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Viaggio in Emilia Romagna-Mario Soldati



Introduce Andrea Rubbi   
lunedì 27 ottobre 2008
C’è chi usa la verde, e chi usa il diesel. Chi il gpl, chi il metano. Mario Soldati, per viaggiare, non usava niente di tutto ciò: usava il vino, meglio se su una tavola ben imbandita. 
Viaggio in Emilia Romagna è il racconto, da nord ovest a sud ovest, della terra che più di ogni altra ha legato la propria anima alla tavola: l’Emilia Romagna. Questa regione, a guardarla dalla cartina sembra un triangolo, i cui cateti sono rappresentati dall’acqua. 
Percorrendo la via Emilia, “ipotenusa” parallela alla dorsale appenninica, Soldati racconta le differenze, i diversi tratti somatici delle genti che popolano questa grassa terra.
Perché più di ogni altro aspetto della quotidianità, è attraverso il vino ed il cibo delle nostre tavole che si possono capire le persone e i loro pensieri, i loro valori, i loro ritmi di vita.
Alla salute!



LUIGI VERONELLI, Il vino giusto, Milano, Rizzoli, 1971, p. 9.

Se non ami il vino, se non sei disposto a riconoscerlo amico, non leggermi. Non puoi capirmi, ti stupiresti - sciocco sino a riderne - di frasi esatte: la scienza ha conquistato lo spazio e non ancora il “meccanismo” delle infinite metamorfosi del vino, vi è qualcosa che sfugge, che si sottrae ad ogni analisi. Qualcosa che noi solo conosciamo, con cui solo noi comunichiamo, noi che amiamo il vino: la sua anima.
Ti stupisci: non noi.
Versiamo il rosso vino - amorosi, con infinite cautele nel bicchiere panciuto che esige la tiepida carezza della mano; o, con uguali cure, il bianco nel bicchiere alto, aristocratico e nervino, che la mano allontana; ne osserviamo in trasparenza i colori, godiamo già del giuoco allegro e balenante dei tonali riflessi; gli imprimiamo, al bicchiere, lieve il gesto, un accenno di rotazione: aumenta la superficie vinosa; si libera, e la aspiriamo, ogni nascosta suggestione, dal bouquet; in un bacio lo sorseggiamo per la lingua, per il palato: ci lasciamo invadere dai ricordi: mille e mille e mille; ogni vino bevuto ha il suo racconto.
Ogni vino bevuto ha il suo racconto. Mio proposito: renderne facile l’ascolto e la comprensione a te, lettore, che ami il vino - mi leggi -, o sei disposto a riconoscerlo amico.


MARIO SOLDATI, Viaggio in Emilia Romagna, Bologna, Minerva, 2007, pp. 23-51.

Boston e San Francisco, a cinquemila chilometri di distanza, sono diverse ma non come, a cinquanta, Bologna e Ferrara. Certo, è l’Italia: il paese, in rapporto all’area, più vario del mondo. Ma nessuna regione italiana sembra varia come l’Emilia e Romagna. Le cause sono storiche: dei capoluoghi delle sue otto province, ben sette furono, lungo tempo, addirittura città capitali! E questa varietà si presenta con un’evidenza e un’immediatezza tanto maggiori quanto più omogenea, invece, è la struttura geografica della regione stessa: disposta sulla riva destra del Po, dal Piemonte fino al mare, in tre fasce continue, contigue, dolcemente sconfìnanti, la pianura nei colli, i colli negli Appennini: incernierata nella Via Emilia, asse scorrevole che taglia la pianura poco prima dei colli e lungo cui sorgono tutte le sue antiche, nobili città, le grandi, le mediane, le piccole.
Chi dunque percorra l’Emilia e Romagna di seguito, come a me è capitato per conoscere i suoi vini, ha l’impressione di compiere un viaggio spettacolare, diviso in tappe predisposte, inevitabili e, ciononostante, meravigliose e imprevedibili: oppure di assistere a una féerie, una fantasmagoria ininterrotta e, ad ogni episodio, sempre nuova.
