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Lo Spirito delle Leggi (1747 – 48) - Montesquieu





lunedì 20 ottobre 2003 legge Orazio Pescatore
Alle metà del Settecento risalgono alcune pagine de Lo Spirito delle Leggi di Montesquieu, che a giusta ragione possono essere definite "rivoluzionarie". Sono quelle sull’autonomia dei poteri dello Stato. Lì sta la garanzia delle libertà di tutti.

Prima di allora, la realtà e le istituzioni politiche non erano mai state interpretate in tal modo, dopo di esse ogni democrazia occidentale non potrà fare a meno di confrontarsi con i principi in esse delineati. Questo magistrato aristocratico, rappresentante della nobiltà di toga, per primo e con estrema chiarezza, pone infatti il principio della separazione dei poteri e della indipendenza del potere giudiziario quale imprescindibile fondamento di uno Stato che voglia essere democratico e finalizzare la sua attività alla "libertà dell'individuo". 
A queste pagine ed a questo principio saranno ispirate, al di là delle intenzioni dello stesso Montesquieu, dapprima le dichiarazioni dei diritti delle Carte di fine '700 e quindi le successive Carte Costituzionali delle democrazie occidentali, che possono essere lette come particolari modulazioni del principio della separazioni dei poteri. 
Tutt'oggi una delle principali questioni poltico-istituzionali che si pone è quella di individuare quale sia la funzione e quali siano i limiti della attività della magistratura nei rapporti con il potere politico, e quale sia il suo ruolo nella garanzia dei diritti dei cittadini.
Il magistrato Orazio Pescatore leggerà queste pagine, collegandole alle ideologie di diverse epoche storiche – non esclusa la nostra, evidentemente.



Montesquieu
LIBRO UNDECIMO
Delle leggi che fondano la libertà politica nel suo rapporto con la Costituzione.

F. Modugno 
La separazione dei poteri, e il potere giudiziario nella Costituzione repubblicana

Costituzione Italiana Commento agli artt. 13, 101 e 104

Magistratura Democratica (settembre 2003)
La controriforma 
dell’ordinamento giudiziario


www.labottegadellelefante.it Ass.elefante@libero.it

In epigrafe


"Non ci vuole molta probità perché un governo monarchico e un governo dispotico si mantenga o si sostenga. La forza delle leggi nell'uno, il braccio del principe nell'altro regolano e tengono a freno tutto. Ma in uno Stato popolare ci vuole una molla in più, che è la VIRTU'. [... ]
Poiché è chiaro che in una monarchia, dove chi fa eseguire le leggi si giudica la di sopra delle leggi stesse, si ha minor virtù che in un governo popolare, dove chi fa eseguire le leggi sente di esservi sottomesso lui stesso. 
Quando tale virtù cessa, l'ambizione entra nei cuori che possono riceverla, e in tutti entra l'avarizia. I desideri cambiano oggetto: quello che si amava, non lo si ama più; si era liberi con le leggi, si vuol essere liberi contro di esse; ogni cittadino è come uno schiavo fuggito dalla casa del padrone; quello che era massima, lo si chiama rigore;quello che era regola, lo si chiama impaccio; quello che era riguardo, lo si chiama paura. E' la frugalità che passa per avarizia, e non la brama di possedere. Un tempo i beni dei privati formavano il tesoro pubblico; ma ora il tesoro pubblico diventa il patrimonio dei privati. La repubblica è un guscio vuoto; e la sua forza non è più che il potere di alcuni cittadini e la licenza di tutti" (Montesquieu 1747 - 48)


L'autonomia del potere giudiziario nel pensiero di Montesquieu

Ch. L. De Secondat de Montesquieu, Lo Spirito delle Leggi (1747-48),ed. it. di G. Morandi, in N. Matteucci, Antologia degli scritti politici del Montesquieu, Bologna, II Mulino, 1961, pp. 145-159, quindi Milano, Rizzoli 1989, 2 voll., pp. 308 e sgg.

LIBRO UNDECIMO
Delle leggi che fondano la libertà politica nel suo rapporto con la Costituzione.
[...]
III. Che cos'è la libertà. È vero che nella democrazia il popolo sembra fare ciò che vuole: ma la libertà politica non consiste affatto nel fare ciò che si vuole. In uno Stato, cioè in una società regolata da leggi, la libertà consiste unicamente nel poter fare ciò che si deve volere e nel non essere costretti a fare ciò che non si deve volere.
Occorre avere ben presente che cosa sia l'indipendenza e che cosa sia la libertà. La libertà e il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono: infatti, se un cittadino potesse fare ciò che esse proibiscono non avrebbe più libertà, poiché anche gli altri acquisterebbero un tale potere.

