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Una visita in fabbrica Lo scacco della sirena? - Sereni, Fortini, Sanguineti, Zanzotto, Magrelli





lunedì 13 ottobre 2003 leggono Mimmo Cangiano e Andrea Severi
“La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi” (Fortini, Traducendo Brecht). E’ ancora possibile, o è mai stata possibile, una poesia che non sia semplice “folle volo” d’evasione – una fuga?
La poesia mostra l’ “arido vero”, ma lo fa con strumenti stilistici e retorici esattissimi. Perché la poesia è così inguaribilmente precisa?
Forse la poesia può comprendere, scomporre la realtà, per denunciarne i drammi silenziosi e strazianti. La poesia forse pensa. E talvolta tenta addirittura di delineare un ideale che illumini, una speranza di riscatto.
Può la Sirena scendere nell’arena e combattere la sua battaglia? Può, in definitiva, la bellezza essere anche utile?
“…Sentito bene sentito forte / nel suo forte rintocco di eptacordio / e rimesso nel fodero di nebbia / del sonno / e della non coscienza / riposto nel buio nascondiglio / del sapere non voluto sapere / fino a quando?” (Luzi, Il pianto sentito piangere) “…Sin quando... / un grido troppo tempo in noi represso / dal fondo di questi asettici inferni” (Sereni, Una visita in fabbrica)




Poesia di impegno

Mario Luzi, Vittorio Sereni, Bertolt Brecht, Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini, Edoardo Sanguineti, Anna Achmatova, Andrea Zanzotto, Valerio Magrelli, Giancarlo Sissa, a cura di Mimmo Cangiano e Andrea Severi

IL PIANTO SENTITO PIANGERE
Mario Luzi
UNA VISITA IN FABBRICA
Vittorio Sereni
A CHI ESITA
Bertolt Brecht
TRADUCENDO BRECHT
Franco Fortini
A UN PAPA
Pier Paolo Pasolini
FILASTROCCA DOC E POP DIDATTICA E DESCRITTIVA
IN ONORE E GLORIA DI TUTTE LE GUERRE CHIRURGICHE
Edoardo Sanguineti
IN LUOGO DI PREFAZIONE
Anna Achmatova
IL NOME DI MARIA FRESU
Andrea Zanzotto
ECCE VIDEO
Valerio Magrelli
E SE MI METTESSERO IN GALERA
Giancarlo Sissa
www.labottegadellelefante.it Ass.elefante@libero.it
Riprodotto presso Futurcopy, v. Andrea Costa 6, tel 051-4399033, www.futurcopy.it

A) Fino a quando?

IL PIANTO SENTITO PIANGERE
Mario Luzi
(da “Per il battesimo dei nostri frammenti”, Garzanti 1985)

Il pianto sentito piangere
nella camera contigua
di notte
nello strampalato albergo
poi dovunque
dovunque
nel buio danubiano
e nel finimondo di colori
di ogni possibile orizzonte
dilagando
oltre tutti i divisori
delle epoche
delle lingue
sentito bene sentito forte
nel suo forte rintocco di eptacordio
e rimesso nel fodero di nebbia
del sonno
e della non coscienza
riposto nel buio nascondiglio
del sapere non voluto sapere
fino a quando?-



UNA VISITA IN FABBRICA
Vittorio Sereni
(da “Gli strumenti umani”, Einaudi 1965)

I.

Lietamente nell'aria di settembre più sibilo che grido
lontanissima una sirena di fabbrica.
Non dunque tutte spente erano le sirene?
Volevano i padroni un tempo tutto muto
sui quartieri di pena:
ne hanno ora vanto della pubblica quiete.
Col silenzio che in breve va chiudendo questa calma mattina
prorompe in te tumultuando
quel fuoco di un dovere sul gioco interrotto,
la sirena che udivi da ragazzo
tra due ore di scuola. Riecheggia nell'ora di oggi
quel rigoglio ruggente dei pionieri:
sul secolo giovane,
ingordo di futuro dentro il suono in ascesa
la guglia del loro ardimento...
ma è voce degli altri, operaia, nella fase calante
stravolta in un rancore che minaccia abbuiandosi,
di sordo malumore che s’inquieta ogni giorno
e ogni giorno è quietato – fino a quando?
O voce ora abolita, già divisa, o anima bilingue
Tra vibrante avvenire e tempo dissipato
O spenta musica già torreggiante e triste.
Ma questa di ora, petulante e beffarda
È una sirena artigiana, d’officina con speranze:
stenta paghe e lavoro nei dintorni.
Nell’aria amara e vuota una larva del suono
Delle sirene spente, non una voce più
Ma in corti fremiti in onde sempre più lente
Un aroma di mescole un sentore di sangue e fatica.

II.

