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Free Culture - Lawrence Lessig





lunedì 17 marzo 2008 legge Stefano Clò
La creazione e diffusione di arte, idee e informazione hanno conosciuto due grandi cambiamenti in quest’ultimo decennio. Uno è tecnologico, l’altro è legale. Nuove culture di condivisione e partecipazione creativa emergono in una società dove internet annulla le distanze. Creare e diffondere diventa più facile e conveniente ma paradossalmente legalmente più difficile. Un problema di fondo forse esiste quando la legge è percepita distante dal senso comune di giustizia. E’ questo lo scenario che il testo di Lawrence Lessig ci mostra in maniera lucida e provocatoria; Free Culture è più di un interessante saggio sulla proprietà intellettuale, è il fondamento ideologico dei “Creative Commons”, la soluzione creativa che Lessig propone per conciliare giustizia e legalità nel mondo cibernetico.


Free Culture - Come i Media utilizzano la tecnologia e la legge per incatenare la cultura e controllare la creatività
di Lawrence Lessig

Il 17 dicembre 1903, su una ventosa spiaggia del North Carolina, i fratelli Wright dimostrarono, per una durata appena inferiore ai cento secondi, che un veicolo più pesante dell'aria, dotato di propulsione propria, era in grado di volare. Fu un momento entusiasmante e la sua importanza venne ampiamente compresa. Quasi immediatamente, ci fu un'esplosione d'interesse per questa nuova tecnologia del volo umano, e un'ondata di innovatori iniziò a costruire su di essa.
All'epoca in cui i fratelli Wright inventarono l'aeroplano, la legislazione americana sosteneva che il proprietario di un terreno ne possedeva di conseguenza non soltanto la superficie, ma tutta la terra al di sotto, fino al centro della terra, e tutto lo spazio al di sopra, “fino a un'estensione indefinita, verso l'alto” . Per molti anni, gli studiosi si erano chiesti come interpretare correttamente l'idea che i diritti sulla terra potessero estendersi fino al cielo. Ciò significava forse che si possedevano anche le stelle? Si potevano denunciare le oche per le continue e volontarie violazioni?
Poi arrivarono gli aeroplani, e per la prima volta questo principio della legislazione americana - profondamente innestato nella tradizione, e riconosciuto da gran parte dei maggiori studiosi di diritto del passato - divenne importante. Se il mio terreno arriva fino al cielo, che cosa succede quando la United ci vola sopra? Ho il diritto di vietarne il passaggio sulla mia proprietà? Mi è consentito firmare una licenza esclusiva con Delta Airlines? Possiamo organizzare un'asta pubblica per decidere il valore di tali diritti?
Nel 1945, queste domande divennero un caso federale. Quando Thomas Lee e Tinie Causby, contadini del North Carolina, iniziarono a perdere i polli a causa dei voli a bassa quota degli aerei militari (sembra che i polli volassero terrorizzati contro le pareti del granaio e morissero), i Causby sporsero denuncia sostenendo che il governo violava illegalmente la loro proprietà terriera. Gli aeroplani, naturalmente, non toccavano mai la superficie del terreno dei Causby. Ma se, come avevano sostenuto Blackstone, Kent e Coke, la proprietà raggiungeva “un'estensione indefinita, verso l'alto”, allora il governo stava violando tale proprietà, e i coniugi Causby volevano impedirlo.
La Corte Suprema accettò di esaminare il caso. Il Congresso aveva dichiarato pubbliche le strade dell'aria, ma se la proprietà di qualcuno si estendeva veramente fino al cielo, allora la dichiarazione del Congresso avrebbe ben potuto configurarsi come una “appropriazione” incostituzionale della proprietà senza compenso. La Corte riconobbe che “esiste un'antica dottrina secondo cui nel diritto consuetudinario, o sistema giuridico a ‘common law' , la proprietà di un terreno si estende fino alla periferia dell'universo”. Ma il giudice Douglas non aveva molta soggezione verso le antiche dottrine. In unico paragrafo, vennero cancellati centinaia di anni di leggi sulla proprietà. Così scrisse Douglas a nome della Corte:
[Tale] dottrina non ha spazio nel mondo moderno. L'aria è un'autostrada pubblica, come ha dichiarato il Congresso. Se ciò non fosse vero, ogni volo transcontinentale sarebbe soggetto a infinite denunce per violazione di proprietà. Il senso comune si ribellerebbe all'idea. Il riconoscimento di simili istanze private nei confronti dello spazio aereo intaserebbe queste autostrade, interferendo seriamente con il loro controllo e sviluppo nell'interesse pubblico, e trasferirebbe alla proprietà privata ciò su cui soltanto il pubblico può vantare diritti.
