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Apologia della storia - Mestiere di storico - Marc Bloch



lunedì 24 maggio 2004 leggono studenti II A liceo Minghetti 
Cosa significa scrivere una apologia della storia? Per Marc Bloch, storico francese della prima metà del Novecento, voleva dire interrogare e interrogarsi sul senso da attribuire a una disciplina che si trasformava in un mondo che si trasformava. Nell’opera si riversa tutto l’impegno di Bloch storico, che contribuì a innovare profondamente la storiografia, proponendo metodi nuovi e dandole un senso nuovo, e di Bloch uomo e cittadino, che scrisse l’Apologia della storia durante la seconda guerra mondiale, pochi anni prima di essere fucilato come membro della Resistenza francese.
E cosa significa oggi per un gruppo di giovani leggere l’Apologia della storia? Per noi è stata un’occasione per riflettere meglio sulle connessioni fra storia e politica, memoria e consapevolezza, passato e presente, conoscenza e azione.

Ce lo insegnano i primi capitoli dell’opera con la grande lezione sul senso della storia: la storia come scienza degli uomini nel tempo, la comprensione del presente attraverso il passato e del passato attraverso il presente. Ma questa lettura ha significato per noi anche entrare nella dimensione intima, soggettiva, quotidiana del fare storia, nel laboratorio di un artigiano: l’Apologia della storia è anche “mestiere di storico”, diario personale e appassionato di un’esperienza professionale descritta «fin nell’umile e delicato dettaglio delle sue tecniche».
Leggere quest’opera, insomma, vuol dire comprendere il “perché” della storia, comprendendone il “come”; ascoltare le riflessioni e i suggerimenti di un uomo che ha vissuto il suo “mestiere” non solo a livello professionale ma anche umano, e che lo racconta con profondità e consapevolezza; e, in questo modo, trovare una chiave per comprendere l’oggi e agire.


La Seconda A del Liceo “Minghetti” di Bologna (a. s. 2003 / 2004)

Alberto Sabatini, Antonia Giorgi, Arianna De Marco, Carlo Alberto Pacilio, Carlotta Cappuccino, Chiara Della Costanza, Chiara Giovannetti, Chiara Monti, Costantino Bedin, Elena Rizzo Nervo, Federica Mazzoni, Federico Caiulo, Giacomo Bollini, Giovanni Lauretti, Giovanni Zanotti, Giulia Basile, Lorenza Ricci, Margherita Ortalli, Martina Cifiello, Michela Pintimalli, Rosa Palmisani, Sara Rubini, Tommaso Di Paolo.

Pietro Biancardi (docente di Storia e Filosofia)


Lettura da Marc Bloch, “Apologia della storia” o Mestiere di storico, Einaudi 1969 e sgg.