Ripetiamo: l’Italia sorprende dovunque; ma in nessun’altra parte troviamo le sue bellezze, ricchezze e singolarità così “messe in fila”, ordinatamente, quasi in una naturale sequenza espositiva.
Gli stessi vini rivelano questo ritmo. Dalle Barbere miste a Bonarda coltivate nei colli piacentini, e che prolungano le scelte viticole ed enologiche dell’Oltrepò Pavese e ancora riflettono la comune origine monferrina: a tutti i Lambruschi, che, specialmente per il metodo di vinificazione, sono gloria di Sorbàra in provincia di Modena: ai Sauvignon e alle Albane: ai Sangiovese, che partecipano delle colture toscane, come dimostra lo stesso vitigno, che è una componente essenziale del Chianti, e come dimostra quella zona orientale dell’Appennino, che fu una volta territorio del Granducato e che ancor oggi accoglie, a soli venti chilometri da Forlì, un cuneo della provincia di Firenze: per tutta questa lunghissima linea obliqua, trasversale e collinare, da nord-ovest a sud-est, da Castel San Giovanni a Rimini, assistiamo ad una rassegna trionfale, a un’immensa processione, a un fregio ininterrotto di vigneti svariati e conclusivi.
Di qua e di là dall’Autostrada del Sole e poi, senza soluzione di continuità, dell’Autostrada Adriatica, lo spettacolo, nello splendore dei colori autunnali, ha qualche cosa di sbalorditivo: se non altro per la lunghezza e la vastità. E come il temperamento del popolo emiliano e romagnolo riassume i caratteri di tutti i temperamenti padani, piemontesi lombardi veneti, e lì presenta già variegati di razionalismo o scetticismo toscano e centroitaliano, così, in qualche modo, anche il vino.
Gli italiani dell’Emilia e soprattutto quelli della Romagna, se non tutta l’Italia, ne impersonano, o ne simboleggiano, abbondantemente, due terzi. I vini – quando genuini – non sono forse i più pregiati della nostra penisola: né sono certo, per la loro umile, fresca, aggressiva vitalità, i più rappresentativi.
Ma il carattere discriminante, unico, formidabile dei vini di Emilia e Romagna è, infine, il seguente: che vengono offerti e gustati, normalmente e vorrei dire esclusivamente, ad accompagnamento dei cibi.
Mi trovo, adesso, alla metà giusta del mio viaggio: al quarto capitolo dei sei del secondo volume: ebbene, finora, per assaggiare vini, non ho mai dovuto affrontare, e credo che non dovrò più affrontare, una cucina altrettanto copiosa e violenta. Il mangiare e il bere vino sono, qui, inestricabilmente e sacralmente congiunti.
Devo anche precisare che, a questa congiunzione sensuale partecipa, meno visibilmente e meno materialmente, ma forse, proprio per questo, ancor più profondamente, un terzo elemento: il sesso. Eh sì, la donna è sempre implicita e implicata nelle mense emiliane e romagnole: o presente, anche se sta di là come cuoca, e prima origine di tutto: o assente, anche se sta a casa, moglie amante innamorata, e di tutto ultima finalità.
Il pane stesso di Emilia e Romagna, il pane più buono e più bello del mondo, è un monumento quotidiano e stupendo alla femminilità: levigato, liscio, rotondeggiante, evoca irresistibilmente con le sue curve, con i suoi rigonfiamenti, con le sue sfumature delicate e tenerissime della sua superficie, seni e cosce di donna. Non pare possibile che la ispirazione primitiva di queste sculture umili, viventi, tradizionali, meravigliose, non coincida con un desiderio, un ricordo, un omaggio rituale alla bellezza muliebre. È un pane che, prima di mangiarlo, l’occhio lo accarezza. Ed è un vino non pensoso, come i vini piemontesi; non folle, come i friulani; non fantastico, come i liguri. È un vino, più di ogni altro, amoroso.