“Il senso comune si ribellerebbe all'idea.”
È così che normalmente funziona la legge. Spesso in modo meno brutale o intollerante, ma in definitiva è così che funziona. Lo stile di Douglas non dava adito a esitazioni. Altri giudici avrebbero blaterato per pagine intere prima di raggiungere la conclusione che Douglas racchiude in una sola riga: “Il senso comune si ribellerebbe all'idea”. Ma che occupi intere pagine o si risolva in poche parole, lo spirito peculiare del sistema di diritto consuetudinario, com'è il nostro, è che la legge si adegua alle tecnologie dell'epoca. E mentre vi si adegua, cambia. Concetti che erano solidi come roccia in un'epoca si riducono in polvere in un'altra.
O almeno, è così che succede quando non esiste alcun soggetto potente sull'altra sponda del cambiamento. I Causby erano semplici contadini. E, anche se, sicuramente, parecchi altri si trovavano nella loro situazione, disturbati dal crescente traffico nel cielo (sempre sperando che non fossero molti i polli che andavano a fracassarsi contro i muri), sarebbe stato assai difficile per i vari Causby del mondo unirsi per bloccare l'idea, e la tecnologia, a cui i fratelli Wright avevano dato i natali. I fratelli Wright avevano sputato gli aeroplani nel bacino dei memi tecnologici; l'idea si diffuse come un virus in una stia per polli; contadini come i Causby si trovarono circondati da “quel che appare ragionevole” sulla base della tecnologia che i Wright avevano realizzato. Potevano starsene nelle loro fattorie, con i polli morti in mano, agitando i pugni contro quelle stravaganti tecnologie quanto volevano. Potevano rivolgersi a qualche parlamentare o perfino sporgere denuncia. Ma alla fine avrebbe prevalso la forza di quel che sembrava “ovvio” a chiunque altro, la forza del “senso comune”. Non si sarebbe consentito al loro “interesse privato” di prevalere su un ovvio beneficio pubblico.
Edwin Howard Armstrong è uno dei geni inventori dimenticati d'America. Apparve sulla scena dei grandi inventori americani appena dopo i giganti Thomas Edison e Alexander Graham Bell. Ma il suo lavoro nel campo della tecnologia relativa alla radio fu forse più importante di quello di qualsiasi altro inventore nei primi cinquant'anni di vita di questo strumento. Aveva un'istruzione migliore di quella di Michael Faraday che, apprendista rilegatore di libri, aveva scoperto l'induzione elettrica nel 1831. Ma vantava la medesima intuizione sulle modalità operative del mondo della radio, e in almeno tre occasioni Armstrong inventò tecnologie profondamente importanti per il progresso della nostra comprensione di questo dispositivo.
Nel giorno seguente il Natale del 1933, gli vennero rilasciati quattro brevetti per l'invenzione più significativa - la radio a modulazione di frequenza (FM). Fino ad allora, gli ascoltatori disponevano di quella AM (a modulazione d'ampiezza). I teorici di allora sostenevano che la radio a modulazione di frequenza (FM) non avrebbe mai potuto funzionare, il che era vero nel caso di banda di spettro ridotta. Ma Armstrong scoprì che la radio a modulazione di frequenza in un'ampia banda di spettro poteva fornire un'incredibile fedeltà dei suoni, con un trasmettitore assai meno potente e con minori disturbi causati dalle scariche elettrostatiche.