IV. Sullo stesso argomento. La democrazia e la monarchia non sono affatto Stati liberi per loro natura. La libertà politica non si trova che nei governi moderati. Ma non sempre è presente negli
Stati moderati; essa vi si trova soltanto quando non vi sia abuso di potere. Tuttavia un'esperienza di secoli mostra come qualsiasi uomo che si trovi ad avere il potere, sia portato ad abusarne, finché non gli vengano posti dei limiti. Chi lo direbbe! Persino la virtù ha bisogno di limiti.
Perché non si possa abusare del potere, bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere argini il potere. Una costituzione può essere tale che nessuno sia costretto a fare le cose a cui la legge non lo obbliga e a non fare quello che la legge permette. [...]

VI. Della costituzione inglese. Vi sono in ogni Stato tre specie di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, ed il potere esecutivo delle cose
che dipendono dal diritto civile.
Grazie al primo, il principe o il magistrato fa delle leggi per un certo tempo o per sempre e emenda o abroga quelle che sono già fatte. Grazie al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve ambasciate, organizza la difesa, previene le invasioni. Grazie al terzo, punisce i delitti, o giudica le controversie dei privati. Chiameremo quest'ultimo potere giudiziario e l'altro semplicemente potere esecutivo dello Stato.
La libertà politica è quella tranquillità di spirito che la coscienza della propria sicurezza da a ciascun cittadino; e condizione di questa libertà è un governo organizzato in modo tale che nessun cittadino possa temerne un altro.
Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura, il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non esiste libertà; perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano delle leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente.
E non vi è libertà neppure quando il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: poiché il giudice sarebbe il legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore.
Tutto sarebbe perduto se un'unica persona, o un unico corpo di notabili, di nobili o di popolo esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le risoluzioni pubbliche e quello di punire i delitti o le controversie dei privati.
Nella maggior parte dei regni europei il governo è moderato, perché il principe, che ha i due primi poteri, lascia ai propri sudditi l'esercizio del terzo. Presso i Turchi, dove questi tre poteri sono riuniti nella persona del sultano, regna uno spaventoso dispotismo.
Nelle repubbliche italiane, dove questi tre poteri sono pure riuniti, troviamo meno libertà che nelle nostre monarchie. Perciò il governo ha bisogno, per sostenersi, di mezzi altrettanto violenti di quelli adottati dal governo turco; prova ne siano gli inquisitori di Stato1 e la cassetta in cui qualsiasi delatore può, in qualsiasi momento, gettare con un biglietto la propria accusa.
Considerate quale può essere la situazione di un cittadino in queste repubbliche. Lo stesso corpo di magistratura ha, come esecutore delle leggi, tutto il potere che si è attribuito come legislatore. Può devastare lo Stato con le sue volontà generali e, poiché detiene anche il potere giudiziario, può annientare qualunque cittadino con le sue volontà particolari.
In un tale Stato il potere è tutto riunito; e benché non vi sia la pompa esteriore che caratterizza il principe dispotico, la tirannide si avverte ad ogni istante. Per questa ragione i principi che hanno voluto regnare con il dispotismo, hanno sempre cominciato con l'avocare a sé tutte le magistrature, e diversi re d'Europa tutte le grandi cariche dello Stato.

Il potere giudiziario non deve essere affidato ad un senato permanente, ma esercitato da persone elette tra il popolo in certi periodi dell'anno, nei modi prescritti dalla legge, per formare un tribunale che duri solamente il tempo che la necessità richiede.
In tal modo, il potere giudiziario, tanto terribile tra gli uomini, non essendo legato né a un certo stato, né a una certa professione, diviene, per così dire, invisibile e nullo. Non si hanno continuamente dei giudici dinanzi agli occhi: si teme la magistratura, non i magistrati.
Occorre anche che, nei grandi processi, l'imputato, per legge, possa scegliersi i propri giudici; o che almeno ne possa rifiutare tanti che i rimanenti risultino, in un certo senso, come scelti da lui. Gli altri due poteri potrebbero invece essere affidati a magistrati o a corpi permanenti. Essi infatti non si esercitano nei confronti di alcun individuo; in quanto uno rappresenta la volontà generale dello Stato, l'altro l'esecuzione di tale volontà generale.