[…]
Italo Cosmo, nella monumentale opera da lui diretta Principali Vitigni da vino coltivati in Italia, descrive ben otto diversi Lambruschi: Lambrusco Grasparossa, Lambrusco Salamino, Lambrusco di Sorbara, Lambrusco Maestri, Lambrusco Marani, Lambrusco Montericco, Lambrusco Viadanese e Lambrusco a Foglia Frastagliata. Di tutti questi Lambruschi, dice il Cosmo, «quello di Sorbara è senza dubbio il più importante perché dà un vino più pregiato degli altri; malauguratamente non si è molto diffuso al di fuori della sua zona originaria, a causa della sua difettosa conformazione fioreale, la quale si traduce in scarsa e talora scarsissima fertilità... Oggi lo si trova tuttavia in quella parte mediana della pianura modenese compresa tra i fiumi Secchia e Panaro e che ha per centro la frazione di Sorbara in Comune di Bomporto.»
Come non ricordare il Tassoni?
Tra la Secchia e il Pantano,
è Modena città di Lombardia,
dove si smerda ogni fedel cristiano
che si accinge a passar per quella via.
È forse necessario spiegare che lo stesso Stendhal parlava anche di Bologna come di città di Lombardia, e che fino verso la metà del secolo scorso era comunemente chiamata Lombardia tutta l’Emilia?
Ad ogni modo, i modenesi corressero il terzo verso del Tassoni così:
dove s’allegra ogni fedel cristiano
E noi, oggi, poiché siamo sulla viticoltura del Lambrusco, possiamo benissimo, pensando all’abbondante concimazione che è indispensabile a questo particolarissimo vitigno, ripristinare senza offesa la lezione originale.
[…]
Carlo Levi, nel suo Cristo si è fermato ad Eboli, quando torna dalla Lucania nel nord, parla di «Campagne matematiche». Non ho mai visto, certo, vigne più «matematiche» di queste. La razionalità, la geometria erano favorite, anche in passato, dal fatto che la coltivazione si svolge tutta in pianura: ma oggi sono portate a un massimo di perfezione e di simmetria con l’adozione delle tecniche più moderne: applicate, però, nel rispetto assoluto dei sistemi, antichi, che sono integrati e migliorati, mai traditi. Soprattutto, c’è più spazio tra filare e filare. I vitigni sono in numero minore, ma ciascuno di essi produce più uva. La quantità fìnale del raccolto è praticamente la stessa, e così la qualità: ma la mano d’opera necessaria è molto meno ingente.
[…]
Si vendemmia tardi: tra il 15 ottobre e i primi di novembre. Si pigiadiraspa. Si lascia fermentare, per i primi quattro o cinque giorni, con le bucce. Poi si lascia fermentare, più lentamente possibile, per circa un mese. Frattanto, avviene un’altra operazione, speciale per il Lambrusco, e che costituisce la sua principale caratteristica: appena la fermentazione si fa «tumultuosa», si separa dal mosto un quantitativo corrispondente a un decimo del totale, e, questo decimo, lo si fìltra: se ne ricava un liquido rosa carico, dolcissimo, tre gradi di alcool e quattordici di zucchero, e lo si lascia da parte. I nove decimi restanti non sono mai filtrati, solo travasati: in febbraio, vi si unisce il filtrato. Ricomincia, allora, un’altra fermentazione. E dopo un mese, si imbottiglia.
Il Lambrusco, nella sua creduta umiltà, assomiglia così allo champagne: l’ultima e più importante parte della sua fermentazione avviene in bottiglia. Le bottiglie si tengono sdraiate fino a luglio, poi ritte. I tappi sono legati con lo spago, artigianalmente, da operaie specializzate: si tratta di un accorgimento indispensabile, per via della pressione esercitata, nell’interno della bottiglia, dall’anidride carbonica che si è venuta formando naturalmente con l’aggiunta del filtrato dolce.