Il 5 novembre 1935 diede una dimostrazione della tecnologia nel corso di una riunione dell'Institute of Radio Engineers all'Empire State Building di New York. Fece scorrere la manopola della sintonia lungo una sfilza di stazioni AM, fino a sintonizzarsi sulla frequenza di una trasmissione che aveva predisposto da una distanza di 17 miglia. La radio rimase muta, come fosse morta, poi, con una chiarezza che nessuno in quella stanza aveva mai sentito in un apparecchio elettrico, si udì la voce di un annunciatore: “Questa è l'emittente amatoriale W2AG di Yonkers, New York, che trasmette sulla modulazione di frequenza di due metri e mezzo”.
Il pubblico stava ascoltando qualcosa che nessuno aveva ritenuto possibile:
Un bicchiere d'acqua veniva riempito davanti al microfono in quel di Yonkers; il suono era quello di un bicchiere d'acqua che veniva riempito... Un foglio di carta fu arrotolato e accartocciato; sembrava proprio un foglio di carta e non il fuoco che divampava in una foresta... Si trasmisero dischi con le marce di Sousa e un assolo di pianoforte e uno di chitarra... La musica veniva trasmessa con una fedeltà raramente, o forse mai, udita prima da un comune apparecchio radio .
Come ci direbbe il senso comune, Armstrong aveva scoperto una tecnologia per la radio infinitamente superiore. Ma, all'epoca della sua invenzione, egli lavorava per la RCA, il soggetto dominante nell'allora prevalente mercato della radio AM. Nel 1935 esistevano un migliaio di emittenti in tutti gli Stati Uniti, ma le stazioni delle grandi città erano tutte di proprietà di un pugno di reti.
Il presidente della RCA, David Sarnoff, amico di Armstrong, era eccitato all'idea che quest'ultimo avesse scoperto un modo per eliminare le scariche dalle trasmissioni “radio AM”. Perciò si mostrò molto impaziente quando Armstrong gli annunciò di avere un apparecchio in grado di eliminare l'inconveniente. Ma, quando Armstrong diede la dimostrazione dell'invenzione, Sarnoff non ne rimase affatto contento.
Credevo che Armstrong avesse inventato un qualche tipo di filtro per eliminare le scariche dalla nostra radio AM. Non pensavo che avrebbe lanciato una rivoluzione - introdurre una dannata industria del tutto nuova capace di competere con la RCA .
L'invenzione di Armstrong minacciava l'impero AM della RCA, per cui l'azienda lanciò una campagna per sopprimere la radio FM.
(….)
Quando Armstrong e la nazione furono distratti dalla Seconda Guerra Mondiale, l'opera della RCA iniziò a ottenere successo. Poco dopo la fine della guerra, la FCC annunciò una serie di direttive che avrebbero avuto un effetto preciso: la radio FM sarebbe stata azzoppata. Come scrive Lawrence Lessing,
la serie di colpi che la radio FM subì subito dopo la guerra, in una serie di disposizioni manipolate attraverso la FCC dai grandi interessi dell'industria radiofonica, fu quasi incredibile quanto a potenza e scorrettezza .
Per far posto nello spettro di trasmissione all'ultima scommessa della RCA, la televisione, gli utenti della radio FM dovettero essere spostati su una banda di frequenze totalmente nuova. Anche la potenza delle emittenti FM venne ridotta, nel senso che non si potevano più usare per trasmettere programmi da una parte all'altra del paese (…). La diffusione delle radio FM venne così soffocata, almeno temporaneamente.
Armstrong resistette agli attacchi della RCA. Per tutta risposta, la RCA si oppose ai brevetti di Armstrong. Dopo aver incorporato la tecnologia FM nello standard emergente per la televisione, la RCA dichiarò i brevetti non validi - senza alcun fondamento e quindici anni dopo la loro assegnazione. Con ciò rifiutò di pagare ad Armstrong le royalty. Per sei anni egli combatté una dispendiosa battaglia legale per difendere i suoi brevetti. Alla fine, proprio mentre questi stavano per scadere, la RCA propose un accordo economico talmente misero che non avrebbe coperto neppure i compensi degli avvocati di Armstrong. Sconfitto, affranto, e ora ridotto sul lastrico, nel 1954 Armstrong, dopo aver scritto una breve missiva alla moglie, si suicidò, saltando da una finestra del tredicesimo piano.