Ma se i tribunali non debbono essere fissi, i giudizi debbono esserlo al punto di non riportare mai altro che il testo preciso della legge. Poiché, se essi rappresentassero un punto di vista particolare del giudice, allora si vivrebbe nella società senza conoscere mai esattamente gli impegni che vi si contraggono.
Occorre inoltre che i giudici siano della condizione dell'accusato, o suoi pari, perché questi non debba nutrire il sospetto di esser caduto tra le mani di persone portate a usargli violenza.[….]
Poiché, in uno Stato libero, ogni uomo presumibílmente dotato di uno spirito libero deve governarsi da sé, bisognerebbe che tutto il popolo esercitasse il potere legislativo. Ma essendo ciò impossibile nei grandi Stati e soggetto a molti inconvenienti nei piccoli, occorre che il popolo faccia per mezzo dei suoi rappresentanti tutto ciò che non può fare da sé. [….]

Questi tre poteri dovrebbero rimanere nella quiete, nell'inazione. Ma siccome, per il moto necessario delle cose, sono costretti ad avanzare, saranno così obbligati ad avanzare di conserva. [….]

XX. Fine di questo libro. Vorrei ricercare, nei governi moderati che conosciamo, quale sia la distribuzione dei tre poteri, e calcolare da quella il grado di libertà di cui ciascuno di essi può godere. Ma non bisogna mai esaurire un argomento a punto tale da non lasciar niente da fare al lettore. Non si tratta di far leggere, ma di fa pensare.


F. Modugno 
La separazione dei poteri, e il potere giudiziario nella Costituzione repubblicana
Estratto da: F. Modugno, Poteri (divisione dei), voce del Novissimo digesto italiano, Torino, Utet 1968, vol. XIII, pp. 483-489
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Il principio organizzativo della divisione dei poteri non è esplicitamente riconosciuto. nella nostra Costituzione vigente, a differenza di altre Costituzioni storiche. La dottrina dominante, per altro, lo considera con certezza implicito in molte disposizioni della Il parte concernente l’«Ordinamento della Repubblica » o, comunque, nel sistema del nostro diritto. Si è visto che il principio può essere inteso in un senso prevalentemente organizzativo formale e in un senso più propriamente funzionale sostantivo, anche se a rigore, e specie con riguardo alle formolazioni moderne della teoria, i due aspetti risultino difficilmente separabili. Si vuol dire che «divisione dei poteri» può significare tanto separazione e coordinamento tra organi o gruppi di organi costituzionali, quanto rípartizione tendenzialmente esclusiva di funzioni diverse tra organi differenti. Il secondo significato, poi, com'è ovvio, implica il primo e non può prescinderne. Si è anche veduto come gli organi costituzionali tradizionalmente considerati dalla teoria della divisione dei poteri siano tre e precisamente il Parlamento, il cosiddetto potere esecutivo, e il corpo dei giudici o magistrati, e, corrispettivamente, come tre siano pure le funzioni attribuite distributivamente a questi organi: normativa, esecutiva o amministrativa e giurisdizionale. A questo parametro bisogna rifarsi per analizzare la nostra Costituzione vigente e per stabilire se e quanto di « divisione dei poteri » sia in essa contenuto. […]

