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Una recensione su Benjamin-un’analisi ariostesca-una narrazione sulle “ferite di terra” - Mario Spinella


martedì 01 giugno 2004 legge Paolo Bollini

Mario Spinella (1918 – 1994) è stato un grande intellettuale, ma rigorosamente non-appariscente. Critico letterario dell’Unità e di Rinascita, romanziere (Lettera da Kupjansk e Memoria della Resistenza sono i titoli più conosciuti), fondatore di riviste italiane di grandezza europea (Il piccolo Hans, Alfabeta fra le altre), organizzatore culturale (Casa della Cultura di Milano), ma soprattutto amico, collaboratore, compagno di tanti, da Saba a Vittorini a Volponi, i funzionari del PCI come Alessandro Natta (suo collega alla Normale di Pisa), e ancora Franco Fortini, Umberto Eco, Andrea Zanzotto, Ernesto Treccani, Paolo Grassi e, si può dire, tutti gli intellettuali e gli scrittori dagli anni Cinquanta in poi. Eppure era schivo, modesto, un semplice lavoratore della cultura. Militante comunista, non volle mai diventare direttore né presidente di nulla.Se si raccogliessero le sue recensioni e i suoi interventi critici, che sono migliaia, si potrebbe avere un mosaico di ampiezza ineguagliabile del ‘900 letterario, nelle sue implicazioni storiche e filosofiche, politiche, metodologiche. Fu un lettore di professione; uno scrittore per passione.
I suoi punti cardinali furono Gramsci (memorabile l’antologia gramsciana che curò insieme a Salinari) e Marx, ma anche Freud e la psicoanalisi di Lacan, Virginia Woolf e il gruppo di Bloomsbury, Benjamin e la Scuola di Francoforte, e ancora Guicciardini e Senofonte e Machiavelli, e lo studiatissimo Gadda, e l’amatissimo Ariosto. Una costellazione ampia e molto originale, per un marxista rigoroso come lui.
Verranno offerti tre esempi di come lavorava Mario Spinella.
Una recensione a un libro di Benjamin, per mostrare come leggeva e stimolava a leggere – attraverso quali strade passava la sua sensibilità, come sapeva impostare il dialogo con gli altri lettori.
Un breve saggio sulla “follia di Orlando”, che rimane un’esemplare analisi ariostesca – condotta con metodo ariostesco, concreta e fantastica.
Una narrazione sulle “ferite di terra” che gli toccò di vedere nella sua vita – la natura offesa e ferita, l’immagine della condizione umana.




Una recensione [1979]

