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Creatura di sabbia - Tahar Ben Jelloun


lunedì 11 maggio 2009 legge Roberto Parmeggiani   
Creatura di sabbia è il diario in cui Ahmed racconta ciò che ha cessato di essere e il viaggio di ritorno da se stesso cominciato il giorno della sua nascita, anzi, il giorno in cui il padre e la madre suggellarono il patto del segreto: il nascituro sarebbe stato maschio anche se fosse nata una bambina. E Ahmed, per sua sventura, nacque proprio femmina. Ahmed è simbolo dell’identità vietata, dell’impossibilità di essere ciò che si dovrebbe essere. Ha due facce ma nessun viso, ha due modi di camminare ma nessuna strada da percorrere, ha due modi di amare ma nessuno da abbracciare. Quella di Ahmed è una storia di fantasia ma, come spesso accade, la realtà supera l’immaginazione, e per questo, guardandosi attorno, sono tante le storie realmente accadute, in cui la vera identità di una persona viene repressa, mutilata, condizionata, violata, impedita. Ben Jelloun ci pone quindi dinnanzi a una delle più grandi sfide educative dei nostri tempi: la sfida di non omologare, di non cadere in un individualismo che tende a eliminare e negare ogni differenza; la sfida di permettere a tutti di stare nelle esperienze e nelle relazioni con un “modo proprio”, e, in definitiva, poter diventare ciò che si è.


Tahar Ben Jelloun, Creatura di sabbia, Einaudi editore, Torino 1987.
A cura di Egi Volterrani
Un giorno aveva sentito dire che un poeta egiziano giustificava in questo modo il fatto di tenere un diario: “Non si torna mai da così lontano come da se stessi. Un diario è talvolta necessario per dire che uno ha cessato di essere”. Il suo proposito era appunto quello: dire che cosa aveva cessato di essere. E chi era stato? La domanda cadde dopo un silenzio di imbarazzo o di attesa. Il narratore, seduto sulla stuoia con le gambe ripiegate nella posizione del sarto, tirò fuori da una cartella un grande quaderno e lo mostrò all’uditorio. Il segreto è qui, intessuto di sillabe e di immagini. Me lo affidò proprio prima di morire. Mi fece giurare di non aprirlo prima che fossero trascorsi quaranta giorni dalla sua morte, il tempo di morire del tutto, quaranta giorni di lutto per noi e di viaggio nelle tenebre della terra per lui. L’ho aperto la notte del quarantunesimo giorno. Sono stato inondato dal profumo del paradiso, un profumo così forte che per poco non ne rimanevo soffocato. Ho letto la prima frase e non ho capito niente. Ho letto il secondo paragrafo e non ho capito niente. Ho letto la prima pagina e ne sono stato illuminato. Lacrime stupefatte colavano incontenibili sulle mie guance. Avevo le mani sudate; il sangue non circolava in modo naturale. In quel momento ho saputo di essere in possesso di un libro raro, il libro del segreto, attraversato d’impeto da una vita breve e intensa, scritto nella notte della lunga prova, conservato sotto grandi pietre e protetto dall’angelo della maledizione. Questo libro, amici, non può essere fatto circolare, né dato a chicchessia. Non può essere letto da spiriti innocenti. La luce che emana abbaglia e acceca gli occhi che vi si posano inavvertitamente, senza essere stati preparati. Questo libro io l’ho letto e decifrato per spiriti di quel genere. Non potrete avervi accesso senza passare attraverso le mie notti e al mio corpo. Io stesso sono questo libro. Sono diventato il libro del segreto, ho pagato con la vita per leggerlo. Arrivato alla fine, dopo mesi di insonnia, ho sentito che il libro si incarnava in me, perché quello è il mio destino. Per raccontarvi questa storia non avrò nemmeno bisogno di aprire il quaderno, intanto perché ne ho imparato a memoria ogni passo, e poi per prudenza. Tra poco, brava gente, il giorno si lascerà scivolare nelle tenebre; io mi ritroverò solo con il libro e voi soli con l’impazienza. Sbarazzatevi della febbre malsana che accende i vostri sguardi. Siate pazienti, scavate insieme con me la galleria delle domande e sappiate aspettare, non tanto le mie frasi – che