È così che talvolta funziona la legge. Spesso non con esiti così tragici, raramente con il dramma di un eroe, ma qualche volta funziona così. Da sempre il governo e le agenzie governative sono soggette a una sorta di ricatto. È più probabile che siano ricattate quando grossi interessi vengono minacciati da un cambiamento legislativo o tecnico. Troppo spesso questi potenti interessi esercitano la propria influenza all'interno del governo per indurlo a tutelarli. Ovviamente la retorica di questa tutela appare sempre a favore del pubblico; la realtà è ben diversa. Idee che un tempo erano solide come rocce, ma che, lasciate a se stesse, in un altro periodo si sarebbero sgretolate, vengono sostenute tramite questa sottile corruzione del nostro processo politico. La RCA possedeva quel che mancava ai coniugi Causby: il potere di soffocare l'effetto del cambiamento tecnologico.
Non esiste un unico inventore di Internet. Come non esiste una data precisa in cui collocarne la nascita. Tuttavia, in un lasso di tempo assai breve, Internet è divenuta parte della vita quotidiana in America. Secondo il Pew Internet and American Life Project, nel 2002 il 58 per cento degli statunitensi aveva accesso a Internet, in crescita rispetto al 49 per cento di due anni prima . Si può stimare che quella percentuale abbia ormai superato i due terzi della nazione alla fine del 2004.
Man mano che Internet si è integrata nella vita quotidiana, ha prodotto alcuni cambiamenti. Alcuni tecnici - Internet ha reso più veloce la comunicazione, ha ridotto i costi della raccolta dei dati, e così via. Tali cambiamenti tecnici restano al di fuori dello scopo di quest'opera. Sono importanti. Non vengono compresi appieno. Ma appartengono a quel tipo di cose che finiscono semplicemente con lo scomparire non appena ci scolleghiamo da Internet. Non hanno effetto su coloro che non usano Internet, o almeno non in maniera diretta. Andrebbero affrontati in un apposito volume dedicato a questo argomento. Ma questo libro non lo è.
Esso affronta invece un effetto provocato da Internet al di là della stessa Internet: l'effetto sul modo in cui si costruisce la cultura. Secondo la mia tesi, nel corso di questo processo Internet ha indotto un cambiamento importante e poco riconosciuto, che trasformerà in maniera radicale una tradizione che risale agli albori stessi della Repubblica. Se fosse in grado di riconoscere questo mutamento, la maggior parte delle persone finirebbe per rifiutarlo. Tuttavia, in genere non riesce neppure a notare il cambiamento che la Rete ha innescato.
Possiamo intuire il senso del cambiamento distinguendo tra cultura commerciale e non-commerciale e seguendo la mappa delle regolamentazioni legislative di entrambe. Per “cultura commerciale” intendo quella parte della nostra cultura che viene prodotta e posta in vendita oppure prodotta con l'intento di essere venduta. Per “cultura non-commerciale” intendo tutto il resto. Quando gli uomini anziani si sedevano sulle panchine nei parchi oppure agli angoli delle strade e raccontavano delle storie per i ragazzi e altri ascoltatori, quella era cultura non-commerciale. Quando Noah Webster pubblicò il prototipo dell'omonimo dizionario, o Joel Barlow le sue poesie, quella era cultura commerciale.
All'inizio della nostra epoca storica, e per l'intero corso della nostra tradizione, sostanzialmente la cultura non-commerciale non era soggetta a regole. Ovviamente, nel caso di storie lascive, o di canzoni che disturbassero la quiete, interveniva la legge. Ma essa non riguardava mai direttamente la creazione o la diffusione di questa forma di cultura, che veniva lasciata “libera”. Le normali modalità con cui la gente comune condivideva e trasformava la propria cultura - raccontando storie, riproponendo scene di lavori teatrali o televisivi, partecipando a club di appassionati, condividendo musica, registrando nastri - erano ignorate dalla legge.