Edit by Giorgio Tsiotas Così basta un primo panoramico sguardo per accorgersi che gli organi costituzionali esplicitamente contemplati e posti, per cosí dire, su un primo e piú elevato piano sono almeno sei, un numero doppio rispetto a quello di tre che la teoria tradizionale richiederebbe. Né il doppio può essere considerato un semplice raddoppiamento: se ancora nel cosiddetto potere esecutivo potrebbe farsi rientrare, in fatti, ad una prima approssimativa sistemazione, il Presi dente della Repubblica (titolo II) accanto al Governo (titolo III), e ancora nel potere giudiziario, in qualche modo, potrebbe inquadrarsi la Corte costituzionale (titolo VI, sez. I) accanto alla Magistratura (titolo IV), certamente l'esistenza e la rilevanza costituzionale degli enti territoriali (titolo V) e, in particolare, delle Regioni dotate di attribuzioni legislative non può certo indurre a ravvicinare tali enti al Parlamento (titolo I), rappresentando essi piuttosto ? con la loro presenza e rilevanza costituzionale ? un principio organizzativo completamente diverso dalla « divisione dei poteri».
Cosí il principio di divisione non sembra certamente l'unico principio organizzativo dei pubblici poteri, né pure secondo l'astratta predisposizione e previsione costituzionale. Esso si troverebbe già combinato con un altro principio, diverso e ad esso logicamente irriducibile, quale quello del decentramento territoriale a rilevanza costituzionale, per cui già, in qualche modo, la figura dello Stato persona, al1'interno del quale, pure, dovrebbe seguitare a vigere quel primo tradizionale principio, non rappresenterebbe piú l'unica soggetivizzazione, l’unico centro del potere ? ciò che ha infatti storicamente costituito il massimo problema della teoria della divisione dei poteri ?, ma si ridimensionerebbe o rimpicciolirebbe per lasciare posto ad altri supporti della sovranità. La divisione dei poteri, già solo per questo, verrebbe ad assumere una importanza secondaria e subordinata, manifestantesi, se mai, all'interno dei fondamentalí centri di poteri, rappresentati da questo punto di vista, per dir cosí, orizzontale, dallo Stato e dagli altri enti territoriali. La topografia della Carta costituzionale non ci dà dunque, sotto l'aspetto formale-organizzativo, nessuna assicurazione che il principio della divisione dei poteri sia stato recepito nella sua veste storica o tradizionale. Anzi, la pluralità o molteplicità dei poteri, a rilevanza cosí macroscopicamente costituzionale, ci induce piuttosto a dubitare di una tale recezione. In questo senso già gli artt. 134 e 104, l° comma, invocati di solito a conferma dall'adozione del principio, nella loro indeterminatezza e nei loro significativi accostamenti (poteri, ordini, regioni), paiono piuttosto indicare che la nostra vigente Costituzione prevede non tre soltanto e non soltanto « poteri », ma diversi centri di potere, statuali e non statuali. 
Se poi si volesse intendere la formola « divisione dei poteri» in un senso lato e generico, indipendente dalla tradizione storica che abbiamo cercato di delineare supra, allora certamente nella nostra Costituzione una divisione dei poteri, rectius una divisione del potere, potrebbe rinvenirsi. Ma si tratterebbe di un'istanza fondamentale di ordine e di specificazione della sovranità, la quale, attribuita in principio al popolo, è da esso esercitata non disordinatamente e di fatto, ma secondo un ordine giuridicamente stabilito (« nelle forme e nei limiti della Costituzione »: art. 1, capov., Cost.). Se fosse vero che già l'art. 1, capov., Cost., nel richiedere una regola dell'esercizio del potere, richiamasse in sé e per sé il principio (storico) della divisione dei poteri, dovrebbe del pari affermarsi che tale principio sia ineluttabilmente presente in ogni Costituzione, scritta o non scritta, rappresentandone il necessario fondamento e la sua stessa possibilità. Si dovrebbe dire allora che esso finisca poi per confondersi con il principio generalissimo che l'esercizio del potere sia in qualche