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Tutti i giorni - Ossessivi giorni circolari - Terézia Mora - Gustavo Sainz



lunedì 29 ottobre 2007 leggono Eugenio Santangelo e Daria Biagi
In una lettura anomala per la Bottega dell’Elefante, due non-traduttori studenti di letteratura italiana cercheranno di riportare da un anno di studio all’estero un’esperienza di «bricolage tra varie lingue». L’impatto con l’estraneo - una letteratura e una lingua quasi del tutto sconosciute -, l’attraversamento della soglia e il tentativo finale, qui, di ritorno alla lingua madre con una prova di traduzione.
Proponiamo due opere che, pur appartenendo a culture, geografie ed epoche lontane, affrontano un nodo problematico comune, tipico delle letterature del Novecento: il tentativo di ordinare il caos del reale attraverso il linguaggio - linguaggio che poi, nell’impossibilità di una referenza, finisce ogni volta per ritorcersi contro i personaggi.
Gustavo Sainz, messicano, scrittore, sceneggiatore, critico letterario e cinematografico, iniziatore di quella che verrà poi chiamata “la literatura de la Onda”, in Obsesivos días circulares (1969) ribalta, con un’opera satirica, sperimentale e grottesca, il giovanilismo pop - ma ipercolto e pluristratificato - che al suo esordio ne fece un caso letterario.
Terézia Mora, ungherese trapiantata a Berlino, è scrittrice e traduttrice. In Alle Tage, vincitore della Fiera del Libro di Lipsia nel 2005, racconta il disagio e la comicità del confronto con un mondo estraneo attraverso le goffe avventure del traduttore Abel Nema.
Entrambi i romanzi non sono ancora pubblicati in italiano. 


da TERéZIA MORA, Tutti i giorni

Ommaria ce ne scampi e liberi!, disse Tatjana a Erik. La nostra amica Mercedes ha sposato una specie di genio o nonsocosa della Transilvania o chissà dove, uno che lei ha salvato dal fuoco o roba del genere.
In realtà, disse Miriam, la madre di Mercedes, è uno assolutamente a posto. Un uomo gentile, silenzioso e di bell’aspetto. E allo stesso tempo, è uno assolutamente non a posto. Anche se si fa fatica a definirlo. Qualcosa è sospetto. Il modo in cui è gentile, silenzioso e di bell’aspetto. Ma forse è normale, quando si è altamente dotati.
Ma che vuol dire: altamente? Ma niente, sa qualcosa. Qualche lingua. A quanto pare. Perché in realtà ce ne vuole per sentirgli dire una frase. Questo può essere un sintomo. Ma non è la ragione.
Ha gli stessi problemi di ogni emigrante: ha bisogno di documenti e ha bisogno di una lingua, aveva detto qualche tempo prima il professor Tibor B. alla sua compagna di una volta, Mercedes. Il problema della lingua l’ha risolto perfezionandosi, addirittura in dieci lingue, apprendendo la maggior parte delle sue conoscenze in un laboratorio linguistico – da non credere se lo racconto così: dal registratore. Non mi meraviglierei se non avesse mai parlato con un singolo portoghese o finlandese vivo. Per questo tutto ciò che dice è, come posso dire, quasi senza luogo, così limpido come non si è mai sentito, nessun accento, nessun dialetto, niente – parla come uno che non viene da nessuna parte.
Uno nato sotto una buona stella, disse qualcuno di nome Konstantin. Gli dico: tu sei nato sotto una buona stella. Mi guarda come se non avesse capito una parola. Eppure questa dovrebbe essere la sua specialità, non è vero? per come la penso io, la sua specialità è far sì che le persone si interessino a lui, e senza che lui faccia il minimo sforzo. Ci si riflette su e ci si arrabbia subito dopo, perché viene fuori che per tutto il tempo lui non ha fatto che guardare la bocca di quello con cui parlava, come se per lui avesse importanza solo il modo in cui ha pronunciato le fricative. Tutto il resto, il mondo, cani e porci non gli importa un fico secco. Vivere nel mondo e non vivere nel mondo. È uno così.
Uno che fa un po’ il sostenuto, di quelli Tipregononmitoccare, però a me non mi imbrogli, il tuo nome ti tradisce: Nema, il muto, imparentato con lo slavo Nemec, usato oggi per: il tedesco, e in passato per ogni lingua non slava, o detto altrimenti: i Barbari. Abel, il barbaro, disse una donna di nome Kinga, e rise. Questo sei.
Semplicemente guai, disse Tatjana. Si vede al primo sguardo, a meno che uno non sia cieco o non si chiami Mercedes. In fondo, dice lei, è un matrimonio finto. Sono le sue parole. In fondo. Un matrimonio finto. Col quale egli avrebbe risolto entrambi i suoi problemi. Congratulazioni.
[...]