Walter Benjamin, critico militante


Militante, stranamente, si dice a proposito degli aderenti ai partiti politici, soprattutto operai, o ai sindacati; e si dice anche dei critici, quasi dovessero essere adepti di una scuola o di un gruppo. Non di tutti i critici, tuttavia, ma soltanto di quelli che si occupano di letteratura contemporanea: quasi questa rappresentasse una forma di lotta.
Vi sono però i segni di uno scadimento del termine, e dell’aggettivo. La letteratura perde d’importanza rispetto ad altri strumenti di comunicazione, la funzione del critico sembra sempre più essere neutra, “scientifica”, quando non peggio: di strumento di un apparato editoriale, di impiegato (subalterno) dell’industria culturale. E può accadere, addirittura, che la “critica “ si riduca alla parafrasi delle veline degli uffici stampa.
Su tutto ciò ha detto cose di grande interesse Gian Carlo Ferretti in Il mercato delle lettere. Industria culturale e lavoro critico in Italia dagli anni cinquanta a oggi (Torino, Einaudi, 1979), particolarmente nel capitolo su “La critica letteraria: condizionamenti, ruoli e mansioni”. A questo libro rimandiamo chi voglia guardar dentro ai meccanismi odierni che conducono, o possono condurre, al deperimento della critica.
Per contrasto, la scelta di critiche e recensioni di Walter Benjamin pubblicata recentemente da Einaudi (Torino, 1979, pp. 366, L. 8000. Traduzione di Anna Marietti Solmi) ci riporta ad alcune funzioni della critica che non solo l’industria editoriale, ma anche una impostazione metodologica (esporre, analizzare, ma non “giudicare”) vorrebbe obliterare. Benjamin si presenta in questi scritti come portatore di una determinata immagine della cultura, cui corrisponde esplicitamente un “punto di vista” critico. Gli anni cui risalgono questi testi (1924 – 1940) sono anni di enorme tensione politica e ideale; e Benjamin, anche a costo di incorrere talvolta in ciò che a distanza di tempo può apparire una qualche ingenuità, “prende posizione”. Comunista, o vicino ai comunisti, non sa non assumere, per esempio, un atteggiamento che oggi può apparirci per lo meno eccessivamente simpatetico nei confronti di una spesso mediocre pubblicistica letteraria ispirata ai piani quinquennali e alla “costruzione del socialismo”. Ma, anche in questo caso, sa farlo sempre con misura e buon gusto.
Ci è venuta alla penna quest’ultima espressione: “buon gusto”, che potrebbe far pensare a una critica esercitata in nome del “gusto”, contro la quale levò i suoi strali a suo tempo Galvano della Volpe. Vero è invece che con Benjamin ci muoviamo su tutt’altro terreno, che è quello dell’intelligenza, della curiosità intellettuale, dell’attenzione non solo ai testi – come oggi si direbbe – ma ai contesti. Per Benjamin un libro – si tratti delle Lettere a Massimo Gorki di Lenin, o di Immagini fotografiche di piante, di Karl Blossfeld, “significa”: si inserisce cioè in uno specifico ambito, o discorso, sociale, culturale, o – quando occorra – politico. Perciò la critica di Benjamin è sempre commento, glossa, tassonomia: tende a inserire, con l’esattezza di un artista del mosaico, ogni prodotto culturale nella casella giusta, consapevole che il suo colore, e insieme il suo riverbero, vanno letti nel quadro complessivo. Che è poi un “cartone”, in continua modificazione, ma con alcuni assi di simmetria stabili e definiti, almeno in senso epocale.
Perciò ci si riferiva agli anni in cui queste recensioni vennero scritte. A comprenderne taluni aspetti emergenti, culturali e politici (nel senso almeno in cui la politica si intreccia con la cultura e spesso la condiziona) questi brevi scritti di Benjamin appaiono come documenti – sia pur micrologici – essenziali: colpi di sonda, fori di trivelle al di là della superficie, dei facili successi, dei giudizi correnti. E’ nota la stroncatura che – in altra sede – Benjamin fa di Karl Kraus, denunziandone il sostanziale conservatorismo e mettendo così in guardia dai troppi consensi che riscuoteva nell’ambiente viennese. Qui, in queste Critiche e recensioni troviamo un’altra presa di posizione, non meno severa: quella nei confronti di Max Brod, biografo di Kafka. “L’atteggiamento di Brod biografo è quello pietistico – vi leggiamo – di un’ostentata intimità; in altri termini l’atteggiamento più privo di pietà che si possa pensare”... “E’ forse necessario che il sacro è un ordine riservato alla vita sul quale il creare non può avere alcuna pretesa? E occorre forse dire – prosegue Benjamin – che il predicato del sacro, al di fuori di una concezione religiosa fondata nella tradizione, è semplicemente un fiore retorico?” Affermazioni cui fanno riscontro queste altre a proposito di Die Rettung (I sette della miniera) di Anna Seghers: “Lontano da lei è ogni intenzione di esibire descrizioni pietose. Il rispetto per il lettore, che le vieta il facile appello alla sua pietà, è unito, in lei, con il rispetto per la gente umiliata che ha costruito il suo modello”.
L’opposizione “rispetto/mancanza di rispetto”, esemplificata in quella Anna Seghers/Max Brod è una chiave canonica che attraversa, del resto, tutti questi testi. E ci dà ragione, anche, delle “ingenuità” di cui sopra si diceva nei confronti dei tentativi degli scrittori sovietici di elaborare una narrativa per il proletariato. Il fatto è che Benjamin ha un progetto – e se si vuole persino un suo modello – di comportamento “intellettuale e morale”; e su questo misura le varie opere che la sua curiosità gli suggerisce di prendere in considerazione. I libri diventano perciò per lui “fatti”, “azioni”, si inseriscono in un discorso polivalente, al cui fondo – in maniera esplicita – vi è l’idea della rivoluzione, lo sdegno per ogni “componente” che può addurre al fascismo. Compreso, appunto, il “pietismo” di un Max Brod.