modo regolato e che non risulti indiscríminatamente e arbitrariamente privo di limiti. In tal senso potrebbe però affermarsi che non c'è stata e non c'è praticamente costituzione che non contenga siffatto principio. Viceversa il principio (storico) della divisione dei poteri è ritenuto proprio di talune costituzioni ed estraneo invece a molte altre. Non sembra pertanto che l'art. 1, capov., Cost. richieda tale specifico principio organízzativo, indicando semplicemente la presenza, nella nostra Costituzione, di forme e di limiti per l'esercizio della sovranità. Al contrario sembra esatta l'affermazione che l'art. 1, capov., Cost., con l'attribuzione della sovranità e dell'esercízio di essa al popolo permetta a quel principio, eventualmente richiamato da altre norme costituzionali, di assumere una configurazione più tecnica e meno politica, piú distaccata dalla concreta determinazione delle sottostanti e contrastanti forze sociali. Tale configurazione può farsi anzi tanto tecnica e tanto strettamente dipendente dalle diverse disposizioni costituzionali da finire per rappresentare, piú che lo stesso principio storico della divisione dei poteri quello che a taluno è parso un suo derivato: il principio di competenza. Ma, anche in tal modo, non si finisce che per trovarsi fuori, come si vedrà, dal principio della divisione dei poteri tradizionalmente inteso. [….]
…….il Presidente della Repubblica non può considerarsi a capo dell'esecutivo, ma piuttosto tende ad assumere una posizione autonoma di collegamento e di interferenza tra i vari complessi organici a rilevanza costituzionale (come è stato detto: interpotere) e, per taluno, sovrastante i tradizionali poteri (superpotere), per cui, víceversa, appare forse meglio invocabile, per intendere il significato di queste funzioni del Presidente nei rapporti organici col Parlamento, la già ricordata teoria del potere neutro con le sue implicazioni tendenti ad assicurare l'impulso, il coordinamento e il corretto funzionamento dei poteri e con gli sviluppi di carattere storico?politico che ne sono oggi derivati, legati alle vicissitudini del governo parlamentare, alla razionalizzazione di quest'ultimo, e all'esigenza di tutela delle minoranze minacciate dallo strapotere sempre incombente della maggioranza. Ma già questi sviluppi e la necessità istituzionale della tutela e del promovimento dei principi costituzionali, probabilmente affidati del pari all'opera del Capo dello Stato (oltre che della Corte costituzionale), potrebbero far dubitare dell'esattezza (storica) del ricorso alla vecchia teoria del potere neutro, meno neutro, del resto, già nelle intenzioni dei suoi formolatori e nel quadro storico dell'epoca, di quanto non sembri risultare dal significato dell'attributo. Anche sotto questo aspetto si mostra particolarmente problematico il richiamo alla divisione dei poteri.
L'altro organo costituzionale che sembra sconvolgere con la sua presenza la tradizionale teoria della «divisione dei poteri» e tutti i suoi storici accomodamenti è la Corte costituzionale. Qui però la nostra locuzione va letta piuttosto nel suo 'significato funzionale sostantivo, che non in quello organico formale. Siamo con ciò al discorso sugli eventuali residui nella nostra Costituzione delle implicazioni funzionali della teoria classica. Per il resto ? per i rapporti cioè. organico?formali tra poteri ? non sembra che, in presenza della figura del Capo dello Stato staccata dall'esecutivo, oltre che della portata assolutamente innovativa per tutto il sistema delle funzioni dei partiti politici, si possa ancora parlare dei classici stromenti di coordinamento tra poteri che la teoria della divisione dei poteri aveva escogitato. Piuttosto non è inopportuno ricordare che il potere giudiziario, con l'istituzione del Consiglio superiore della Magistratura, anch'esso peraltro presieduto dal Capo dello Stato, ha raggiunto in effetti una piú spiccata indipendenza dall'esecutivo, indipendenza la quale, d'altronde, sembra caratterizzare non soltanto ? conformemente alle pretese della teoria tradizionale ? i rapporti tra giudiziario ed esecutivo lato sensu ma anche, come si è visto, quelli tra Governo e Amministrazione, nell'ambito del cosiddetto potere esecutivo.