Introduzione

“Papà, spiegami a che serve la storia”. Così, pochi anni or sono, un ragazzo che mi è molto vicino, interrogava suo padre, uno storico. Vorrei poter dire che questo libro rappresenta la mia risposta, perché non credo ci sia lode migliore, per uno scrittore, che di saper parlare, con il medesimo tono, ai dotti e agli scolari. Ma una semplicità tanto elevata è privilegio di alcuni rari eletti. Tuttavia la domanda di quel fanciullo, di cui sul momento non riuscii gran che bene a soddisfare la sete di sapere, la conserverei volentieri qui, come epigrafe. Senza dubbio alcuni ne giudicheranno ingenua la formulazione; a me pare, invece, del tutto pertinente. Il problema ch’essa pone, con la sconcertante dirittura di quell’età inesorabile, è, né più né meno, quello della legittimità della storia. Ecco dunque lo storico invitato alla resa dei conti. Egli non vi si accingerà senza un certo tremito interiore: quale artigiano, incanutito nel mestiere, ha potuto domandarsi, senza una stretta al cuore, se abbia fatto della propria vita un uso saggio? Ma il problema supera, di molto, i modesti scrupoli di una morale “corporativa”. Vi è interessata, e per intero, la nostra civiltà occidentale. Essa infatti, a differenza di altri tipi di civiltà, si è sempre ripromessa molto dalla propria memoria. (…) Ogni volta che le nostre anguste società, in continua crisi di crescenza, prendono a dubitare di se stesse, esse si domandano se abbiano avuto ragione di interrogare il loro passato, oppure se l’abbiano interrogato bene.
(…) Che cosa, esattamente, rende legittimo uno sforzo intellettuale? Nessuno, credo, oserebbe più dire, con i positivisti di rigida osservanza, che il valore di un’indagine è determinato interamente dalla sua capacità di servire all’azione. Non soltanto l’esperienza ci ha insegnato l’impossibilità di stabilire a priori se le speculazioni in apparenza più disinteressate non si riveleranno un giorno di sorprendente utilità pratica. Ma infliggeremmo una ben singolare mutilazione all’umanità, negandole il diritto di cercare, senza curarsi affatto del benessere, la soddisfazione dei propri bisogni intellettuali. Anche se dovesse restare eternamente indifferente all’homo faber o politicus, alla storia basterebbe, per la sua propria difesa, di essere riconosciuta come necessaria all’homo sapiens. Però, anche così limitato, il problema non è ancora, per ciò stesso, bell’e risolto.
Il nostro intelletto tende, per sua natura, assai più a voler comprendere che a voler sapere. Ne consegue ch’esso giudica autentiche soltanto quelle scienze che giungono a stabilire nessi esplicativi tra i fenomeni. (…) La storia, dunque, anche indipendentemente da qualsiasi eventuale applicazione alla condotta pratica, avrà il diritto di rivendicare il suo posto fra le forme di conoscenza veramente degne di sforzo, soltanto se ci prometterà una classificazione razionale e una progressiva intelligibilità, anziché una semplice enumerazione senza nessi e quasi senza limiti.
(…) Pure, non si può negare che una scienza la quale prima o poi non ci aiuti a vivere meglio ci sembrerà sempre incompleta. In particolare, come non proveremo questo sentimento con maggior forza nei confronti della storia, tanto più evidentemente destinata a giovare all’uomo in quanto ha per materia l’uomo stesso e le sue azioni? Difatti, un’inveterata tendenza, cui si concederà almeno valore d’istinto, c’induce a chiedere alla storia i mezzi per guidare il nostro operare. (…) Il problema dell’utilità della storia, nel ristretto significato pragmatico del termine “utile”, non va confuso con quello della sua legittimità, più propriamente intellettuale. D’altra parte, non può presentarsi che in un secondo tempo: per agire ragionevolmente, non occorre prima comprendere?
(…) Noi cercheremo di stabilire il grado di certezza dei metodi realmente usati dall’indagine, sino nell’umile e delicato dettaglio delle sue tecniche. I nostri problemi saranno gli stessi che la disciplina ch’egli pratica impone ad ogni istante allo storico. Insomma, vorremmo dire come e perché uno storico esercita il suo mestiere. Al lettore, poi, il decidere se meriti o no di essere esercitato.
Stiamo tuttavia bene attenti. Anche così inteso e limitato, il compito è semplice solo in apparenza. (…) La storia non è l’orologeria o l’ebanisteria; bensì uno sforzo inteso a una migliore conoscenza, e perciò qualcosa di dinamico. Limitarsi a descrivere una scienza quale si fa, sarà sempre un tradirla in parte. Più importante ancora è dire in qual modo essa speri di riuscire progressivamente a farsi. Ora, siffatta impresa richiede necessariamente, da parte dell’analista, una dose non lieve di scelta personale. Infatti, il cammino di qualsiasi scienza, a ogni tappa, è costantemente traversato da tendenze divergenti, innanzi alle quali non è possibile far la parte di arbitro senza una specie di anticipazione sull’avvenire. Qui non ci propone di indietreggiare dinanzi a questa necessità. Nelle questioni intellettuali, al pari che nelle altre, l’orrore delle responsabilità non è un sentimento da raccomandare. Tuttavia, era dovere di onestà avvertire il lettore.
(…) Oltre che una scienza in cammino, [la storia] è anche una scienza nell’infanzia, al pari di tutte quelle aventi come oggetto lo spirito umano, giunto tardi nella sfera della conoscenza razionale. Più esattamente, la storia, vecchia nella forma embrionale del racconto, per lungo tempo impacciata a finzioni, ancor più a lungo vincolata ai soli avvenimenti afferrabili con immediatezza, è giovanissima come lavoro ragionato di analisi. Stenta a penetrare al di sotto dei fatti esteriori, a respingere, dopo le lusinghe della leggenda o della retorica, i veleni, oggi più pericolosi, della pratica erudita e dell’empirismo camuffato da senso comune. Su alcuni tra i problemi essenziali della sua metodologia, non ha ancora finito di andar tastoni. Per questo, non avevano certo torto Fustel de Coulanges e, già prima di lui, il Bayle quando la definivano “la più difficile tra tutte le scienze”.
(…) Vorrei che soprattutto i giovani, tra gli storici di mestiere, si abituassero a meditare su queste titubanze, su questi diuturni pentimenti del nostro mestiere. Sarà per essi il modo più sicuro di addestrarsi, mediante una ponderata scelta, a guidare ragionevolmente il loro sforzo. Soprattutto mi auguro di vederli volgersi sempre più numerosi a questa storia, a un tempo allargata e spinta in profondità, il cui disegno siamo ormai in parecchi a concepirlo, noi stessi ogni giorno meno rari. Se il mio libro può aiutarli, avrò il sentimento di non aver lavorato del tutto inutilmente. (…) Ma io non scrivo unicamente, e nemmeno soprattutto, ad uso interno d’atelier. Neppure ai semplici curiosi ho pensato che occorresse nascondere le incertezze della nostra disciplina. Esse sono la nostra scusa, meglio ancora: esse danno freschezza ai nostri studi. (…) L’incompiuto, che eternamente tenda a superarsi, irradia, su ogni spirito un po’ ardente, una fascino pari a quello del risultato più perfetto. Il buon agricoltore – ha detto all’incirca Péguy – ama l’aratura e le sementi quanto le messi.
(…) E’ necessario che queste poche note introduttive si conchiudano con una riflessione personale. Ogni scienza, presa a sé, non è che una parte del moto universale verso la conoscenza (…) Per comprendere e valutare bene i metodi di indagine, di cui si serve la storia, anche quelli in apparenza più particolari, sarebbe indispensabile di saperli collegare, con un vincolo ben solido, all’insieme degli indirizzi che si manifestano, nello stesso tempo, nelle altre discipline. Orbene, questo studio dei metodi in sé costituisce una sorta di specializzazione, i cui tecnici sono detti “filosofi”. Non mi è lecito pretendere questo titolo. E, senza dubbio, questo saggio, a cagione di questa lacuna nella mia prima formazione, difetterà di precisione di linguaggio e di ampiezza di visione. Non mi resta che presentarlo per quel che è: il memento di un artigiano che ha sempre amato meditare sul proprio compito quotidiano, il taccuino di un operaio che, pur avendo a lungo maneggiato tesa e livello, non si crede, per ciò, un matematico.