Il Lambrusco, così lavorato, è buono da bere verso la fine dell’estate successiva all’anno della vendemmia: e continua ad essere buono soltanto fino all’estate ancora successiva. In altre parole, in Lambrusco dura da un anno a due: non di più. E se esiste un vino, per cui sarebbe necessaria quell’etichetta di scadenza, che il dottor Guido Marri di Faenza propone e propugna, questo è proprio il Lambrusco.
[…]
Al piano terreno di uno di questi dadi Angiolini ha fatto preparare la colazione dalle sue donne. La moglie, signora Franca, «superintende»: è un’emiliana di quelle che fanno pensare che, se fossimo stati saggi, avremmo, tutti, dovuto scegliere per moglie un’emiliana come lei: bella e brava in tutto e per tutto.
La mensa è rustica, in un’angusta camera attigua alla vasta cucina. Il menù è strepitoso: una sfida che per parteciparvi con probabilità di vittoria bisognerebbe esservi allenati o, forse, avere qualche anno meno di quelli che ho. «In principio erano i tortellini»: impasto lasciato amalgamarsi al fresco per tre giorni, e che comprende i seguenti ingredienti: prosciutto, mortadella, lombo di maiale appena scottato, polpa di vitello, polpa di gallina, parmigiano, pepe, noce moscata, uova. Secondo: zampone di Modena, con purea di patate e fagioloni grossi: naturalmente, si mangia e si deve mangiare anche la cotica. Terzo: i lessi, gallina e manzo scuro, marmorizzato di grasso, a spesse fette: salse crude. Insalata. Lambrusco su tutto, cambiando sempre i bicchieri e, botta finale, che dobbiamo incassare senza batter ciglio, senza osservare che avrebbe dovuto essere, almeno, una botta iniziale, i borlenghi.
[…]
Non esistono, per i vini, leggi assolute. Sono esseri viventi, al pari di creature umane. Riescono come riescono: imprevedibili, vari, capricciosi. Il loro bello, e il loro buono.
Quando si entra nel Palazzo Comunale di Imola, si ha l’impressione di entrare in un cuore dell’Italia: dell’Italia di ieri l’altro e di ieri nell’Italia di oggi, che qui appaiono complesse, unite, inestricabilmente avvinte. Costruito nel secolo XII, all’epoca dei Comuni, rivela tracce di tutti i secoli successivi, durante cui fu ampliato, abbellito, garbatamente modernizzato. Gli uffici del Sindaco sono di splendida architettura e di intatto arredo settecentesco. Infine, ai quattro angoli dell’Aula Conciliare, c’è tutta la nostra storia più recente, rappresentata da quattro busti: il Conte Giovanni Codronchi, uomo politico di destra nel Nuovo Regno e nell’Italia Umbertina, deputato, senatore, ministro, amicissimo del Minghetti; Giuseppe Scarabelli, grande geologo e paletnologo (1820-1905); Andrea Costa, fondatore del partito socialista; Anselmo Marabini, fondatore di quello comunista.
Ho detto «un cuore» e non «il cuore» perchè, senza dubbio, l’ltalia, per sua natura e per sue vicende, ha molti cuori. Ma la Romagna, forse, è quello che batte con maggior violenza. Fascista, certo, e pour cause: ma, proprio per questo, e ancora di più, antifascista. «Le cooperative agrarie e industriali di Imola furono le sole che il fascismo non riuscì mai a distruggere»: questa è una delle prime cose che mi dice il giovane Sindaco di Imola, Amedeo Ruggi, accogliendomi nell’antico Palazzo. Passo con lui l’intera giornata. Mi accompagna nelle vigne e nelle cantine. Mi svela la Romagna e, senza volerlo, se stesso. Di tutti gli amministratori pubblici che ho conosciuto, nessuno mi sembra, come lui, Sindaco nato. Dai suoi discorsi e dalle sue osservazioni, mi risultò che la caratteristica fondamentale del suo pensiero era una costante preoccupazione per tutti i cittadini: secondo la misura del bisogno ma senza trascurare nessun ceto, nessuna categoria, nessuna idea, vorrei dire nessun individuo, e rispettando ciascuno con assoluta equità come un vero padre ama dello stesso amore ciascuno dei propri figli.