Come si vede, anche da questi cenni necessariamente tanto sintetici, le innovazioni sono tante e tali da limitare grandemente il significato di ciò che pure, sul piano organizzativo formale, della divisione dei poteri si possa ritrovare in costituzione.
La irriducibilità delle attribuzioni della Corte costituzionale alle tradizionali funzioni non ci permette poi di considerare quest'organo come organo giurisdizionale o legislativo, ma viceversa ci induce a raffigurarcelo come un ulteriore distinto potere e, questa volta, né pure forse semplicemente come un potere statuale, facente cioè certamente parte dello Stato persona. 
Basti pensare che le sue funzioni (controllo di legittimità costituzionale, conflitti di attribuzione) possono riguardare anche l'attività legislativa e amministrativa regionale che certamente non è attività dello Stato soggetto. Ora sembrerebbe difficilmente ammissíbile che un organo statuale possa poi, nell'esercizio della sua attività super partes, giudicare nei confronti dello stesso soggetto di cui è parte (difficoltà che si riproduce del resto anche per il potere giudiziario, il quale può decidere controversie di cui sia parte lo stesso Stato?persona) e soprattutto ? ciò che è peculiare alla Corte ? nei confronti di enti a rilevanza costituzionale estranei allo Stato, di cui, secondo l'ipotesi, esso giudice dovrebbe far parte. L'inammissibilità di tale evenienza ci induce a considerare la Corte costituzionale non tanto un « interpotere » come già il Capo dello Stato, quanto piuttosto un « superpotere ». Se poi le stesse difficoltà, anzi soltanto una parte di esse, dovessero indurre a considerare anche il potere giudiziario come un superpotere, in quanto giudice super partes nei confronti dello stesso Stato?persona, altre e più sconvolgenti conseguenze ne deriverebbero per la « divisione dei poteri ». La rafforzata autonomia che il giudiziario ha raggiunto con l'istituzione del Consiglio superiore della magistratura non andrebbe tanto inquadrata allora nello schema della tradizionale separazione, quanto piuttosto ricollegata alla posizione eminente che, nei confronti dello stesso Stato?persona (all'interno del quale soltanto può parlarsi tradizionalmente di divisione dei poteri) il potere giudiziario verrebbe a occupare. Analogamente, e a fortiori, tutti gli organi della giurisdizione amministrativa, a punto in quanto deputati a giudicare, come veri e propri giudici, nei confronti dello Stato?persona, dovrebbero staccarsi dall'Amministrazione per ricongiungersi funzionalmente, a un livello piú alto, alla Magistratura ordinaria. Ma a parte tutte queste considerazioni, che sono certamente molto discutíbili, sembra viceversa incontestabile che la Corte costituzionale, superpotere o interpotere che sia, costituisca un'altra figura organica ignota alla tradizionale teoria della divisione dei poteri, autonoma e indipendente, dotata perfino di attribuzíoni regolamentari sia pure integrative (di auto?organizzazione: art. 14, 1° comma, legge n. 87; art. 137, 30 comma, Cost.), analogamente a quanto avviene per il potere legislativo (articolo 64, al.). 
L'istituto dei «conflitti di attribuzione» poi, riguardando « i poteri dello Stato », a parte ora ogni considerazione sulle altre ipotesi di conflitto, è la letterale smentita della teoria tradizionale della divisione. Se anche la Corte costituzionale fosse un potere, che sorta di divisione dei poteri sarebbe mai quella che ammette tanto esplicítamente la incontrollata premínenza di uno tra essi? Né è ravvisabile, come almeno teoricamente poteva sostenersi in regime parlamentare o perfino convenzionale, uno strumento (lo scioglimento) disposto ad impedire il dilagare della onnipotenza delle Camere: al nostro sistema costituzionale rigido, custodito dalla Corte costituzionale.