sono vuote – quanto il canto che si leverà lentamente dal mare e verrà per iniziarvi sulla strada del libro all’ascolto del tempo e di quanto il tempo sa fare in frantumi. Sappiate anche che il libro ha sette porte, aperte in un muro dello spessore di almeno due metri e alto almeno tre uomini aitanti e vigorosi. Vi darò io, una dopo l’altra, le chiavi per aprire tutte quelle porte. In verità già possedete quelle chiavi, ma non lo sapete; e se anche lo sapeste, non sareste in grado di farle girare e ancora meno sapreste sotto quale pietra tombale sotterrarle. Per ora ne sapete abbastanza. Credo sia meglio che ci lasciamo prima che il tramonto incendi il cielo. Tornate domani, se per caso il libro del segreto non vi abbandona. (…) Amici del bene, sappiate che siamo riuniti da parole segrete su un percorso circolare, forse su un bastimento, e per una traversata della quale non conosco l’itinerario. Questa storia ha qualche cosa della morte; è oscura e ciò nondimeno ricca di immagini; dovrebbe aprirsi su una luce debole e dolce; quando arriveremo all’alba saremo lasciati liberi, saremo invecchiati di una notte, lunga e pesante, un mezzo secolo e alcuni fogli bianchi sparpagliati sul cortile di marmo bianco della nostra casa dei ricordi… Oggi ci incammineremo verso la prima porta, la porta del giovedì. Perché cominciamo da questa porta e perché si chiama così? Il giovedì, quinto giorno della settimana, giorno dello scambio. C’è chi dice che è il giorno del mercato, quando i montanari e i contadini della pianura arrivano in città e si installano ai piedi di questa porta per vendere il raccolto della settimana. Può darsi sia vero, ma io credo che si tratti soltanto di una coincidenza e di un caso.. Ma che importa! Questa porta, che cominciate a vedere laggiù, è maestosa. È superba. Il suo legno è stato scolpito da cinquantacinque artigiani e ci vedrete più di cinquecento motivi decorativi differenti. Dunque questa porta pesante e bella tiene nel libro il posto primario dell’ingresso e dell’arrivo. L’ingresso è la nascita. La nascita del nostro eroe, un giovedì mattina. È arrivato con qualche giorno di ritardo. Sua madre era già pronta dal lunedì, ma è riuscita a trattenerlo dentro di sé fino a giovedì, perché sapeva che quel giorno della settimana è riservato soltanto alle nascite maschili… Quel padre non aveva fortuna; era persuaso che una antica, grave maledizione pesasse sulla sua vita: su sette nascite aveva avuto sette figlie. La casa era occupata da dieci donne: le sette figlie, la loro madre, la zia Aicha e Malika, la vecchia domestica. La maledizione aveva assunto la dimensione di una sventura prolungata nel tempo. Il padre pensava che una figlia sola sarebbe bastata. Sette era troppo, era addirittura tragico… Viveva in casa come se non avesse prole. Faceva di tutto per dimenticarle, per scacciarle dalla sua vita. Per esempio non le chiamava mai per nome. Se ne occupavano la madre e la zia. Lui si isolava e, qualche volta, gli capitava di piangere in silenzio. Diceva che la vergogna stava di casa sulla sua faccia, che il suo corpo era posseduto da un seme maledetto e che doveva considerarsi come uno sposo sterile o uno scapolo. Lui aveva fatto di tutto per cambiare la rotta del destino. Aveva consultato medici, ciarlatani, guaritori di tutte le religioni del paese. Aveva persino portato sua moglie a soggiornare per sette giorni e sette notti in un marabut dove si nutriva di pane raffermo e acqua. Si era aspersa di urina di cammella poi aveva gettato in mare le ceneri di diciassette incensi… Il suo corpo si consumava. Il suo viso si segnava di rughe, Dimagriva e spesso perdeva conoscenza. La sua vita era diventata un inferno e il suo sposo, sempre malcontento, ferito nell’orgoglio e nell’onore, la strapazzava e la rendeva responsabile della sventura che si era abbattuta su di loro…. Fu allora, quando ogni porta risultava chiusa, che decise di farla finita con la fatalità… La sua idea era semplice, difficile da realizzare e da portare avanti con la tenacia necessaria: il nascituro sarebbe stato un maschio anche se fosse nata una bambina! Era quanto aveva deciso, una determinazione irremovibile, una risoluzione senza possibilità di ripensamento. Una sera chiamò la sposa incinta, si chiuse con lei in una camera della terrazza, e le disse con voce ferma e solenne: “La nostra vita fino ad oggi non è stata altro che un’attesa stupida, una contestazione verbale della fatalità. La nostra sfortuna, per non dire la nostra disgrazia, non dipende da noi. Tu sei una donna per bene, una moglie sottomessa, obbediente, ma, dopo sette figlie, ho capito che porti in te un’infermità: il tuo ventre non può concepire figli maschi; è fatto in modo tale che – in perpetuo – non potrà dare altro che femmine. Non ne puoi nulla. Deve essere una malformazione, una indisposizione che si manifesta naturalmente, e a tua insaputa, ad ospitare il seme che porti in te ogni qualvolta esso rischi di generare un figlio maschio. Non posso prendermela con te. Sono un uomo per bene. Non ti ripudierò e non prenderò una seconda moglie. Ma io continuo ad accanirmi su codesto ventre malato. Voglio essere colui che lo guarisce, quello che manda all’aria la sua logica e le sue abitudini. Gli lancio una sfida: mi darà un maschio! Il mio onore sarà finalmente riabilitato… Adesso suggelleremo il patto del segreto: dammi la mano destra; incrociamo le dita e portiamo le mani così unite prima alla bocca e poi alla fronte. Adesso giuriamo fedeltà fino alla morte! Facciamo subito le nostre abluzioni. Celebreremo una preghiera e giureremo sul Corano aperto” (…) Tutto dipende da dove si arriva: è comodo sapere che in tutta la storia ci sono porte di ingresso e di uscita. Ovviamente Ahmed spesso andrà avanti e indietro tra le due porte. Ora ha vent’anni. È un giovanotto colto e ben educato e suo padre pensa al suo avvenire con apprensione. Suppongo che tutti attendessero la nostra storia a questa svolta. Le cose si svolsero nel modo seguente: Un giorno Ahmed andò a trovare suo padre nel laboratorio e gli disse: - Padre, come trovi la mia voce? - Bene, né troppo grave né troppo acuta. - Bene, rispose Ahmed. E la mia pelle come la trovi? - La pelle? Niente di speciale. - Ti sei accorto che non mi rado tutti i gironi? - Sì perché? - Cosa pensi dei mie muscoli? - Quali muscoli? - Quelli sul petto, per esempio… - Ma, non so. - Hai notato che è duro, qui, all’altezza dei seni?... Padre, mi farò crescere i baffi. - Se ti fa piacere! - D’ora in avanti mi vestirò all’europea, con la cravatta… - Come vuoi, Ahmed. - Padre vorrei sposarmi… - Come! Sei ancora troppo giovane… - Non ti sei sposato giovane anche tu? - Sì, ma erano altri tempi. - Come sono questi tempi? Per me? - Non saprei. Mi metti in imbarazzo. - Non è forse il tempo dell’inganno, delle mistificazioni? Sono un essere o un’immagine, un corpo o un’autorità, una pietra in un giardino sfiorito, o un albero rigido? Dimmi, chi sono? - Ma perché tutte queste domande? - Te le faccio perché tu ed io guardiamo insieme le cose in faccia. Né tu nè io siamo stupidi. Il mio stato, non soltanto lo accetto e lo vivo, ma mi piace. Mi interessa. Mi permette di avere privilegi che non avrei mai potuto conoscere. Mi apre delle porte e questo mi piace molto, anche se poi mi chiude in una gabbia di vetro. Nel sonno mi capita di sentirmi soffocare. Mi annego nella mia stessa saliva. Mi aggrappo alla terra che si muove. E così mi avvicino al nulla… Padre, mi hai voluto uomo, e debbo restare tale. E, come dice il nostro bene amato Profeta, “un musulmano completo è un uomo sposato”. (…) Un giorno convocò sua madre per dirle con voce ferma: - Ho scelto chi sarà mia moglie. La madre era stata preavvertita dal padre. Non disse nulla. Non si mostrò nemmeno stupita. Niente poteva ancora stupirla da parte sua. Diceva a se stessa che la follia stava arrivando al cervello. Non osava pensare che fosse diventato un mostro. Il suo comportamento, da un anno circa, lo aveva trasformato e reso quasi irriconoscibile. Era diventato distruttivo e violento, e comunque