La vitivignicoltura è una delle importanti attività dell’Imolese. I vini più pregiati, anche qui, come in tutto il resto della Regione, salvo la zona del Lambrusco, si fanno in collina. Sulle alture di Dozza, nel vecchio castello, visito la prima enoteca di mio gusto: perché non ha assurde, irrealizzabili ambizioni enciclopediche, ma si limita ad esporre tutti i vini del luogo, e soltanto quelli.
Compatibilmente con l’ondosità del terreno, anche qui si venera, nelle vigne, la geometria. Le piantagioni sperimentali del dottor Umberto Lunati, capo dell’Ufficio Agricolo della zona, sono attigue a quelle dell’azienda privata di Folco Galeati: e le une e le altre seguono senza deflettere dalla rigorosa orientazione nord-sud l’avvallarsi e il risalire, in grandiose prospettive, di una profonda piega collinare. Le chiude una selvetta di albicocchi, tronchi neri e foglie di un giallo carico trasparenti al sole, con un effetto cromatico che ha del miracoloso. Ad ogni modo, osservo come le foglie dell’albicocco, in questa stagione, prendano il colore esatto dell’albicocca matura.
[…]
Rendiamo omaggio, sempre nella zona di Dozza, alla cantina del professor Mario Neri, predecessore del Lunati nel suo incarico ufficiale, e adesso in «retraite» operosissima. Neri, oltre ai vini locali, produce, in piccole quantità, e sempre con successo (lo dico perché li ho provati) vini di altre parti, i più impensati: fino al Pinot Grigio e a uno squisito Nebbiolo non dolce.
La passione sperimentale del vecchio Neri commuove. Ma non è detto che sia un capriccio. Lui sostiene che i vini bianchi di Romagna dovrebbero, assolutamente dovrebbero, essere vinificati alla tirolese: ossia in bianco, senza lasciar fermentare anche le bucce. E, dopo le prove di assaggio che abbiamo eseguito non è detto che abbia torto. L’Albana, infatti, ha quel colore dorato-ambrato carico proprio perché le bucce, con cui fermenta, sono ricche di tannino. Ed ha un gusto speciale, dolciastro anche quando non si tratta del tipo dolce, un sapore quasi di arachide tostata, che ricorda un po’ il Greco di Avellino, e che non a tutti riesce sempre gradevole. L’Albana di Neri è decisamente più chiara, più asciutta, più liscia: secondo me, preferibile. Né mi contraddico: normalmente, i migliori risultati, li si ottengono quando si rispettano le tradizioni locali: non bisogna, però, esserne schiavi. E quando un uomo dell’età e dell’esperienza e della passione di Neri patrocina un’innovazione, penso che valga la pena di tentare. La gente del posto, credo che darebbe sempre il proprio voto all’Albana pesante a cui è abituata; i forestieri, molto probabilmente, sceglierebbero l'Albana vinifìcata in bianco.
Colazione a Sasso Morelli, in pianura, alla Sterlina, un’osteria dove, a me e ai miei compagni di viaggio, sembra che le donne di cucina, senza saperlo, sieno entrate in gara con quelle di Sorbara, di Castell’Arquato, di Rivergaro, per riportare la vittoria finale. Tre qualità di pastasciutta. Fra cui, i famosi garganelli fatti in casa con l’aiuto di un pettine da telaio, morbidissimi, quasi impregnati di ragù. E poi, una colossale grigliata di varie qualità di carne, primissime le braciole di castrato. E le piadine, focaccie piatte, salate, non lievitate, diverse dai borlenghi, più semplici, ma certamente non inferiori.
È stato qui, ad ogni modo, che assaggiando i vini del Neri, ammirando il pane che era in tavola, e spiando curiosamente nelle cucine, ho intuito, di colpo, l’esistenza di quel rapporto triplo che ho detto, e che esiste, in Emilia e Romagna, tra il cibo, il vino e le donne.