La legislazione si concentrava sulla creatività commerciale. All'inizio in modo blando, poi sempre più esteso, la legge tutelava gli incentivi dei creatori riconoscendo loro i diritti esclusivi sulle proprie opere, così che potessero vendere tali diritti nel mercato . Naturalmente, ciò rappresenta una parte importante della creatività e della cultura, ed è divenuto un elemento sempre più importante in America. Ma in nessun senso era qualcosa di dominante nella nostra tradizione. Ne costituiva piuttosto soltanto una parte, una parte sotto controllo, equilibrata da quella libera.
Oggi questa grossolana divisione tra cultura libera e cultura controllata è stata cancellata . Internet ha impostato lo scenario per questa cancellazione e, sotto la spinta dei grandi media, ora rientra sotto la tutela della legge. Per la prima volta nel corso della nostra tradizione, le modalità correnti con cui gli individui creano e condividono cultura ricadono all'interno della regolamentazione giuridica, che è stata estesa fino a portare sotto il proprio controllo una quantità di cultura e creatività mai raggiunta prima. La tecnologia che aveva mantenuto l'equilibrio della nostra storia - tra gli usi della cultura ritenuti liberi e quelli possibili soltanto dietro permesso - è stata eliminata. La conseguenza è che siamo sempre meno una cultura libera, e sempre più una cultura del permesso.
Questo cambiamento viene giustificato come elemento necessario a tutela della creatività commerciale. E, infatti, il protezionismo ne rappresenta la motivazione precisa. Ma quel protezionismo a giustificazione dei cambiamenti, che descriverò più avanti, non è del tipo limitato ed equilibrato che ha definito la legge in passato. Non è un protezionismo che tutela gli artisti. È invece un protezionismo che tutela certe forme di attività commerciali. Le grandi aziende, minacciate dalla potenzialità di Internet di cambiare il modo in cui vengono realizzate e condivise sia la cultura commerciale sia quella non-commerciale, si sono alleate nell'indurre i legislatori a usare la legge per proteggerle. È la storia della RCA e di Armstrong; è il sogno dei Causby.
Il punto è che Internet ha offerto a molta gente l'eccezionale possibilità di partecipare al processo di costruzione e coltivazione di una cultura che va ben oltre gli ambiti locali. Questa forza ha modificato il mercato dove si produce e si coltiva la cultura in senso generale, e a sua volta il cambiamento minaccia le industrie attualmente dedite alla produzione di contenuti. Per le industrie che realizzavano e distribuivano contenuti nel XX secolo, Internet è simile a quel che la radio FM fu per la radio AM, o a quel che l'industria del traffico pesante fu per la ferrovia nel XIX secolo: l'inizio della fine, o quantomeno una trasformazione sostanziale. Le tecnologie digitali, legate a Internet, potrebbero dar vita a un mercato molto più vivo e competitivo per la costruzione e lo sviluppo della cultura; tale mercato potrebbe contenere una gamma di creatori assai più ampia e diversificata; questi creatori potrebbero produrre e distribuire creatività a un livello molto più esuberante; e sulla base di alcuni importanti fattori, tali creatori potrebbero guadagnare mediamente più da questo sistema che dall'attuale - tutto ciò purché le RCA dei nostri giorni non decidano di ricorrere alla legge per proteggersi contro questa concorrenza.
Tuttavia, come sostengo nelle pagine successive, ciò è esattamente quanto accade oggi alla cultura. Questi equivalenti moderni delle radio dell'inizio del XX secolo o delle ferrovie del XIX secolo, stanno usando il loro potere per fare in modo che la legge li protegga contro tecnologie nuove, più efficaci, più vitali nel costruire cultura. Stanno portando al successo il piano di rifare Internet prima che Internet rifaccia loro.
Per molti le cose non stanno così. Alla maggior parte della gente le battaglie relative al diritto d'autore e a Internet appaiono lontane. Ai pochi che le seguono, tali battaglie sembrano riguardare per lo più un'area ristretta di problemi - se la “pirateria” verrà consentita e se la “proprietà” sarà tutelata. La “guerra” che è stata dichiarata alle tecnologie di Internet - quel che Jack Valenti, presidente della Motion Picture Association of America (MPAA), definisce la sua “guerra personale contro il terrorismo” - è stata presentata come una battaglia sulle norme giuridiche e sul rispetto della proprietà. Per sapere da che parte stare in questa guerra, la maggioranza crede che si debba decidere soltanto se si è a favore o contro la proprietà.