strano. Alzò gli occhi su di lei e disse: - Chi è? - Fatima… - Quale Fatima? - Fatima, mia cugina, la figlia di mio zio, il fratello minore di mio padre, quello che si rallegrava per la nascita di ciascuna delle tue figlie… - Ma non puoi. Fatima è malata… È epilettica, e poi zoppica. - Appunto! - Sei un mostro… - Sono tuo figlio, né più né meno. - Ma vuoi costruire la sventura! - Non faccio altro che obbedire a voi, tu e mio padre mi avete tracciato un percorso; io l’ho preso, io l’ho seguito e, per curiosità, sono andato un po’ più in là, e sai cosa ho scoperto? Sai cosa c’era in fondo al percorso? Un precipizio. La strada si ferma di colpo sulla cima di un’enorme roccia che strapiomba su un immenso terreno dove si gettano le immondizie, irrigate dalle fognature della città che, come per caso, sboccano là e ravvivano la putrefazione. Gli odori si confondono e questo genera non la nausea ma l’ebbrezza del Male. Oh! Rassicurati, non sono stato in quei posti… Li immagino, li sento, li vedo! - Io non ho preso nessuna decisione. - È vero, in questa famiglia le donne si avvolgono in un sudario di silenzio…, obbediscono…, le mie sorelle obbediscono; tu, tu taci, e io do gli ordini! Che ironia! Come sei riuscita a non insufflare nessuna idea di violenza nelle tue figlie? (…) Il padre è morto, lentamente. La morte ci ha messo il tempo suo e l’ha raccolto un mattino, durante il sonno. Ahmed prese in mano la situazione con autorevolezza. Convocò le sue sette sorelle per dire loro pressappoco così: “A partire da oggi io non sono più vostro fratello, né d’altra parte sono vostro padre, bensì il vostro tutore. Mi dovete obbedienza e rispetto. E per finire è inutile che vi ricordi che io sono un uomo d’ordine e che se da noi la donna è inferiore all’uomo, non è perché Dio l’ha voluto o perché il profeta l’ha deciso, ma perché la donna accetta questa sorte. Perciò subite e vivete in silenzio!” (…) Prima di continuare la lettura di questo diario vorrei, per coloro che si preoccupano per le sorti del resto della famiglia, direi che dopo la morte dell’infelice Fatima, il nostro personaggio perse il controllo degli affari e si rinchiuse per non riapparire più… Di notte lo si udiva camminare, ma nessuno lo vedeva. Porte e finestre rimanevano chiuse su un mistero pesante. Aveva preso l’abitudine di appendere all’ingresso una lavagna scolastica sulla quale scriveva con un gesso bianco un pensiero, una parola, un versetto del Corano, o una preghiera. A chi inviava questi messaggi? Malika non sapeva leggere, le sue sorelle non osavano mai salire alla sua camera. Ma ogni giorno, o quasi, manifestava il suo pensiero, un colore, la sua musica… A partire da questo punto comincia a sviluppare e arricchire la sua solitudine fino a farne il suo scopo e la sua compagna. Ogni tanto sarà tentato di abbandonarla, di uscire e di buttare all’aria tutto in uno slancio di follia e di furia distruttrice. Non sono affatto certo che vedremo cosa accadrà. Anche se leggeremo il suo diario e la sua corrispondenza. (…) “ 15 aprile. Ho dato abbastanza da parte mia. Adesso cerco di risparmiarmi. Per me è stata una scommessa. L’ho quasi persa. Essere donna è una menomazione naturale della quale tutti si fanno una ragione. Essere uomo è un’illusione e una violenza che giustifica e privilegia qualsiasi cosa. Essere, semplicemente essere, è una sfida. Sono stanco e stanca. Se non ci fosse questo corpo da riaccomodare, questa stoffa consunta da rappezzare, questa voce ormai grave a arrugginita, questo petto esausto e questo sguardo ferito, se non ci fossero questi spiriti ristretti, questo diario maledetto, queste parole dette nella grotta e quel ragno che sbarra l’ingresso e fa la guardia, se non ci fosse l’asma che affatica il cuore e questo kif che mi allontana da questa stanza, se non ci fosse questa tristezza profonda che mi insegue… Aprirei queste finestre e darei la scalata ai muri più alti per raggiungere la cima della solitudine, la mia sola dimora, il mio rifugio, il mio specchio e la strada dei miei