Ce jour 
E un lunedì la si vide spuntare al braccio di questo tipo al Jour fixe. C’era di nuovo qualcosa in un bar vicino alla casa editrice, stavolta sotto il patrocinio della coppia Erik-Maya,. I tempi richiedono di socializzare e dialogare. Se tu (Mercedes) non hai niente in contrario. Perché dovrei avere qualcosa in contrario? Indagava dentro di sé, e in effetti: niente più dolore.
[...]
Ma guarda! Urlò Erik a capotavola. Ma chi abbiamo qua! (Abel abbassa le palpebre imbarazzato, Tatjana alza un sopracciglio). Certo che ci ricordiamo tutti, ti accogliamo nella nostra cerchia con gran piacere e sincero interesse, mia moglie Maya la conosci già, e qui c’è Max, ah anche voi vi siete già presentati?, il mio vecchio amico Juri, con lui ancora no, e, certo, la mia vecchia controparte Tatjana, che ora col disprezzo solito piega le labbra un po’ troppo rosse per i miei gusti, che vuoi da bere?
Come andiamo con la tua attesissima opera universale?, chiese Erik, mentre arrivavano l’espresso e il cognac.
Grazie, disse Abel alla cameriera.
Hm? (Erik)
Scusa, disse Abel, non ho...
Erik ripeté la domanda. Quella cosa della linguistica comparativa.
Abel mandò giù un sorso di caffè.
Il mio computer è stato rubato.
Oh, disse Maya. Com’è successo?
E allora? Disse Erik. Non si ha sempre una copia di sicurezza?
Non la si ha.
Oh.
Silenzio.
Come sta Omar?, chiese Maya.
Benissimo, grazie, rispose Mercedes.
Il che quella sera fu per un bel pezzo l’ultima cosa che disse a voce alta.
Dove eravamo rimasti?
La capisco molto bene, Tatjana (che si comportava come se la sua migliore amica e l´uomo che era con lei non la interessassero) si rivolse a Madmax. Prima si combatte con la propria idiozia, poi con quella degli altri, non é facile.
Sì, dice Erik, ti capiamo ma non ti compatiamo. Te lo meriti. Ti sei messo con dedizione nella sfera del fatale. Ora sii ubbidiente e paziente. Spanf, la sua zampa atterrò sulla schiena curva di Madmax. Rintronò fra le costole. MM tossì. Per via dello sganassone o per qualcos’altro. Tossì, annuì, sorrise con pena, annuendo.
Max ha appena finito di scrivere un libro. (Erik ad Abel con aria esplicativa).
La cosa che vorrei di più sarebbe mettermi in viaggio, disse MM. E possibilmente subito, per un anno o anche di più. Con l’ultimo libro era andata avanti finché non si erano rimarginate le magagne. Se solo non ci fossero tutte queste imponderabili cose, colpo di tosse, a cominciare dai soldi.
E lasciamo stare il fatto che fuori dal tuo recinto quotidiano sei completamente disorientato.
Se vuole la accompagno, disse Tatjana.
MM la guardò spaventato.
Perché lo vuole ammazzare? Quel pover’uomo non le ha fatto niente di male, le bisbigliò Juri nell’orecchio. Lei fece finta che le fosse finito un capello nell’orecchio o una mosca. Lo sfiorò con disgusto.
E così via. Erik diceva, Tatjana contraddiceva, Madmax si sfiniva tra loro, Maya si prendeva cura di Juri e intanto portava avanti un’educata conversazione su stupidaggini. Mercedes e Abel erano seduti nell’angolo tra la finestra e la porta d’ingresso e tacevano. Intorno a loro il solito rumore del bar, Mercedes ci sedeva dentro stordita, la caviglia informicolata sotto il tavolo, e tutto profumava come fin qui non era mai avvenuto. Era l’odore dell’uomo accanto a lei, non concreto, piuttosto qualcosa come la sensazione della sua presenza, e di colpo lei disse piano, senza guardarlo:
Che ne pensa di sposarsi?