Capitolo 1 (La storia, gli uomini e il tempo)


L’oggetto della storia è, per natura, l’uomo. O meglio: gli uomini.(…) Dietro i tratti concreti del paesaggio dietro gli utensili e le macchine, dietro gli scritti che sembrano più freddi e le istituzioni in apparenza più totalmente distaccate da coloro che le hanno fondate, sono gli uomini che la storia vuol afferrare.
(…) Scienza degli uomini, abbiamo detto. E’ ancora troppo vago. Bisogna aggiungere: “degli uomini, nel tempo”. Lo storico non pensa solo “umano”. L’ atmosfera in cui naturalmente il suo pensiero respira è la categoria della durata. (…) Realtà concreta e vivente, restituita all’irreversibilità del suo slancio, il tempo della storia, invece, è il plasma stesso in cui nuotano i fenomeni e quasi il luogo della loro intelligibilità. (…) Ebbene questo tempo reale è per natura un continuum. Ma è anche continuo cambiamento.
(…) Oggi di certo non riteniamo più che, come scriveva Machiavelli come pensavano Hume o Bonald, vi sia nel tempo “almeno qualcosa di immutabile: l’ uomo”. Abbiamo imparato che persino l’uomo è molto cambiato: nello spirito e, senza dubbio, anche nei più delicati meccanismi del corpo. Come potrebbe essere altrimenti? La sua atmosfera mentale si è profondamente trasformata: la sua igiene, la sua alimentazione, anche.
(…) - Chi vorrà limitarsi al presente, all’ attuale, l’attuale non lo comprenderà- scriveva Michelet fin dalle prime pagine di quel libro che è Le Peuple. E già Leibniz metteva tra i vantaggi che si riprometteva dalla storia “le origini delle cose presenti ritrovate fra le cose passate”; poiché, aggiungeva, una realtà non la si comprende mai in modo migliore che tramite le sue cause.
(…) L’ignoranza del passato non solo nuoce alla conoscenza del presente, ma compromette, nel presente, l’azione medesima.
(…) Dopo tutto questa solidarietà fra le epoche ha in sé tanta forza in quanto fra di esse i nessi di intelligibilità sono autenticamente reciproci. L’ incomprensione del presente nasce inevitabilmente dall’ignoranza del passato. Ma non è forse meno vano affaticarsi nel comprendere il passato, se non si sa niente del presente.
(…) In verità, coscientemente o no, è sempre alle nostre esperienze quotidiane che, per sfumarle là dove occorre, di nuovi colori, noi chiediamo in prestito, in ultima analisi, gli elementi che ci servono per ricostruire il passato. (…) Capita che la conoscenza del presente, in una certa direzione, serva ancor più direttamente all’ intelligenza del passato.
(…) Non v’è dunque che una scienza degli uomini nel tempo, la quale senza posa necessita di unire lo studio dei morti a quello dei viventi. Come chiamarla? Ho già detto perché l’antico nome di storia mi paia più comprensivo, il meno esclusivo, il più pregno, anche, dei commoventi ricordi di uno sforzo ben più secolare; quindi il migliore. Proponendo così, contrariamente a taluni pregiudizi, d’altronde molto meno vecchi di esso, di estenderlo sino alla conoscenza del presente, non si persegue alcuna rivendicazione corporativa. La vita è troppo breve, le conoscenze troppo lunghe da acquistare, per consentire anche al più brillante ingegno una esperienza totale dell’ umanità. Il mondo attuale avrà sempre più specialisti, come l’ età della pietra o l’ egittologia. Agli uni come agli altri si chiede semplicemente di ricordarsi che le ricerche storiche non sopportano l’autarchia. Isolato, ognuno di loro non capirà mai niente se non a metà, fosse pure nel proprio campo di studi; e l’unica storia autentica, che non può farsi se non per aiuto reciproco, è la storia universale.