sogni”. (…) “16 aprile. Sera. Ho dormito nella vasca da bagno. Mi piace il vapore dell’acqua, la condensa che ricopre i vetri della mia gabbia. I miei pensieri si divertono, si sciolgono in questa acqua evaporata e si mettono a ballare come piccoli saltimbanchi scintillanti. I sogni che si fanno in questo stato di abbandono sono dolci e pericolosi. È venuto un uomo, ha attraversato la nebbia e lo spazio e ha posato la sua mano sul mio viso sudato. Con gli occhi chiusi, lasciavo fare nell’acqua ormai tiepida. Ha passato poi la sua mano pesante sul mio petto, che è risvegliato, ha immerso la testa nell’acqua e me l’ha appoggiata sul basso ventre, baciandomi il pube. Ho provato una sensazione così forte che ho perso conoscenza e ho rischiato di annegare. Mi sono svegliato quando l’acqua cominciava a entrarmi nella bocca semiaperta. Ero scosso in tutto il mio essere. Mi sono alzato, asciugato e ho ritrovato il mio letto, i miei libri e le mie ossessioni”. (…) “Maggio… Ho scelto l’ombra e l’invisibile. Ecco che il dubbio comincia a farsi strada come una luce cruda, viva, insopportabile. Tollererei l’ambiguità fino in fondo, ma non potrei mai esporre il viso nella sua nudità alla luce che si avvicina. Ho saputo che le mie sorelle hanno lasciato la casa. Sono partite una dopo l’altra; mia madre si è rinchiusa in una stanza e sconta secondo la sua volontà un secolo di silenzio e reclusione. La casa è immensa. Molto malandata; cade a pezzi. Così io ne occupo un estremo e mia madre un altro. Lei sa dove sono. Io non so dov’è lei. Malika ci serve e ci aiuta, ciascuno nella sua prova. È notte nella notte o è ancora giorno nella notte? Qualche cosa in me rabbrividisce. Deve essere l’anima.” (…) Il mio ritiro è durato abbastanza. Credo di aver oltrepassato i limiti che mi ero imposti. Chi sono adesso? Non oso guardarmi allo specchio. Qual è lo stato della mia pelle, la mia facciata, le mie apparenze? Troppa solitudine e troppo silenzio mi hanno esaurito. Mi ero circondato di libri e di mistero. Oggi cerco di liberarmene. Di cosa poi? Della paura che ho immagazzinato? Di questo strato brumoso che mi serviva da velo e da coperta? Di questa relazione con l’altro che è in me, quello che mi scrive e che mi dà la strana impressione di essere ancora in questo mondo. Liberarmi di un destino o dei testimoni delle prime ore? L’idea della morte mi è troppo familiare per rifugiarmi in essa. Dunque adesso esco. È tempo di nascere di nuovo. In effetti non mi preparo a cambiare, ma a ritornare me stesso, esattamente prima che il destino che mi avevano precostituito cominci ad avere corso e a trascinarmi via nella sua corrente. Uscire. Emergere di sotto terra. Il mio corpo dovrebbe sollevare le pietre pesanti di questo destino e posarsi sul suolo come una cosa nuova. Ah! L’idea di sottrarmi a questo ricordo mi dà gioia. L’avevo dimenticata, la gioia. Che consolazione, che piacere pensare che saranno le mie stesse mani a tracciare il percorso di una strada che mi potrebbe portare verso una montagna! Lo so! Ci ho messo molto tempo per arrivare a questa finestra! Mi sento leggero. Mi metto a gridare di gioia o a cantare? Andarsene e lasciare questa vita disfatta come se qualcuno l’avesse abbandonata bruscamente. La mia vita è come questo letto e queste lenzuola sgualcite dalla fiacchezza, dalle notti lunghe e dalla solitudine imposta a questo corpo. Me ne vado senza mettere ordine, senza prendere bagagli, solo del denaro e questo manoscritto, unica traccia e solo testimonio di quello che è stato il mio calvario. Per metà è già scritto. Spero di scrivere storie più felici sull’altra metà. Impedirò alle bestie funeste di infilarcisi dentro e lascerò le pagine aperte per le farfalle e per certe rose selvatiche. Dormiranno su un letto più dolce dove le parole non saranno ciottoli, ma foglie di fico. Seccheranno poco per volta senza perdere i colori né i loro profumi. Ho tolto le bende che stringevano il mio petto, mi sono accarezzato a lungo il basso ventre. Non ho provato piacere, oppure, forse, ho