Annotta, e vediamo ancora due cantine: quella dei Pasolini dall’Onda, e quella di Mario Bufferli. La grande azienda vinicola dei Pasolini è al castello di Montericco, presso Imola, un promontorio sulla pianura. Non bisogna confondere col Montericco del Comune di Altinea, in provincia di Reggio, patria dell’omonima varietà di vitigno Lambrusco. Desideria Pasolini ci riceve con uno sfavillio di gentilezze: e coi vini e con le piadine di rito, mi fa conoscere, per la prima volta, lo squaccherone: un formaggio fresco, più liquido della ricotta, più lieve dello stracchino, scivoloso, saporoso, indimenticabile.
Dal Nobil Uomo Luciano Bufferli, in una rustica villa-cantina-piccola azienda, tra la valle del Sellustra e quella del Sìllaro, comincio finalmente a capire che cosa sia il Sangiovese. Siamo raccolti davanti al caminetto, dove fiammeggiano frammenti di pali delle vecchie vigne. Bufferli stesso, che è venuto da Bologna per noi, e il suo cantiniere e factotum Anselmo Foresti (biondo e occhicerulo, longobardo: anche questa è Lombardia!). Ci spiegano come fanno il vino. Travasano tre volte, non filtrano mai. L’Albano raggiunge quattordici gradi, anche più. Il Sangiovese tredici. Per un anno sta in botte, poi lo si imbottiglia. Il Sangiovese è eccelso: profumato lontanamente di lampone, colore rubino intenso, sapore asciutto un po’ tannico, retrogusto gradevolmente amarognolo, violento ma fresco di una freschezza sua naturale e indipendente dalla temperatura. Non c’è dubbio che possa invecchiare bene: ma, secondo me, solo in certi casi, e cioè secondo le zone in cui le uve sono coltivate. Per esempio, nel Senese, a Montalcino, il Brunello (che è fatto di puro Sangiovese) non è buono prima di tre o quattro anni: e migliora con il tempo. Qui, in Romagna, penso che il Sangiovese sia ottimo di un anno o di due. Ma non pretendo di affermare una verità assoluta. Forse, il giudizio sulle possibilità di invecchiamento del Sangiovese varia da cantina a cantina, da tipo a tipo. In ogni caso, sono invece sicuro che il Sangiovese è naturalmente un vino comune ma, talvolta, di classe: come, per esempio, il Beaujolais e la Barbera.
[…]
Beviamo e ribeviamo il Sangiovese; e, nonostante il continuo rinforzo di piadine e di squacquerone, presto siamo anche troppo felici. Usciamo all’aria. Nel sole e nel vento, nell’immensità dell’orizzonte, sia verso il monte e sia verso il mare. Giriamo per le vigne. Bonfiglioli ci mostra una macchina modernissima e magica: un erpice munito di «testatore elettronico», che procede tra un filare e l’altro estirpando meccanicamente le erbacce, ma che evita «da sé» le radici delle viti: ritraendo, rinfoderando le lame ogni volta che passa «al traverso» di una pianta!
L’addio alla Romagna lo diamo alla trattoria Noti a San Martino di Converseto. È un locale moderno, per turisti senza pretese, per weekendisti borghesi: ma stupendamente panoramico, e insuperabilmente cuciniero.
Come se una Divinità segreta avesse guidato e predisposto il nostro viaggio, qui tocchiamo le vette della cucina romagnola. Mai altrove, e mai più, tagliatelle come queste! Mai più e mai altrove, come questa, una grigliata! Sapete che cos’è «il coniglio-in-porchetta»?
Forse no. E non lo sa, forse, neanche Federico Fellini, l’altro amico romagnolo al quale sto pensando da stamattina, quando ho visto che il casello di Santarcangelo, dove abbiamo lasciato l’autostrada, si chiama ufficialmente Rimini Nord.
Invito Federico Fellini, e invito con lui Giovanni Albonetti: li invito insieme da Noti, al Coniglio-in-Porchetta e al Sangiovese. Se sarà una bella giornata come questa, ci perdoneremo a vicenda, senza neanche bisogno di confessarceli, tutti i nostri peccati.