Capitolo 2 (L’osservazione storica)


I fatti che studia, lo storico è per definizione, nell’assoluta impossibilità di constatarli lui stesso. (…) Qualunque conoscenza dell’umanità, qual che ne sia, nel tempo, il punto di applicazione, attingerà sempre alle testimonianze altrui per una gran parte della sua sostanza.
(…) Come prima caratteristica, la conoscenza di tutti i fatti umani nel passato, della maggior parte di essi nel presente, ha quella di essere una conoscenza per tracce. (…) Il fatto è che gli esploratori del passato non sono uomini liberi. Il passato è il loro tiranno. Proibisce loro di venire a conoscenza di qualunque cosa su di lui, che egli stesso non abbia acconsentito a lasciar loro conoscere.
(…) Perciò, anche nelle testimonianze più decisamente volontarie, quel che i testi ci dicono espressamente ha smesso oggigiorno di essere l’oggetto preferito della nostra attenzione. Di solito ci interessiamo ben più vivamente a quel che si lascia intendere, senza averlo voluto dire espressamente.
(…) I testi o documenti non parlano se non quando li si sappia interrogare. (…) In altre parole, ogni ricerca storica suppone, fin dai primi passi, che l’inchiesta abbia già una direzione. (…) Non c’è peggior consiglio da dare a un principiante che quello di attendersi così, in atteggiamento d’apparente sottomissione, l’ispirazione dal documento (…), meglio, cento volte meglio, una scelta esplicita e ragionata di questioni, che deve però essere estremamente duttile e suscettibile di arricchirsi, cammin facendo, di una quantità di nuovi punti.
(…) Sarebbe una grande illusione immaginare che a ogni problema storico corrisponda un unico tipo di documenti (…), più la ricerca si sforza di raggiungere i fatti profondi, meno le è permesso di sperare chiarezza se non dai raggi convergenti di testimonianze molto diverse per natura.
(…) La presenza o l’assenza [la perdita o la conservazione, l’accessibilità o l’inaccessibilità] di testimonianze dipendono da cause umane che non sfuggono affatto all’analisi storica; e i problemi che pone la loro trasmissione toccano essi stessi nell’intimo la vita del passato,perché quel che si trova così messo in gioco è nientemeno che il passaggio del ricordo attraverso le generazioni.