Costituzione Italiana
Commento agli artt. 13, 101 e 104
Estratto da: [E’] viva la Costituzione, Bologna, Gedit 2003
Art. 13. - La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.
E' punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.
Questo articolo apre la sezione della carta costituzionale che prende in esame analiticamente le libertà fondamentali ed inviolabili dell'uomo. Si tratta di una serie di diritti in cui la libertà viene tutelata in sé, a prescindere da un suo effettivo esercizio. Essi infatti si connotano soprattutto in negativo, e cioè come divieto di intrusioni altrui, ovvero come diritto di escludere che altri (pubblici o privati) possano interferire nella ambito di cui si è titolari.
Al primo posto, sia perché si tratta del presupposto essenziale per lo svolgimento della altre libertà, sia per la particolare invasività che la sua violazione comporta, viene garantito il diritto alla libertà personale, e quindi alla disponibilità del proprio essere corporeo.
A garanzia della stessa viene posta una riserva di giurisdizione; vale a dire che si afferma che la libertà di un individuo può essere violata solo da parte dell'Autorità giudiziaria, la quale per altro deve agire motivando i propri provvedimenti, e quindi in modo tale da rendere trasparente e controllabile la sua attività.
Si aggiunge poi la garanzia della "riserva di legge", laddove si specifica che l' A.G. non solo non può agire senza limiti, bensì unicamente nei casi e modi espressamente dalla legge, e quindi di una fonte di diritto primaria . La dizione "nei casi e modi" indica poi che non si deve trattare di una legge che si limiti a disciplinare genericamente la materia, bensì si vuole la indicazione tassativa e precisa dei casi in cui è concesso alla A.G. di intervenire. In conclusione per aversi una limitazione della libertà personale, occorre che ciò sia previsto da una legge dello Stato con disciplina di tipo tassativo, che il provvedimento sia assunto dalla A.G., la quale deve motivare congruamente il perché del medesimo.
Nel comma successivo si disciplinano casi particolari in cui una limitazione della libertà è consentita alle Autorità di P.S.. Si tratta di una norma di stretta interpretazione, che disciplina casi residuali ed eccezionali, e che è attenta a non intaccare la titolarità che compete alla A.G. nel settore. Infatti essa trova applicazione solo in casi "eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge " (il più noto e ricorrente è quello dell'arresto in flagranza), che consentano l'adozione di "provvedimenti provvisori", in quanto destinati a decadere qualora non siano convalidati entro 48 h. dalla A.G.
Dal combinato di tali due commi si deriva altresì implicitamente la indicazione della funzione giudiziaria, come precipuamente preposta alla osservanza delle garanzie costituzionali della persona, nonché funzione a cui compete anche un obbligo di verifica e controllo dell'agire del potere esecutivo (da cui dipendono le Autorità di P.S.): è la implicita configurazione del c.d. terzo potere dello stato, che verrà più volte ribadita anche negli articoli successivi.
Viene poi chiarito che se forme di violenza sono possibili per apprendere o bloccare una determinata persona, una volta che questi si trovi in istato di detenzione o arresto non solo vi è divieto di ulteriori violenze, intese anche come vessazioni di tipo morale o degradanti della personalità, ma le stesse debbono essere sanzionate. E' il principio della intoccabilità della persona detenuta o arrestata, che prende le mosse dalle note tesi di Beccarla contro la tortura. Questa norma tende a garantire che anche i successivi atti processuali debbono esser condotti senza pressioni, anche morali, e con il detenuto in condizioni di piena libertà di autodeterminarsi.
Con l'ultimo comma si pone un limite di durata allo stato detentivo, ancorché sia stato adottato secondo legge, in pendenza di un processo penale. Si ritiene in ogni caso intollerabile che la privazione di libertà (carcerazione preventiva) di una persona possa protrarsi irragionevolmente ed illimitatamente, senza che vi sia stata una condanna definitiva.
Art. 101. - La giustizia è amministrata in nome del popolo.
I giudici sono soggetti soltanto alla legge.
Questo articolo apre la sezione della carta Costituzionale dedicata all'ordinamento giurisdizionale" E' pertanto apparso opportuno riaffermare innanzitutto che anche i provvedimenti posti in essere da tale "potere" sono espressione della sovranità Stato e quindi "anche la sovranità, dalla quale la giurisdizione deriva, procede dal popolo, al pari della sovranità della Repubblica" (On. Nobili Tito Oro). 
Il secondo comma muove implicitamente dal presupposto specifico della funzione giurisdizionale, e cioè quello di interpretare ed applicare le leggi nell'ambito di controversie relative a determinati soggetti (i provvedimenti giudiziari quindi non valgono per la generalità, ma vincolano solo le parti in causa). Può pertanto affermarsi che tale comma innanzi tutto riconosca che il potere di interpretare le leggi nell'ambito di controversie individuali è funzione precipua dell'ordine giudiziario.
Nell'adempimento di tale funzione il giudice è soggetto soltanto alla legge. La parola qualificante della frase è il "soltanto", poiché rende esplicito che nel suo compito il giudice deve muoversi in un rapporto diretto con il dettato delle norme da applicare, senza subire influenze di alcun altro tipo. E' il fondamento cardine della indipendenza del giudice: "L'indipendenza del giudice consiste nell'autonoma potestà decisionale, non condizionata da interferenze dirette ovvero indirette provenienti dall'autorità di governo, ovvero da qualsiasi altro soggetto" ; "il principio della indipendenza è volto a garantire l'imparzialità del giudice, assicurandogli una posizione super partes che escluda qualsiasi, anche indiretto, interesse nella causa da decidere. A tal fine la legge deve garantire l'assenza, in ugual modo di aspettative di vantaggi e di situazioni di pregiudizio, preordinando gli strumenti atti a tutela della obbiettività della decisione. La disciplina dell'attività del giudice deve perciò essere tale da rendere quest'ultima immune da vincoli che possano comportare la sua soggezione, formale o sostanziale, ad altri organi, mirando altresì, per quanto possibile, a renderla libera da prevenzioni, timori, influenze che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e conoscenza" .