo le risposte sommesse di mio padre, simili piuttosto a carezze che a parole. E più lei si accaniva nella sua pretesa disperata, più la voce di lui si impietosiva, trepida e carezzante…
“Matame! con questa manecita tua…dulce. Tu sei bello come el Redentor! Io sono indigna, fea! Sono maledetta! Pestame sotto la suela! Matame…matame….!
“Ma che dici, amore mio?”
pp. 269-272
Pure nel suo semplice dire: “andiamo andiamo” essa aveva ostentato un tono bizzarro, fra di capriccio e di bestemmia, o addirittura di delitto. E per quanto si muovesse con passi stenti e molli, aveva preso un’aria teatrale, da congiurata, nell’avanzare verso la chiesa al mio fianco, ma senza più tenermi la mano.
Se ripenso a quella nostra “marcia fatale”, per poco non sorrido della nostra doppia, gemella futilità. Non so invero, fra noi due, chi fosse più infante: se io, che ineluttabilmente guardavo indietro il carrettino dei gelati; o lei, persuasa – io m’immagino – che la Chiesa tutta quanta, dal Santo Padre in Vaticano, alle Semprevergini sospese nei firmamenti, su fino al triplice scanno di Dio, dovesse sobbalzare alla minacciosa protesta di Aracoeli Munoz Munoz.
Prima di varcare l’ingresso, essa si fermò a tergersi un poco il sudore, di cui grondava; e lo fece con gesti violenti delle mani, a strappi, come andasse ributtando da sé un’acqua battesimale, che ormai le ripugnava come un’acqua sporca.
Al passaggio della luce chiara di fuori, nell’interno semibuio della chiesa pareva già notte. Entrati in chiesa, lei non si piegò nella solita genuflessione; e anch’io me ne rattenni, per imitarla. Poi, senza affatto sostare all’acquasantiera, ci addossammo, in piedi, contro una parete della navata verso il fondo. Secondo il cerimoniale sacro – e da noi sempre rispettato – per il quale i maschi devono scoprirsi il capo e le femmine coprirselo, io, d’istinto, prima ancora di entrare mi ero tolto il berrettino. Ma lei, pure avendo portato con sé un velo che seguitava a ciancicare fra le dita, rimase a capo scoperto, come un’eretica; e trionfando sulla propria stanchezza si aderse, dritta e rigida, al modo di una piccola Maestà. Non si segnò, né si unì al coro delle altre voci che rispondevano al prete; si teneva muta, fissa e imbronciata nel suo pallore di bambina inferma. Poi, venuto un punto della liturgia che tutti i fedeli s’erano messi in ginocchio, d’un tratto io la vidi mutar colore. La faccia le si coprì di un rossore denso che alla poca luce di un altarino là presso pareva una larga bruciatura violacea. E in uno scatto oltranzoso andò a sedersi sul banco più vicino, dove pronto io la seguii. Eravamo i soli seduti, noi due, dentro la chiesa, dove ognuno si teneva in ginocchio. Né lei dava segno di mutare la sua posa; anzi, la ostentava sforzando le vertebre del dorso, e sguardava in direzione dell’altare con la protervia di una gatta che si arruffa contro un cane immenso. Ora, la sua pretesa poteva mostrarsi perfino comica, non fosse stato quel suo terribile rossore, febbroso e dolorante come un esantema.
Io m’ero avvisato ormai che per mia madre questo era un giorno di trasgressione definitiva. Allora, fiero di esserle compare, mi tolsi di testa il berrettino; e in più, poggiai disinvolto i miei due piedi, calzati di sandaletti, contro l’inginocchiatoio a noi di fronte….
…due sono i ricordi veri e propri sui quali, in realtà, lungo il séguito degli anni, ha continuato a sopravvivere nella mia coscienza quella famosa funzione del Sabato. Due soltanto: e proprio quelli, oggi, si presentano ultimi e confusi al mio pensiero, incapaci di ritrovare un loro posto preciso nella trama. Il primo, è un coro di voci vecchie, ma risonanti per tutta l’altezza della chiesa. Recitavano le lodi meravigliose di Nostra Signora:
Mater purissima
Mater inviolata
Causa nostra laetitiae
Rosa mystica
Domus aurea
Ianua coeli
Stella matutina
Regina angelorum
Regina martyrum
Regina pacis,
e io fantasticai che fosse tutta una poesia gridata in onore di mia madre.
E il secondo (da me già rievocato casualmente altrove) è la faccia di Aracoeli, quale mi apparve (per un effetto d’ombre, forse, o un abbaglio della vista) contro i lumi di un altarino rosseggiante alle sue spalle. Con la fronte segnata trasversalmente dai sopraccigli come da uno sfregio; e i grandi occhi sprofondati nel nero delle occhiaie, da sembrare due orbite vuote.