La potenza di che inviti si cerchia
che lusinghe: di piste di campi di gioco
di molli prati di stillanti aiuole
e persino fiorirvi, cuore estivo, può superba la rosa.
Sfiora torrette, ora, passerelle
La visita da poco cominciata: s’imbuca in un fragore
Come di sottoterra, che pure ha regola e centro
E qualcuno t’illustra. Che cos’è
Un ciclo di lavorazione? Un cottimo
cos’è? Quel fragore. E le macchine, le trafile e calandre,
questi nomi per me presto di solo suono nel buio della mente,
rumore che si somma a rumore e presto spavento per me
straniero al grande moto e da questo agganciato.
Eccoli al loro posto quelli che sciamavano là fuori
Qualche momento fa: che sai di loro
Che ne sappiamo tu e io, ignari dell’arte loro…
Chiusi in un ordine, compassati e svelti,
relegati a un filo di benessere
senza perdere un colpo – e su tutto implacabile
e ipnotico il ballo dei pezzi dall’una all’altra sala.

III.

Dove più dice i suoi anni la fabbrica,
di vite trascorse qui la brezza
è loquace per te?
Quello che precipitò
Nel pozzo d’infortunio e di oblio:
quella che tra scali e depositi in sé accolse
e in sé crebbe il germe d’amore
e tra scali e depositi lo sperse:
l’altro che prematuro dileguò
nel fuoco dell’oppressore.
Lavorarono qui, qui penarono
(E oggi il tuo pianto sulla fossa comune).
IV.

«Non ce l’ho – dice – coi padroni. Loro almeno
sanno quello che vogliono. Non è questo,
non è più questo il punto».
E raffrontando e
Rammentando:
«…la sacca era chiusa per sempre
e nessun moto di staffette, solo un coro
di rondini a distesa sulla scelta tra cattura
e morte…»
Ma qui non è peggio? Accerchiati da gran tempo
E ancora per anni e poi anni ben sapendo che non
Più duramente (non occorre) si stringerà la morsa.
C’è vita, sembra, e animazione dentro
quest’altra sacca, uomini in grembiuli neri
che si passano plichi
uniformati al passo delle teleferiche
di trasporto giù in fabbrica.
Salta su
Il più buono e il più inerme, cita:
E di me si spendea la miglior parte
Tra spesso e proteste degli altri – ma va là – scatenati.

V.

La parte migliore? Non esiste. O è un senso
di sé sempre in regresso sul lavoro
o spento in esso, lieto dell’altrui pane
che solo a mente sveglia sa d’amaro.

Ecco. E si fa strada sul filo
cui si affida il tuo cuore, ti rigetta
alla città selvosa:
- Chiamo da fuori porta.
Dimmi subito che mi pensi e ami.
Ti richiamo sul tardi -.
Ma beffarda e febbrile tuttavia
ad altro esorta la sirena artigiana.
Insiste che conta più della speranza l’ira
e più dell’ira la chiarezza,
fila per noi proverbi di pazienza
dell’occhiuta pazienza di addentrarsi
a fondo, sempre più a fondo
sin quando il nodo spezzerà di squallore e rigurgito
un grido troppo tempo in noi represso
dal fondo di questi asettici inferni.


B) Nulla è sicuro, ma scrivi

A CHI ESITA
Bertolt Brecht
(da “Poesie di Svendborg”, Einaudi 1939, trad. di Franco Fortini)

Dici:
per noi va male. Il buio
cresce. Le forze scemano.
Dopo che si è lavorato tanti anni
noi siamo ora in una condizione
più difficile di quando
si era appena cominciato.

E il nemico ci sta innanzi
più potente che mai.
Sembra gli siano cresciute le forze. Ha preso
una apparenza invincibile.
E noi abbiamo commesso degli errori,
non si può negarlo.
Siamo sempre di meno. Le nostre
parole d'ordine sono confuse. Una parte
delle nostre parole
le ha stravolte il nemico fino a renderle
irriconoscibili.

Che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto?
Qualcosa o tutto? Su chi
contiamo ancora? Siamo dei sopravvissuti, respinti
via dalla corrente? Resteremo indietro, senza
comprendere più nessuno e da nessuno compresi?

O contare sulla buona sorte?

Questo tu chiedi. Non aspettarti
nessuna risposta
oltre la tua.


TRADUCENDO BRECHT
Franco Fortini
(da “Una volta per sempre”, Mondadori 1963)

Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov'erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d'un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l'odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.

Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.


C) J’Accuse!