Qual era la domanda?
Erik era proprio sul punto di chiarire qualcosa, di arrivare al nocciolo della questione, prese un ultimo slancio, inspirò, fece una brevissima pausa – e proprio a questo punto qualcuno dall’altra parte del tavolo scoppiò a ridere. Questo Abel, che per tutto il tempo era stato seduto là come uno stoccafisso. Cominciò a ridere, e come poi, come mai lo si era visto fare, una risata a pieni denti. Tutto il tavolo ora guardava verso di lui. Erik, privato dell’attenzione, in ogni caso il filo lo aveva perso, corrugò la fronte risentito. Che c’è da ridere?
Niente! Abel agitò il bicchiere vuoto del cognac a mo’ di scusa. La cameriera lo fraintese. Un altro?
Questo poi sarebbe stato già il quarto o il quinto, pensò Mercedes. Faresti meglio a contare i drink prima di fare una proposta di matrimonio a qualcuno. Lui rise, scosse la testa. Un malinteso. Posò il bicchiere.
Era tremendo che ridesse così, ma d’altra parte cosa ti aspettavi, fare una domanda del genere a qualcuno a un tavolo pieno di gente, ma non lo so. Dall’altra parte del tavolo si continuava a tacere, e così lui non poteva dire nulla.

(Moltissimo.
Cosa “moltissimo”? (questo sarebbe stato Erik.)
E lui, gentile: ho risposto alla domanda di Mercedes.
E qual era la domanda?
Una cosa privata, avrebbe detto in fretta lei, dopodiché tutti sarebbero stati di nuovo zitti finché – speriamo – l’amichevole Maya non avesse tirato fuori un nuovo argomento.)

Lui fece un cenno agli altri: continuate a parlare per favore, non fatevi disturbare e soprattutto lasciatemi in pace, così io continuo a far grattare piano piano il bicchiere sul tavolo per l’ennesima volta e a far finta di guardare fuori dalla finestra.
Insomma, per finire la frase… disse Erik e finì la frase e ne cominciò un’altra, ma l’attenzione –la sua- ormai era andata, qualunque cosa dicesse o facesse non poteva più perdere di vista quei due.
Lei fissava con le guance rosse la tazza di caffè di fronte a sé, lui fingeva di guardare fuori dalla finestra, ma fuori dalla finestra non si poteva guardare, non c’era niente da vedere, era buio, la propria immagine riflessa al massimo, ma il suo sguardo, Erik se ne accorse, non afferrava neanche questa. Così, ciecamente, un momento inosservato o meno, anche di questo non si poteva essere già reso conto, poggiò la mano accanto a sé, prese quella di lei, se la portò alla bocca e la baciò. Quattro persone al tavolo parlavano –
[...]
- e non se ne accorsero, la quinta era Erik. Ah, tu…!
Un baciamano. Questa poi era talmente fuorimoda, imprevedibile, buttata là che mi sento venir male dall’invidia. No no, non per gelosia. Pura e semplice invidia per un gesto improponibile.
Prese la mano, la baciò, la poggiò di nuovo accanto a sé, ora stavano di nuovo: mano di lei sul ginocchio di lei, mano di lui sul ginocchio di lui. Per tutto il resto della serata non dissero più una parola. Grazie, sì o grazie, no? Che razza di situazione, da darsela a gambe, stupidamente fa pure male una caviglia, scappare no di certo, zoppicare al massimo, ma anche in quel caso era necessario rivolgergli un’altra volta la parola, sta proprio in mezzo, lei incastrata nel vano della finestra non sente altro che il proprio batticuore.
Più tardi, tuttavia, aveva avuto la cortesia di rendersi comprensibile. O perlomeno allora mi sembrò così. (Mercedes: lasciamo stare). Erik si offrì di accompagnarli in macchina, ma lui aveva già chiamato un taxi.