(in “Il piccolo Hans” 22, aprile/giugno 1979, pp. 221-224)


Un’analisi [1977]

La follia di Orlando e la scrittura di Ariosto


Avrei voluto intitolare questa mia breve comunicazione Es kann dir nix g’scheen, “Nulla ti può accadere”: mi ha trattenuto il pudore di apparire sofisticato. Es kann dir nix g’scheen, “Nulla ti può accadere” è una citazione che Freud fa dello scrittore austriaco Ludwig Anzengruber, nella conferenza Il poeta e la fantasia, da lui tenuta il 6 dicembre 1907 a Vienna.
Scrive Freud: “Il senso di sicurezza con cui accompagnamo l’eroe nel corso delle sue paurose avventure è lo stesso di quello con cui nella vita reale un eroe si lancia in acqua per salvare uno che è in procinto di annegare, o si espone al fuoco nemico per andare all’assalto di una posizione avversaria; quel vero sentimento eroico che uno dei nostri migliori scrittori, Anzengruber, ha espresso in maniera stupenda: “Es kann dir nix g’scheen”. Ritengo però che attraverso questo traparente carattere dell’invulnerabilità si renda senza fatica riconoscibile Sua Maestà l’Io, l’eroe di tutte le fantasticherie come di tutti i romanzi”.
Sulla “invulnerabilità” di Orlando tornerò. Qui, nel contesto di un incontro che trae spunto dalla psicoanalisi, vorrei ancora ricodare che lo scritto citato di Freud, Il poeta e la fantasia, muove dal medesimo interrogativo che si poneva Hegel nel paragrafo C della prima parte delle sue Lezioni di estetica, là dove introduce, dopo l’analisi del “bello”, la figura dell’artista, la cui “attività” egli chiama, appunto, fantasia. Di più: da un confronto tra l’inizio di questo paragrafo e lo scritto di Freud sembra indubbio che questi avesse direttamente presente il testo hegeliano. Tra gli indizi che lo confermano vi è proprio il comune riferimento all’Ariosto, e, in maniera più specifica, il rifarsi sia di Hegel che di Freud al celebre aneddoto secondo il quale il cardinale Ippolito d’Este avrebbe domandato ad Ariosto, a proposito dell’Orlando Furioso: “Messer Ludovico, dove avete preso tutte queste corbellerie?”
Uno studioso positivista italiano, Pio Rajna, tanto benemerito della erudizione quanto sordo alla poesia ariostesca, aveva creduto a suo tempo di poter rispondere a questo interrogativo allineando minuziosamente le “fonti” del Furioso, a partire dal titolo, che è un calco sicuro dell’Hercules furens di Seneca (ma anche un incrocio tra questo titolo e l’Orlando innamorato di Boiardo) e giù giù, attraverso le fonti delle varie e multiformi vicende del poema, sino ai singoli versi, ovidiani, petrarcheschi, boiardeschi, ecc. inclusi nelle 4842 ottave che lo compongono.
Valga l’indiretta “risposta” che uno dei maggiori studiosi dell’Ariosto, Cesare Segre, dà nella sua Introduzione all’edizione mondadoriana del 1976: “Il poeta, proprio perché libero dalle suggestioni dirette della materia, poteva dominare e sublimare il mondo che con questa aveva costruito, anzi plasmarlo secondo le sue aspirazioni, a specchio dei suoi sogni. Così, accettata l’immersione del ciclo carolingio (epico) nell’atmosfera bretone o romanzesca della Tavola Rotonda; continuata l’alternanza tra utilizzazione dei romanzi francesi medievali (tanto apprezzati a Ferrara) e testi classici, l’Ariosto elaborò qualcosa di assolutamente nuovo”.
Rimane semmai aperta, a questo punto, l’analisi specifica delle funzioni che le così numerose “citazioni” ariostesche assolvono, e quella del loro carattere artisticamente pregnante, sulla linea delle indicazioni offerte da Michail Bachtin nei suoi appunti su Il problema del testo (1976 postumo, ma 1959 – ’61; idee elaborate molto prima) e nella sua lettura critica di Dostoievski, di Rabelais, di altri autori. Qui basti osservare, per inciso, e senza far ricorso al linguaggio tecnico, che almeno due di tali funzioni risultano evidenti a una lettura minimamente attenta.
La prima la definirei “funzione di memoria intratestuale” (Bachtin parla di “interconnessione semantica (dialettica) e dialogica tra i testi”). L’impiego reiterato di materiali già elaborati nel corso storico della produzione letteraria, sottolinea e arricchisce quella “dimensione del passato” che già il mero uso della lingua implica. E quando le “citazioni”, come nel caso di Ariosto, vengano assunte da contesti culturali e letterari così diversificati (latini, carolingi, bretoni, tradizione lirica (Petrarca), narrativa (Boccaccio), epica (Dante), italiane, per non parlare dell’immediato retroterra offerto dall’Innamorato), i piani di questo “passato” si fanno molteplici e si intersecano e il testo – ben lungi dal presentarsi come lineare – si raggruma in nodi temporali differenziati e differenziali, ove i “residui” (le “citazioni”) si muovono – se mi è lecita questa espressione – in avanti e in indietro, costruendo non tanto uno “spessore” del testo, ma un continuo variare e modificarsi di spessori, una mobilità interna, “dialogica”, potremmo dire ancora con Bachtin.
Altra funzione, anch’essa pregnante delle citazioni nel Furioso, è quella dell’ironia: un termine adoperato con molta frequenza dalla critica ariostesca, ma scarsamente sottoposto ad analisi. Non tentiamo neanche di definire una categoria così sottile e sfuggente: sappiamo quanto Freud – che era Freud – si è travagliato per cogliere le sfumature dell’arguzia, del comico, dell’umorismo.
Ricorrerò piuttosto a un esempio, del resto celeberrimo. Nell’Innamorato (Libro I, Canto III) Orlando e Ferraguto duellano per il possesso di Angelica addormentata. Questa si sveglia e fugge, “e via fuggendo va per la foresta”.
Boiardo prosegue:

“Alora Orlando de ferir se arresta

79

E dice: - Cavallier, per cortesia
Indugia la battaglia nel presente,
E lasciami seguir la dama mia,
Ch’io ti sarò tenuto al mio vivente;
E certo io stimo che sia gran folia
Far cotal guerra insieme per niente
Colei n’è gita che ci fa ferire:
Lascia, per Dio! ch’io la possa seguire.

80

- Non, non – rispose crollando la testa
Lo ardito Ferragù – non gli pensare.
Stû voi che la battaglia tra nui resta,
Convienti quella dama abbandonare.
Io te fo certo che in questa foresta
Un sol de noi la converrà cercare; ...

Ariosto riprende l’episodio nel I canto del Furioso. Qui il duello si svolge tra lo stesso Ferraù e Rinaldo; e, ancora una volta, Angelica fugge nel bosco.

18

“Poi che s’affaticar gran pezzo invano
...
fu primiero il signor di Montalbano
ch’al cavalier di Spagna fece motto...

19

Disse al pagan: - Me sol creduto avrai
e pur avrai te meco ancora offeso:
...
di farmi qui tardar che guadagno hai?
che quando ancor tu m’abbi morto o preso,
non però tua la bella donna fia;
che, mentre noi tardiam, se ne va via.

20

Quanto fia meglio, amandola tu ancora,
che tu le venga a traversar la strada,
a ritenerla e farle far dimora,
prima che più lontano se ne vada!
Come l’avremo in potestate, allora
di ch’esser de’ si provi con la spada:
non so altrimenti, dopo un lungo affanno,
che possa riuscirci altro che danno. –

21

Al pagan la proposta non dispiacque:
così fu differita la tenzone;
e tal tregua tra lor subito nacque,
sì l’odio e l’ira va in oblivione,
che ‘l pagano al partir da le fresche acque
non lasciò a piedi il buon figliol d’Amone:
con preghi invita, et alfin toglie in groppa,
e per l’orme d’Angelica galoppa.

22

Oh gran bontà de’ cavalieri antiqui!
Erani rivali, eran di fè diversi,
e si sentian degli aspri colpi iniqui
per tutta la persona anco dolersi;
e pur per selve oscure e calli obliqui
insieme van senza sospetto aversi.