Capitolo 3 (La critica)


(…) Certamente la maggior parte degli scritti posti sotto falso nome mentono anche nel contenuto. Un sedicente diploma di Carlo Magno si rivela,all’esame,come fabbricato due o tre secoli dopo? Si può ben scommettere che le donazioni di cui si attribuisce la benemerenza all’imperatore sono state ugualmente inventate. Anche questo, comunque, non potrebbe essere stabilito a priori. Giacché certi atti sono stati stesi al solo fine di replicare le disposizioni di documenti perfettamente autentici,che erano andati persi. Dovrebbe essere superfluo ricordare che, inversamente,le testimonianze più insospettabili nella loro dichiarata provenienza non sono necessariamente, per ciò stesso, testimonianze veritiere. Ma, prima di accettare un documento come autentico, gli studiosi si danno tanta pena di valutarlo con i loro strumenti che non sempre hanno poi lo stoicismo di criticarne le affermazioni.
(…) Ma constatare l’inganno non basta. Occorre anche svelarne i motivi. Non foss’altro, anzitutto, che per scoprirlo meglio. Finché potrà sussistere un dubbio sulle sue origini, rimarrà in esso qualche cosa di ribelle all’analisi; e quindi di provato solo a metà. Soprattutto, una menzogna,in quanto tale, è a suo modo una testimonianza
(…) La dirittura mentale consiste nel non credere con leggerezza e saper dubitare in parecchie occasioni. Lo stesso vocabolo critica, che fino a quel momento non aveva designato altro che un giudizio di gusto,assume allora il senso di prova di veridicità.
(…) Le verità di evidenza di tipo matematico, alle quali, in Cartesio, il dubbio metodico ha il compito di aprire il cammino presentano pochi tratti comuni con le probabilità sempre più approssimative che la critica storica, come le scienze di laboratorio si accontentano di svelare. Ma perché una filosofia impregni di sé tutta un’epoca, non è necessario che vi si adegui supinamente, né che le menti ne subiscano gli effetti solo per una specie di osmosi spesso inconscia. La critica della testimonianza storica fa tabula rasa della credenza. Ancora come la scienza cartesiana, essa non procede in questo implacabile sovvertimento di tutti gli antichi puntelli se non al fine di giungere per questa via a nuove certezze ormai debitamente provate. L’idea che la ispira suppone un capovolgimento quasi totale delle antiche concezioni di dubbio. Che i suoi morsi sembrassero una sofferenza o che invece vi si trovasse non so qual nobile dolcezza, sino a quel momento esso non era stato considerato quasi altro che come un atteggiamento mentale puramente negativo, come una semplice assenza. Si ritiene ormai che, razionalmente guidato, possa divenire uno strumento di conoscenza.
(…) La critica della testimonianza, che lavora su realtà psichiche, sarà sempre arte di finezza. Per essa, non esiste un manuale di ricette. Ma è anche arte dio razionalità, che si basa sulla pratica metodica di alcune grandi operazioni mentali. Possiede insomma una propria dialettica, che occorre cercare di scoprire. Supponiamo che di una civilizzazione scomparsa rimanga un solo oggetto, che inoltre le condizioni della sua scoperta non permettano neanche di metterlo in relazione con tracce estranee all’uomo, come le sedimentazioni geologiche. Sarà del tutto impossibile datare questo unico resto, né si potrà pronunciarsi sulla sua autenticità. In effetti non si stabilisce mai una data, non si controlla e insomma non si interpreta mai un documento se non inserendolo in una serie cronologica o in un insieme sincrono. È confrontando i diplomi merovingi sia tra di loro, sia con altri testi differenti per epoca o per natura, che Mabillon ha fondato la diplomatica, è dal confronto dei racconti evangelici che è nata l’esegesi. Alla base di ogni critica ci sta un lavoro di comparazione. Ma i risultati di questa comparazione non sono automatici. Essa perviene necessariamente a svelare ora delle somiglianze, ora delle differenze.
(…) Si valuta sempre con esattezza il guadagno immenso che rappresentò l’avvento di un metodo razionale di critica, applicato alla testimonianza umana? Guadagno, intendo, non solo per la conoscenza storica, ma per la conoscenza in generale.
(…) È uno scandalo che nella nostra epoca più che mai esposta alle tossine della menzogna e della falsa diceria, che vergogna che il metodo critico non figuri sia pure nel più piccolo cantuccio dei programmi di insegnamento! Giacché esso ha cessato di essere altro che l’umile ausiliario di alcun lavori di laboratorio. Esso vede ormai aprirsi davanti a sé orizzonti assai più vasti, e la storia ha il diritto di considerare tra le sue glorie più certe quella di avere così dischiuso agli uomini, elaborando la propria tecnica, una nuova via verso il vero e perciò, verso il giusto.