DA TERéZIA MORA, Alle Tage

Maria von der Gnade der Gefangenenbefreiung, sagte Tatjana zu Erik. Unsere Freundin Mercedes hat eine Art Genie oder was aus Transsylvanien oder wo geheiratet, den sie aus den Feuer oder so ähnlich gerettet hat.
Eigentlich, sagte Mercedes’ Mutter Miriam, ist alles in Ordnung mit ihm. Ein höflicher, stiller, gutaussehender Mensch. Und gleichzeitig ist nichts in Ordnung mit ihm wenn man das auch nicht naher benennen kann. Etwas ist verdächtig. Die At, wie er höflich, still und gutaussehend ist. Aber vielleicht ist das so, wenn man hochbegabt ist.
Was hei?t hier: hoch? Nun gut, er kann was. Einpaar Sprachen. Angeblich. Denn in der Praxis hort man kaum einen Satz von ihm. Das mag ein Symptom sein. Aber die Ursache ist es nicht.
Er hat die gleichen Probleme wie jeder Emigrant: er braucht Papiere und er braucht Sprache, sagte zu einem früheren Zeitpunkt Professor Tibor B. zu seiner damaligen Lebensgefährtin Mercedes. Letzteres hat er so gelost, dass er einfach perfekt geworden ist, und das gleich zehnmal, und zwar so, das glaubt man einfach nicht, dass er den Gro?teil seiner Kenntnisse im Sprachlabor erworben hat, so wie ich es sage: von Tonbändern. Es wurde mich nicht wundern, wenn er nie mit einem einzigen lebenden Portugiesen oder Finnen gesprochen hatte. Deswegen ist alles, was er sagt, so, wie soll ich sagen, ohne Ort, so klar, wie man es noch nie gehört hat, kein Akzent, kein Dialekt, nichts – er spricht wie einer, der nirgends herkommt.
Ein Gluckspilz, sagte jemand namens Konstantin. Ich sage zu ihm: du bist ein Gluckspilz. Da schaut er mich an, als hatte er kein Wort verstanden. Dabei soll das doch, nicht wahr, seine Spezialität sein. Wobei ich persönlich denke, seine eigentliche Spezialität ist es, dass sich Menschen für sie interessieren, und zwar ohne dass er auch das Geringste dafür tut. Man macht sich Gedanken über ihn und ärgert sich hinterher, weil sich herausstellt, dass er einem die ganze Zeit , wahrend man auf ihn eingeredet hat, nur auf den Mund geschaut hat, als besa?e allein die Art und Weise, wie man die Frikative bildet, Wichtigkeit für ihn. Der ganze Rest, die Welt, mit Mann und Maus, interessiert ihn nicht die Bohne. In der Welt leben und nicht in der Welt leben. So einer ist er.
Immer etwas etepetete, so ein Rührmichnichtan, aber du tauscht mich nicht, dein Name verrat dich: Nema, der Stumme, verwandt mit dem slawischen Nemec, heute für: der Deutsche, früher für jeden nichtslawischer Zunge, für den Stummen also, oder anders gesagt: den Barbaren. Abel, der Barbar, sagte eine Frau namens Kinga und lachte. Das bist du.
Schlicht und ergreifend Trouble, sagte Tatjana. Das sieht man auf den ersten Blick, es sei denn, man ist blind, es sei denn, man ist Mercedes. Im Wesentlichen, sagt sie, sei es eine Scheinehe. Das sind ihre Worte: in Wesentlichen. Eine Scheinehe. Womit er beide seiner Probleme gelost hatte. Gratulieren wir.
[…..]