Sulla materia tratta da Boiardo, Ariosto ha operato una serie di spostamenti. Angelica non dorme, ma è inseguita da Rinaldo. Ferraù non è solo innamorato di lei, ma anche “cortese” – e quindi indotto comunque a intervenire in difesa della donzella; e si trova di fronte non più Orlando, che rudemente lo invita a lasciargli il campo libero, ma il ben più sottile Rinaldo, che gli dimostra in primo luogo il danno che lui, Ferraù, avrebbe subìto a continuare il duello. Da questi parziali spostamenti alla vera e propria “rotazione” che la materia subisce con la decisione di Ferraù di trarsi in groppa al rivale (“Oh gran bontà de’ cavalieri antiqui!”) vi è continuità logica e psicologica. E tuttavia il rovesciamento non è disgiunto da una pausa, un arresto, nella sequenza prevedibile. Al moto di sorpresa segue il sorriso, l’ironia, appunto. Siamo alle primissime ottave del poema (I, 15-22), ma l’episodio imprime la sua tonalità a tutto quanto potremo leggere in seguito. La “gionta” all’Innamorato si palesa già qui come una “trasmutazione”.
Ma veniamo più propriamente al nostro tema, la follia di Orlando. Orlando è definito paccio (pazzo) già nel canto I dell’Innamorato (30); si tratta tuttavia della metafora tradizionale della “follia” amorosa, con le sue ben note conseguenze. L’innovazione è comunque audace. Nel codice del ciclo carolingio, Orlando non è soltanto l’eroe guerriero per eccellenza, ma reca anche gli attributi di “saggezza” e di “purezza”. Al punto che mentre nella Chanson de Roland Alda la Bella è solo promessa, e si ucciderà dopo la morte del paladino, nella canzone di gesta Gerart de Viane è già moglie, ma solo formalmente e invano gli chiede di avere un figlio. Fare di Orlando un innamorato, anzi l’innamorato, e per di più di una pagana –osserva Aldo Scaglione in una sua nota all’edizione del poema (UTET, 1974, p. 190) – denota un’”audacia rivoluzionaria” da parte di Boiardo. “Tuttavia – egli aggiunge – Orlando rimane eroe inesperto d’amore, cavaliere in cui l’amore non è già irrequieta bramosia sensuale, ma omaggio devoto e tenace ad un perfetto ideale”.

“Oh quanto se a battaglia meglio accetta
Che d’amar donne quel baron soprano!”

commenta Boiardo (I, III, 71, 3-4).
Che l’amore renda “paccio” è un luogo comune; ma “odir cantar de Orlando innamorato” (I, I, 2, 2) può apparire meraviglioso, anche se in fondo non lo è

“Ché qualunche nel mondo è più orgolioso
E’ da Amor vinto, al tutto subiugato”

Altra invece è la follia di Orlando nel Furioso, non solo diversa per grado, per intensità, ma altra, autre, pertinente ad una dimensione sua propria. Mentre sembra darsi per accumulo quantitativo, attraverso un continuum, tanto che è possibile riscontrarne addirittura gli antecedenti (il sogno di Angelica in pericolo, l’allucinazione del castello incantato in cui è prigioniera) in realtà scoppia, esplode, implica una rottura, il passaggio insieme a una condizione sovrumana (per lo scatenarsi di una forza fisica innaturale persino in un Orlando, - una “possanza estrema” (XXIV, 5), un “vigore immenso” (XXIII, 134-5) che gli permette di svellere pini, querce, olmi vecchi, faggi, orni, ilici, abeti, o di scagliare un asino così in alto “ch’uno augelletto / che voli in aria sembra a chi lo vede” – XXIX, 53); e a una condizione subumana, bestiale: “un cagnazzo” (XIX, 42), una fiera che contende con altre fiere e si nutre delle loro spoglie: “Spesso con orsi e con cinghiai contese, / e con man nude li pose a giacere: / e di lor carne con tutta la spoglia / più volte il ventre empì con fiera voglia” (XXIV, 13). E’ facile individuare il codice di opposizioni cui si riferisce Cesare Segre. Non sorprenderà allora se il momento di “rottura” è contrassegnato dalla nudità. “La pena acerba” aveva indotto Orlando a distruggere i luoghi degli amori di Angelica e Medoro trasformandoli in una terra desolata: è una reazione di rabbia e di vendetta, ma non ancora “folle”, al pari di quella di levarsi di scatto dal letto in cui già avevano dormito gli amanti. A questo punto, esausto, Orlando dorme per tre giorni e tre notti: uno spazio temporale che taglia il prima e il dopo della perdita del senno.