Se fossero veramente queste le alternative, allora mi schiererei con Jack Valenti e con l'industria che produce contenuti. Anch'io credo nella proprietà, e soprattutto nell'importanza di quel che il signor Valenti definisce elegantemente “proprietà creativa”. Credo che la “pirateria” sia sbagliata e che la legge, adeguatamente affinata, dovrebbe punirla, fuori o dentro Internet.
Ma queste semplici opinioni mascherano una questione molto più essenziale e un cambiamento assai più radicale. Il mio timore è che, se non riusciamo a vedere questo mutamento, la guerra per liberare il mondo di Internet dai “pirati” porterà altresì la cultura a disfarsi di quei valori che fin dalle origini hanno fatto parte integrante della tradizione.
Questi valori hanno dato vita a una tradizione che, almeno per i primi 180 anni della Repubblica statunitense, garantiva ai creatori il diritto a costruire liberamente sul passato, e tutelava i creatori e gli innovatori dal controllo a livello sia statale che privato. Il Primo Emendamento proteggeva i creatori dal controllo statale. E, come sostiene efficacemente il professor Neil Netanel, le leggi sul diritto d'autore, appropriatamente calibrate, tutelavano i creatori nei confronti del controllo privato. La nostra tradizione non era quindi né quella sovietica né quella dei mecenati. Si era invece ritagliata un'ampia area protetta all'interno della quale i creatori potevano coltivare ed estendere la cultura.
Eppure la risposta della legge a Internet, quando associata ai cambiamenti nella tecnologia della Rete stessa, ha enormemente aumentato l'effettiva regolamentazione della creatività in America. Per costruire sopra la cultura che ci circonda, o per giudicarla, si deve prima chiedere il permesso, alla maniera di Oliver Twist. Ovviamente, spesso tale permesso viene accordato - ma non così di frequente ai critici o agli indipendenti. Abbiamo costruito una sorta di nobiltà culturale; quelli che appartengono alla classe nobile vivono una bella vita, chi ne resta fuori no.
La storia che segue riguarda questa guerra. Non la “centralità della tecnologia” nella vita ordinaria. Non credo in un dio, digitale o di altro tipo. Né intendo demonizzare qualche gruppo o individuo, perché non credo neppure nel demonio, di tipo “corporation” o altro. Questo libro non è una allegoria morale. Non è neanche un incitamento alla jihad contro un'industria.
Si sforza invece di capire una guerra distruttiva e senza speranza, ispirata dalle tecnologie di Internet ma con una portata che va ben oltre il suo codice. E, tramite la comprensione di questa battaglia, è il tentativo di tracciare una mappa per la pace. Non esiste alcun valido motivo per continuare l'attuale conflitto sulle tecnologie che circondano Internet. La nostra tradizione e la nostra cultura subiranno danni ingenti se tale conflitto dovesse proseguire indisturbato. Dobbiamo arrivare a comprendere l'origine di questa guerra. Dobbiamo risolverla presto.
Al pari della battaglia dei coniugi Causby, questa è, in parte, una guerra per la “proprietà”. La proprietà, in questa guerra, non è tangibile come nel caso dei Causby, e finora nessun pollo innocente ha perso la vita. Tuttavia le idee che circondano questa “proprietà” appaiono ovvie tanto quanto le rivendicazioni dei Causby sulla sacralità della loro fattoria. Siamo noi i Causby. La maggior parte di noi dà per scontate le ragioni straordinariamente forti che oggi sostengono i detentori della “proprietà intellettuale”. La maggior parte di noi, come i Causby, considera ovvie tali ragioni. E su queste basi, al pari dei Causby, solleviamo obiezioni quando una nuova tecnologia interferisce con questa proprietà. Per noi è evidente, come lo era per loro, che le nuove tecnologie di Internet stanno “violando” le legittime rivendicazioni della “proprietà”. Per noi è evidente, come lo era per loro, che la legge dovrebbe intervenire per bloccare una simile violazione.