avuto sensazioni violente, come delle scariche elettriche. Ho capito che il ritorno a se stesi avrebbe preso del tempo, che bisognava rieducare le emozioni. Il mio ritiro non è stato sufficiente; è per questo che ho deciso di mettere alla prova il mio corpo nell’avventura, sulle strade, in altre città, in altri posti. (…) La morte ha regolato molte questioni in sospeso. I miei genitori non sono più qui a ricordarmi che sono portatore del segreto. È tempo, per me, di sapere chi sono. Lo so, ho un corpo di donna, anche se persiste un leggero dubbio riguardo all’apparenza delle cose. Ho un corpo di donna, vale a dire che ho un sesso femminile, anche se non è mai stato usato. Sono una zitella che non ha neppure il diritto di avere le angosce di una zitella. Ho un comportamento da uomo, o più precisamente, mi è stato insegnato a comportarmi e a pensare come un essere naturalmente superiore alla donna. Tutto me lo permetteva: la religione, il testo coranico, la società, la tradizione, la famiglia, il paese… e io stesso… Ho un piccolo seno – un seno represso dall’adolescenza – ma una voce d’uomo. La mia voce è profonda, è lei che mi tradisce. D’ora in avanti non parlerò più, o meglio parlerò con la mano sulla bocca come se avessi mal di denti. Ho lineamenti delicati, ma il viso coperto dalla barba. Ho beneficiato dei diritti di successione che privilegiano l’uomo rispetto alla donna. Ho ereditato due volte più delle mie sorelle. Ma questo denaro non mi interessa più. Glielo lascio. Vorrei lasciare questa casa senza che mi segua la minima traccia del passato. Vorrei uscire per nascere di nuovo, nascere a venticinque anni, senza genitori, senza famiglia, ma con un nome da donna, un corpo da donna liberato per sempre da tutte queste menzogne. Forse non vivrei a lungo. So bene che il mio destino è votato ad essere bruscamente interrotto perché, mio malgrado, ho giocato ad ingannare Dio e i suoi profeti. Non mio padre, del quale di fatto non ero che lo strumento, l’occasione per una vendetta, la sfida alla maledizione. Ero cosciente di questo gioco. Mi accade ancora di immaginare che vita avrei avuto se non fossi stata solamente una ragazza tra le altre, una figlia in più, l’ottava, un’altra fonte di angoscia e infelicità. Credo che non sarei stata capace di vivere e di accettare quello che le mie sorelle, come le altre ragazze, subiscono in questo paese. Non credo di essere migliore, ma sento in me una tale volontà, una tale forza ribelle, che probabilmente avrei buttato all’aria tutto. Ah! Quello che adesso rimpiango davvero è di non aver svelato prima la mia identità e infranto gli specchi che mi tenevano lontano dalla vita. Sarei stata una donna sola con la possibilità di decidere in assoluta lucidità che cosa fare della mia solitudine. Parlo di solitudine scelta, eletta, vissuta, come un desiderio di libertà e non come una reclusione imposta dalla mia famiglia e dal clan. Lo so, in questo paese una donna sola è destinata ad essere sempre socialmente rifiutata. In una società morale, ben strutturata, non soltanto ciascuno sta al suo posto, ma non c’è assolutamente posto per colui o colei, soprattutto colei, che, volontariamente o per errore, per spirito ribelle o per incoscienza, trasgredisce l’ordine. Una donna sola, nubile o divorziata, una ragazza-madre, è un essere esposto ad ogni rifiuto. Un bambino illegittimo, nato da un’unione non riconosciuta, è destinato, nel migliore dei casi, a finire in un orfanotrofio, là dove sono allevato i cattivi germogli: germogli del piacere, insomma dell’adulterio e della vergogna. Una preghiera segreta sarà detta perché quel bambino faccia parte del lotto dei centomila bebè che muoiono ogni anno per mancanza di cure, per carenze alimentari o per la maledizione di Dio. Quel bambino non avrà nome. Sarà figlio della strada e del peccato e dovrà subire tutte le tappe di una sorte infelice. Bisognerebbe predisporre all’uscita di ogni città uno stagno abbastanza profondo da poter accogliere i corpi di questi figli dell’orrore. Si