“Il quarto dì, da gran furor commosso
e maglie e piastre si levò di dosso
...
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l’ispido ventre e tutto il petto e il tergo
e cominciò la gran follia, sì orrenda
che de la più non sarà mai ch’intenda

Leggiamo questi versi nel canto XXIII (133). Ma il folle era già stato anticipato (senza che si dica o si sappia che di Orlando si tratta) nel canto XIX (42).
Angelica e Medoro sono diretti a Barcellona per imbarcarsi

“Ma non vi giunser prima, ch’un uom pazzo
giacer trovaro in su l’estreme arene
che, come porco, di loto e di guazzo
tutto era brutto e volto e petto e schene.
Costui si scagliò loro come cagnazzo...

Logicamente e cronologicamente, per il lettore, l’ottava che narra quest’episodio, nel canto XIX, può apparire a prima vista piuttosto incongrua: e Ariosto la chiude con uno dei suoi bruschi passaggi ad altre vicende.

Ma di Marfisa a ricontarvi torno.

e di Orlando riparla – direttamente – solo nel canto XXIII.
E’ stato più volte osservato, a proposito del Furioso, che il rapporto tra tempo reale, cronologico, e tempo narrativo è estremamente sfalsato; che anzi, al limite, vi è nel poema una forte tendenza alla “simultaneità”; in modo più semplice, è una sua caratteristica che parecchie vicende, riguardanti i diversi “eroi”, si intrecciano e si diramano “contemporaneamente”, come se l’occhio ariostesco le vedesse svolgere, dall’alto, in un modello simulato di realtà.
L’effetto di questa specifica anticipazione, tuttavia, dell’apparizione del folle sulle spiagge di Catalogna sembra avere una valenza in più: qui il punto visuale si sposta alla coppia Angelica/Medoro. Dalla loro ottica di amanti felici alla vigilia di partire per il favoloso Catai, quel bruto subumano e sozzo denota tutta la distanza che separa ormai Angelica non solo dalle stragi e della venture della guerra, ma dalle passioni che ha volutamente suscitato, e fosse pure in un uomo quale il conte Orlando, fiore dei paladini di Carlo.
Ma all’exit di Angelica dal poema, Ariosto imprime un sigillo ironico e quasi grottesco. Inseguita, nel canto XXIX, dal folle Orlando, la donna di tutti i sogni non fa in tempo, prima di sparire con l’aiuto del suo anello magico, a evitare una goffa caduta da cavallo

“levò le gambe et uscì de l’arcione
e si trovò riversa sul sabbione“ (65, 7/8)

E Orlando si consola immediatamente con la cavalla della sua ex-bella

“con quella festa il paladin la piglia
ch’un altro avrebbe fatto una donzella”