A UN PAPA
Pier Paolo Pasolini
(da “Umiliato e offeso (epigrammi)1958” in “La religione del mio tempo”, Garzanti 1961)

Pochi giorni prima che tu morissi, la morte
aveva messo gli occhi su un tuo coetaneo:
a vent’anni, tu eri studente, lui manovale,
tu nobile, ricco, lui un ragazzaccio plebeo:
ma gli stessi giorni hanno dorato su voi
la vecchia Roma che stava tornando così nuova.
Ho veduto le sue spoglie, povero Zucchetto.
Girava di notte ubriaco intorno ai Mercati,
e un tram che veniva da San Paolo, l’ha travolto
e trascinato un pezzo pei binari tra i platani:
per qualche ora restò lì, sotto le ruote:
un po’ di gente si radunò intorno a guardarlo,
in silenzio: era tardi, c’erano pochi passanti.
Uno degli uomini che esistono perché esisti tu,
un vecchio poliziotto sbracato come un guappo,
a chi s’accostava troppo gridava: “Fuori dai ciglioni!”
Poi venne l’automobile d’un ospedale a caricarlo:
la gente se ne andò, restò qualche brandello qua e là,
e la padrona di un bar notturno, più avanti,
che lo conosceva, disse a un nuovo venuto
che Zucchetto era andato sotto un tram, era finito.
Pochi giorni dopo finivi tu: Zucchetto era uno
Della tua grande greggia romana ed umana,
un povero ubriacone, senza famiglia e senza letto,
che girava di notte, vivendo chissà come.
Tu non ne sapevi niente: come non sapevi niente
Di altri mille e mille cristi come lui.
Forse io sono feroce a chiedermi per che ragione
La gente come Zucchetto fosse indegna del tuo amore.
Ci sono posti infami, dove madri e bambini
Vivono in una polvere antica, in un fango d’altre epoche.
Proprio non lontano da dove tu sei vissuto,
in vista della bella cupola di San Pietro,
c’è uno di questi posti, il Gelsomino…
Un monte tagliato a metà da una cava, e sotto,
tra una marana e una fila di nuovi palazzi,
un mucchio di misere costruzioni, non case ma porcili.
Bastava soltanto un tuo gesto, una tua parola,
perché quei tuoi figli avessero una casa:
tu non hai fatto un gesto, non hai detto una parola.
Non ti si chiedeva di perdonare Marx! Un’onda
Immensa che si rifrange da millenni di vita
Ti separava da lui, dalla sua religione:
ma nella tua religione non si parla di pietà?
Davanti ai tuoi occhi sono vissuti in stabbi e porcili.
Lo sapevi, peccare non significa fare il male:
non fare il bene, questo significa peccare.
Quanto bene tu potevi fare! E non l’hai fatto:
non c’è stato un peccatore più grande di te.


FILASTROCCA DOC E POP DIDATTICA E DESCRITTIVA IN ONORE E GLORIA DI TUTTE LE GUERRE CHIRURGICHE
Edoardo Sanguineti
(da “Poesie fuggitive 1996-2001” Feltrinelli)

è Dyamila Boupacha:
la stuprarono i paras:

sta a sinistra, lassù, in alto:
fu fottuta al primo assalto:

non c'è scampo, non c'è cristi:
forza, e su, celoduristi!

sia lodata la tortura
che la verga la fa dura!

quanto a questi scarabocchi,
statti attento, che sono occhi:

qui c'è un corpo, che ti vede,
con la coscia, con il piede:

vede tutti, anche Massu:
vede te, se guardi tu:

ieri, guerra primitiva:
sangue, sperma, carne viva:

filo elettrico si usava,
fil di ferro si portava:

ma il conflitto oggi è arricchito:
c'è l'uranio impoverito:

perepè di putipù,
ce lo chiamano il dì ù:

via i ciglioni, floppy i cazzi,
l'intelletto l'hanno i razzi:

con ciennenne, in alto i cuori,
fuochi e fiamme a tre colori:

la battaglia è in tricromia:
strisce, stelle, e così sia!

lascia stare fiche e peni,
questo è tempo da iracheni:

cazzi sì, ma cazzi amari,
pensa i serbi, i kosovari:

toccò un dì alla marsigliese:
la nona, oggi, fa le spese:

canta, canta, bel soldato,
marcia ai ritmi della nato!

viemmi dietro, stammi attento,
viene qui il divertimento:

salto un mostro tutto denti,
corro al cuore degli eventi:

passo infatti ai generali,
scendo giù per diagonali:

non ti fare le paure,
sta' fedele alle figure:

decorati mezzibusti,
non c'è un cane che li frusti:

prima osserva a mano manca,
che il tuo sguardo non si stanca:

come volle chi dipinse,
quello è in fascia, che lo strinse:

LA MORALE è scritta bene,
che, a un eroe, ben si conviene:
tiene in bocca, bella e buona,
la madonna, giusta icona:

guerra santa, quello è un pio,
macellaio del buon dio:

guerra giusta, a gonfie e vele
ti massacro l'infedele:

poi, su un cuore madornale,
tiene papa e cardinale:

salto svelto a destra mano:
faccio pausa, piano piano:

questo è duce, ha le mostrine,
che gli fanno due freccine:

LA MORT, scritta in verticale,
spiega chiara l'animale:

se non sei cieco né tonto,
taglio corto ogni racconto:

sopra il fiero condottiero,
sta, lì crudo, un segno nero:

quella croce, lì, uncinata,
è la svastica dannata:

ci fa a pezzi le persone,
ci è la vera religione:

sprofondata sia in inferno,
giù ci crepi, in sempiterno:

il fascismo maledetto
ci è il demonio iperperfetto:

e non serve l'esorcismo,
finché c'è il capitalismo:

se uno sfrutta, e uno è sfruttato,
un rimedio non ci è dato:

non ci serve la pazienza,
se non c'è che concorrenza,

se ci regola il mercato,
se ci domina il privato,

se l'umano ci è flessibile,
se ogni viscere è vendibile:

noi si crepa in oppressione,
noi non si ha liberazione:

balla e canta, gira in tondo,
così gira il nostro mondo:

chiudo qui la canzonetta,
è già lunga, e tengo fretta:

già è scoppiata nuova guerra:
cari culi, giù, per terra!

D) Il dramma della registrazione

IN LUOGO DI PREFAZIONE
Anna Achmatova
(da “Poema senza eroe”, Einaudi 1966, traduzione di C. Riccio)

Nei terribili anni della "ezòvscina" ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi riconobbe. Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all'orecchio (lì tutti parlavano sussurrando):
-Ma lei può descrivere questo?
E io dissi: -Posso.
Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto.


IL NOME DI MARIA FRESU
Andrea Zanzotto
(da “Idioma” in “Poesie 1938-1986”, Mondadori 1993)

E il nome di Maria Fresu*
continua a scoppiare
all’ora dei pranzi
in ogni casseruola
in ogni pentola
in ogni boccone
in ogni
rutto – scoppiato e disseminato –
in milioni di
dimenticanze, di comi, bburp.

*Maria Fresu è rimasta letteralmente polverizzata dalla bomba alla stazione di Bologna, tanto che si dubitò a lungo se fosse realmente stata tra le vittime. Ridotta unicamente al suo nome (nda)


ECCE VIDEO
Valerio Magrelli
(da “Altre poesie”, Einaudi 1996)

In memoria di E.H.
ritrovato nel suo appartamento
nove mesi dopo il decesso
seduto davanti alla tv
Morì fissando il suo Televisore
la sfera di cristallo del presente,
guardava il Niente e ne vedeva il cuore,
cercava il Cuore e non vedeva niente.

Chi sfidò il lezzo del buio malfermo
si accorse che veniva dall'Illeso,
non dal Morto, ma dal Morente Schermo,
non dal Corpo, bensì dal Video acceso.

Carogna divorata dagli insetti,
il Monitor frinisce e brilla breve
senza più palinsesti e albaparietti.

La Sua vita larvale svanì lieve
(goal, quiz, clip, news, spot, film, blob, flash, scoop, E.T.)
circonfusa di niente, effetto neve.



E SE MI METTESSERO IN GALERA
Giancarlo Sissa
(da “Il mestiere dell’educatore”, Book editore 2003)

E se mi mettessero in galera
almeno potrei riposare
pregare ad esempio
che certe sere di sole cazzate
potevo inventarle due preghiere
che qualche volta la rabbia
si poteva dire non solo
urlare - ma troppo smarriti altri
nell'affanno di guadagnare -
e poi non sono io che sono
bravo adesso ma il bambino
che non vuole più scordare
di essere sé stesso, così
non chiedere perché o cosa

fa un educatore - guadagnare
nemmeno se lo sogna - invidia
la verità dell'operaio
la fatica del muratore.

Mario Luzi

pro memoria

Lo stato attuale delle cose: la trasformazione progressiva della res publica in governo padronale di azienda, la tendenza visibile dello stesso governo a fagocitare ogni ente o istituto concorrente nel campo primario dell'informazione e dell'espressione (radio, televisione, editoria) e la maggior parte della variopinta fabbrica della ricchezza e del consenso (pubblicità, assicurazioni, ecc.), la collusione pattuita con i signori della produzione e il discredito sistematicamente gettato sul lavoro, i suoi diritti e la sua tutela, l'ostilità sempre meno occulta verso gli uomini che non si possono comprare, per non parlare di ciò che di arbitrario e distorto si consuma nel campo giudiziario, l'attacco alla Costituzione: tutto ciò rende anche troppo motivato il tema di questo confronto. Spero che sia utile per orientarci noi cittadini italiani e per svegliare i nostri connazionali dal loro letargo, dal sonno della loro ragione.

(Mario Luzi, intervento al convegno "Italia, la resistibile caduta della democrazia", École Normale Supérieure, 12 gennaio 2002, quindi in Le Monde)