chiamerebbe lo stagno della liberazione. Le madri ci verrebbero preferibilmente di notte, legherebbero saldamento la loro prole ad una pietra che una mano benefattrice offrirebbe loro e, con un ultimo singhiozzo, lascerebbero andar giù il bambino che delle mani nascoste, magari sott’acqua, tirerebbero verso il fondo fino all’annegamento. Tutto questo verrebbe fatto alla luce del sole, ma sarebbe indecente, sarebbe vietato parlarne, persino evocare l’argomento, neppure per allusioni. La violenza del mio paese è anche in questi occhi chiusi, in questi sguardi distolti, in questi silenzi fatti più di rassegnazione che di indifferenza. Oggi io sono una donna sola. Una donna sola e già anziana. Con i miei venticinque anni compiuti, considero che la mia età sia almeno di mezzo secolo. Due vite con due modi di sentire e due volti, ma gli stessi sogni, la stessa profonda solitudine. Non penso di essere innocente. Credo persino di essere diventata pericolosa. Non ho più niente da perdere e ho talmente tanti danni da riparare… ho il sospetto di essere capace di rabbia, di collera, ed anche di odio distruttore. Non c’è più nulla che mi trattiene, ho soltanto un po’ paura di quello che sto per intraprendere; ho paura perché non so esattamente cosà farò, ma sono decisa farlo. (…) Voglio uscire, vedere la gente, respirare i cattivi odori di questo paese e allo steso modo i profumi dei suoi frutti e delle sue piante. Uscire, essere spinta dalla gente, stare tra la folla e sentire che una mano d’uomo mi accarezza maldestramente il culo. Per molte donne è estremamente sgradevole. Io lo capisco. Per me, sarebbe la prima mano anonima che si posa sulla mia schiena e sui mie fianchi. Non mi volterei a guardare a che viso appartiene quella mano. Se lo vedessi, probabilmente ne sarei scandalizzata. Ma le cattive maniere, i gesti volgari possono talvolta avere un po’ di poesia, giusto quel che ci vuole per non prendersela. (…) “Me ne vado in punta di piedi. Non voglio essere troppo pesante nel caso in cui gli angeli, come è detto nel Corano, venissero per portarmi fino al cielo. Ho svuotato il mio corpo e incendiato la mia memoria. Sono nato in mezzo a un fasto e a una gioia costruiti artificialmente. Me ne vado in silenzio. Sono stato, come dice il poeta, “l’ultimo e il più solitario degli umani, escluso dall’amore e dall’amicizia, e in ciò ben inferiore al più perfetto degli animali”. Sono stato un errore e non ho conosciuto nella vita altro che maschere e inganni…” (…) “Adesso questa storia è dentro di voi. Occuperà i vostri giorni e le vostre notti. Scaverà il suo letto nel vostro corpo e nel vostro spirito. Non potete più sfuggirle. È una storia che viene da lontano. Ha vissuto un’intimità con la morte. Da quando l’ho raccontata mi sento meglio, mi sento più leggera e più giovane. Vi lascio un tesoro e un pozzo profondo. Attenzione, non bisogna confonderli: ne va della vostra lucidità. Siate degno del segreto e delle sue ferite. Raccontate questa storia facendola passare attraverso i sette giardini dell’anima. Addio, amico mio, mio complice!” Prima di lasciarmi mi consegnò un grande quaderno dio più di duecento pagine al quale erano affidati il diario e i pensieri di Bey Ahmed. L’ho letto e riletto. Ogni volta ero sconcertato e, di questa storia, non sapevo cosa farne. Allora mi sono messo a raccontarla. Più andavo avanti più affondavo nel pozzo…, i miei personaggi mi abbandonavano…, ero ridotto a fare delle constatazioni fino al giorno in cui, approfittando della pulizia della piazza, ho preso la strada del Sud. Quando il libro fu vuotato dalla luna piena di quanto vi era scritto, all’inizio ebbi paura, ma risalgono proprio ad allora i primi segni della mia liberazione. Anch’io ho dimenticato tutto. Se qualcuno in mezzo a voi ci tiene a conoscere il seguito di questa storia, dovrà interrogare la luna quando sarà interamente piena. Io deposito qui davanti a voi il libro, il calamaio e il portapenne. Me ne vado a leggere il Corano sulla tomba dei morti.
 Dicembre 1982 – febbraio 1985