Ma non solo. Orlando, si dice, non ha riconosciuto Angelica. E tuttavia, proprio dopo che l’ha così goffamente disarcionata, la sua follia entra in uno stadio diverso. Il paladino, che sino a quel momento era stato muto, o si era espresso attraverso urla animalesche, pronunzia per la prima volta una parola articolata, sia pure rivolgendosi a un animale; e in seguito dialogherà con un pastore. Anche un’altra delle opposizioni del codice è per lo meno messa in dubbio: adesso Orlando “saccheggia ville e case / se bisogno di cibo aver si sente; / e frutte e carne e pan, pur ch’egli invase [ingozzi], rapisce”. Infine anche l’asocialità cede il posto al desiderio di salire su “una barca che sciogliea da terra / ...piena di gente da diletto, / che solazzando all’aura matutina, / gia per la tranquillissima marina”.
Anche se il senno d’Orlando è ancora racchiuso nella sua ampolla sulla luna, da cui lo trarrà Astolfo, qualcosa, comunque, anche se non l’ha fatta cessare, ha certo spostato la follia di Orlando: ancora una volta l’arma dell’ironia, con cui il poeta ha colpito meglio che con la Durlindana fatata [...]. Individuiamo facilmente l’emergere di quel genere tanto diverso di “follia” che si manifesta, più che come “perdita”, come “scarto” della ragione, sklovskiana “mossa del cavallo”.
Non esaminerò i vari episodi di questa follia di Orlando. Cercherò invece di riprendere i fili del discorso da cui sono partito. Nell’Aiace di Sofocle, l’eroe, caduto in preda alla pazzia per un’ingiustizia subita, tornato in sé, per la vergogna si uccide. Nell’Eneide, Didone, abbandonata da Enea, volnus alit venis et caeco carpitur igni, “nelle sue vene alimenta una ferita, da cieco fuoco è afferrata”, e non trova altro scampo se non nel rogo. Orlando non solo non si dà la morte, ma rinsavisce, dimentica Angelica e torna – nel combattimento di Lipadusa e nella presa di Biserta – il grande e saggio duca di re Carlo.
Si potrebbe dire che la sua follia ha una funzione catartica, liberatrice. Il volnus infertogli non tanto dal tradimento di Angelica, quanto dal suo cadere innamorato di lei, viene curato con la temporanea uscita di senno.
Si tratta, infatti, di una espiazione. Come apprenderemo nel canto XXXIV, per bocca addirittura di Giovanni l’Evangelista è stato Dio in persona a punire Orlando di follia, per essere egli venuto meno alla “difesa della santa fede” per cui gli era stata concessa l’invulnerabilità, “che ferro alcun non lo può mai ferire”.
“Non lo può mai ferire”. Ma, quattro secoli prima, nelle lasse della Chanson de Roland, proprio in difesa della santa fede, Orlando è stato ucciso a Roncisvalle.
Invulnerabile è dunque solo nella follia. “La Fortuna, che dei pazzi ha cura” gli permette persino di attraversare a nuoto, da Gibilterra a Ceuta, lo stretto di Atlante, l’ultima, ma anche la più esorbitante, delle sue imprese dementi, delle sue – per dirla con Freud – “paurose avventure”.
Rinsavito, Orlando vedrà morirsi tra le braccia l’adorato Brandimarte, conoscerà – nei Cinque canti e nell’epopea antica – il tradimento di Gano e dei Maganzesi, verrà sospinto alla morte dal suo stesso eroismo. Non è all’eroe, ma al pazzo che “nulla può accadere”.
Nella terra desolata della delusione amorosa e della gelosia, la follia è per Orlando la salvezza.
E noi oggi, che viviamo in una terra ben più desolata del paesaggio distrutto dall’ira e dalla vendetta di Orlando, che viviamo in questa waste land post-eliotiana? A meno, forse, di non sapere, o potere, come Ludovico, sfuggire – e fuggire! – attraverso quel détour dalla follia che è la poesia, la scrittura, questa sublime e salvifica “corbelleria”.

(in “Il piccolo Hans” 18, aprile/giugno 1979, pp. 62-74)



Una narrazione [1992]

Ferite di terra. Terra e guerra sul Don


L’equilibrio ecologico del Golfo è definitivamente compromesso. Non tornerà mai più come prima.
Dai giornali

Adolescente, con un amico poco più grande di me, ho fatto un lungo viaggio, partendo da Messina, dove allora abitavo, nell’Italia del Nord. A Cortina d’Ampezzo decidemmo di andare a visitare i resti della guerra sulle Tofane. Sulla guerra – quella del ’15-’18, come si diceva – avevamo ascoltato il racconto dei nostri genitori, di qualcuno dei loro amici, ne avevamo letto sui libri di scuola: ma immaginarla nella sua realtà non era facile; non è facile, per chi ha oggi la mia età di allora, per gli adolescenti di oggi, malgrado le immagini televisive di altri, più recenti, conflitti, farsi un’idea esatta della guerra più vicina, quella degli anni quaranta.
Salimmo, quindi, le Tofane, lasciando più in basso il pulmino che, con altri visitatori, ci aveva trasportato. Era una giornata di fine luglio, e il sole arroventava il sentiero per il quale, vestiti da città, ci inerpicavamo. Verso l’alto, in un abbaglio di sassi, giungemmo alla zona dei trinceramenti, e dei bombardamenti dell’artiglieria austriaca.
Quindici o sedici anni erano trascorsi da quegli eventi; ma il paesaggio, le rocce, i detriti, ne portavano vivissimamente incido il segno. Traforate le pareti della montagna da mille buche, dilabrate, come da una sanie, da trincee, camminamenti, ridotti: all’interno stagnava un tanfo umido, un’aria, dopo l’ardore esterno, di tomba. Sugli spiazzi antistanti, spezzoni di granate, di shrapnels, di proiettili, e resti consunti di uniformi, qua e là un residuo di ossa, di uomini o di muli, sfuggite, o tralasciate, da chi aveva raccolto il grosso per accumularlo, più lontano, negli ossari comuni.
Noi due, e gli altri visitatori, ci aggiravamo muti, raccoglievamo qualche frammento di ottone, qualche piastrina arrugginita di riconoscimento. Nello scendere ci voltammo spesso, con un senso di angoscia, verso lo scempio di quelle montagne, il tradimento compiuto a quella che era stata, non molto tempo prima, la loro intatta, solitaria, bellezza.