E così, quando i fanatici o gli esperti di tecnologia difendono la proprie innovazioni simili a quelle di Armstrong o dei fratelli Wright, la maggior parte di noi mostra semplicemente scarsa simpatia. Il senso comune non si ribella. Contrariamente al caso degli sfortunati Causby, in questa guerra il senso comune è dalla parte di chi detiene la proprietà. Contrariamente ai fortunati fratelli Wright, Internet non ha ispirato una rivoluzione che la sostenga.
La mia speranza è quella di fare progredire questo senso comune. Sono sempre più meravigliato dalla forza di questo concetto di proprietà intellettuale e, ancora più importante, dalla sua capacità di annullare il pensiero critico nei politici e nei cittadini. Non è mai esistito un periodo della storia in cui gran parte della “cultura” fosse “di proprietà” com'è oggi. Eppure non è mai esistita un'epoca in cui la concentrazione del potere nel controllare gli utilizzi della cultura venisse così supinamente accettata com'è ora.
La domanda è: “Perché?”
Perché siamo arrivati a comprendere la verità del valore e dell'importanza della proprietà assoluta sulle idee e sulla cultura? È stato forse perché abbiamo scoperto quanto fosse sbagliata la tradizione di rifiutare una simile motivazione assoluta?
Oppure perché il concetto di proprietà assoluta sulle idee e sulla cultura porta benefici alle RCA della nostra epoca ed è conforme alle nostre intuizioni prive di riflessione? (…) Il radicale abbandono della tradizione di una cultura libera è l'ennesimo esempio di un sistema politico ricattato da un pugno di interessi particolari? (…)
Non voglio fare il misterioso. Le mie opinioni sono chiare. Credo fosse giusto per il senso comune rivoltarsi contro l'estremismo dei Causby. Credo che sarebbe giusto per il senso comune ribellarsi contro le ragioni estreme sostenute oggi a favore della “proprietà intellettuale”. Quel che la legge chiede oggi è sempre più stupido, tanto quanto uno sceriffo che arresti un aeroplano per violazione di proprietà. Ma le conseguenze di questa stupidità saranno molto più profonde.
Il conflitto che sta emergendo ora è centrato su due concetti: “pirateria” e “proprietà”. Il mio obiettivo, nelle successive due parti del volume, è quello di esplorare questi due concetti.
Il mio metodo non è quello comunemente seguito da un accademico. Non voglio far naufragare il lettore in un'argomentazione complicata, sostenuta da riferimenti a oscuri teorici francesi - per quanto ciò possa apparire naturale a quella strana specie di accademici in cui ci siamo trasformati. Inizio invece ciascuna parte descrivendo una serie di eventi che disegnano il contesto all'interno del quale questi concetti apparentemente semplici possano essere compresi nel modo migliore.
Le due sezioni servono a impostare la tesi centrale del libro: che mentre Internet ha effettivamente prodotto qualcosa di fantastico e di nuovo, le istituzioni governative, sotto la spinta dei grandi media, nel rispondere a questo “qualcosa di nuovo” stanno distruggendo qualcosa di molto antico. Anziché comprendere i cambiamenti che Internet può consentire, e anziché guadagnare tempo in modo da lasciar decidere al “senso comune” la risposta migliore, stiamo permettendo a coloro che si sentono più minacciati dai cambiamenti di usare la loro forza per modificare la legge - e, fatto più importante, di usare la forza per cambiare qualcosa di fondamentale che riguarda ciò che siamo sempre stati.
Lo permettiamo, credo, non perché sia giusto, e non perché la maggior parte di noi creda veramente in questi cambiamenti. Lo permettiamo perché gli interessi maggiormente minacciati appartengono a chi gioca un ruolo estremamente potente nel processo di costruzione delle leggi, un processo compromesso in maniera deprimente. Questo libro è la storia di un'ulteriore conseguenza di questa forma di corruzione - una conseguenza che la maggior parte di noi ignora.

Dai siti:
http://creativecommons.org e http://www.creativecommons.it/
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