Pochi anni, e l’adolescente di allora, adesso in panni grigioverde, gli scarponi chiodati, attraversa, su una tradotta, la Russia Bianca e l’Ucraina per raggiungere, con gli altri soldati dell’ARMIR, il fronte del Don. Lungo la linea ferroviaria, ovunque attraversasse il fitto dei molti boschi, i tedeschi, per attenuare il rischio degli attacchi partigiani, avevano divelto, per una decina di metri da ambo i lati, le piante. Ne rimanevano in superficie, quasi raso terra, i ceppi dei tronchi, ancora qua e là – era di nuovo un’estate afosa – stillanti di umori, di resine.
Nel verde compatto della distesa di abeti, di larici, la ferrovia appariva, così slargata la sua area, una piaga insanabile, una violenza compiuta, ancora una volta, al silenzio, alla incantata solitudine, di una natura viva di mille fremiti, dei voli degli uccelli, della mobile trama degli insetti, dei loro ronzii, dei colori, delle lame di luce che si facevano strada tra il verde fitto dei rami. Prima ancora che invasori, portatori di morte, di un Paese remoto dal nostro, delle sue genti, avvertivamo il disagio di quella distruzione, motivata eppure inconsulta, che ci veniva incontro, chilometro dopo chilometro, per giorni e giorni del viaggio.

A Est di Rossosch, nelle immediate retrovie del fronte sul Don, la ferrovia faceva un ampio gomito all’interno dello spazio ancora tenuto dall’esercito sovietico. Per collegarla al tronco che la congiungeva, per una via diversa da quella da noi percorsa, a Kharkov e all’Ucraina, i tedeschi avevano fatto ricorso a uno dei loro accorgimenti tecnologici, già sperimentato nella zona paludosa del Pripet. Le strade, infatti, mancavano, o erano pessime: costruirle ex novo estremamente complicato, per l’instabilità del terreno di fondo, il gelo invernale, la mancanza di mano d’opera.
Ed ecco la soluzione: a unire i due tronconi, posare un’ampia pista di lamine di acciaio sulla quale gli automezzi potessero circolare, anche nella stagione primaverile dei grandi fanghi, anche, dopo l’intervento degli spazzaneve, d’inverno. Così il nastro metallico si snodava per una ventina di chilometri, lievemente sopraelevato sulla pianura, su quel luogo non ondulato su cui era posato.
Ai due lati correvano le piste, irregolari, e polverose, adoperate dalla popolazione che si spostava con i suoi carrettini colmi di cianfrusaglie, o vagava a piedi, da un luogo all’altro, in una continua migrazione che poteva apparire senza meta. I nostri scarponi chiodati si arroventavano sul metallo, traevano scintille; spesso scendevamo sulle piste di terra per dare riposo ai piedi tormentati.
A un posto di blocco, dotato di un traliccio-osservatorio, potei scorgere, dall’alto, il percorso della piattaforma di ferro: una lama, lievemente fumigante sotto il sole di luglio, che tagliava in due lo spazio, segnava una sorta di minaccioso confine tra le terre brune ai suoi due lati, frantumava, alla vista, il povero paesaggio. Provocava, al vederlo, una stretta dell’animo; come fosse stata posata lì, in quella pianura arcaica, da una stirpe extraterrestre, anch’essa, forse, metallica, anch’essa una macchina impietosa, irriverente.

Giungiamo in quello che, a giudicare di quanto ne rimane, deve essere stato il centro operativo e abitativo di un sovkhos, di una fattoria statale. Ancora in piedi, sbocconcellati e traforati dai proiettili, tre edifici: in uno la sede di uno sperduto comando tedesco, con un grande magazzino viveri adibito al rifornimento delle truppe in transito da o verso la strada di ferro: nell’altro alloggeranno, per una notte, in attesa del treno che ci porterà a destinazione, i signori ufficiali; noi della truppa nel terzo.