GUSTAVO SAINZ, Ossessivi giorni circolari

[...]Cerco di perdermi nella tappezzeria dell’aereo, un collage in tonalità caffè, ocra e grigiogiallognolo su un fondo lattiginoso. Ci sono mariachis, qui, un’arcata coloniale, l’edificio degli Affari Esteri a Nonoalco Tlatelolco, un angelo dell’indipendenza mal disegnato, la cattedrale accanto alla pietra del Sole, la Diana con seni playboyeschi, i giganti di Tula (grigi), un Tlàloc (grigio) e qualcosa tipo un fregio grigiastro anche lui e che pare proteggere un torero da un torello intrappolato in una ragnatela di rami d’alberi del Paseo de la Reforma, suppongo, o del Desierto de los Leones... Perché pensare alla morte? M’invade la certezza che una volta sopra un aereo pieno di pistoleri, è impossibile uscire. È come se mi avesse sorpreso la guerra in Algeria o Corea o Vietnam del Nord: le possibilità di salvezza sono millimetriche, contundentemente miracolose. E sì che il momento sembra da commedia musicale. Un altro po’ e i tipi s’alzano a cantare roco, come i lottatori in Siempre hay un día feliz o gli impiegati di Promises, Promises... [...]
Mi attaccò dice uno dei tipi in piedi nel corridoio, come in direzione bagno, e tirai fuori la pistola per colpirlo in testa e me lo scucinai per di qui e qui... Ti scappò lo sparo? Sì, sai che queste c’hanno la sicura molto floscia, eh. E risate d’obbligo, come nel cinema nazionale, dove sostituiscono innumerevoli risposte con sghignazzate di scena... Il film Ossessivi giorni circolari (anni fantasma), edito in Messico, contenuto, con sottotitoli esplicativi in, con, prodotto e diretto da, distribuito e esportato da, con domicilio in, supervisionato da/ L’azione si svolge in un aereo che vola sulla Repubblica Messicana. Chi è in grado di sintetizzare una cosa così senza capo né coda? Tutti i passeggeri partecipano d’un segreto comune, eccetto il narratore, che lo intuisce. Sono banditi, pistoleri o poliziotti e sviluppano conversazioni circostanziali. Il protagonista pretende di intervenire, convinto che non potrà mai imbeversi in un libro che carica sulle ginocchia, o in una lettera mezza scritta che già ha riposto in tasca. Conoscete Sarro? inquisisce, come per mostrare le sue conoscenze. Questo qua conosce al grassone! grida un tipo alla sua destra, dirigendosi agli altri, che si burlano. Fanno gridi gutturali, guàcara, per esempio, e battono palme. Brevi close-ups che mostrano la vanità di volti maltrattati. A quarant’anni tutti sono responsabili delle proprie facce dice una voce in off. E come gli va al panzone? domandano tra sghignazzate stereofoniche. Ciccione recita qualcuno non molto lontano dal gruppo principale e un altro fa inciampare la hostess, sgambetto mediante. [...]
La Terra sembra da qui un frammento amplificatissimo della pelle di uno di questi uomini. Se il viaggio durasse più tempo - credo -, scoprirei nella natura questi nasi a forma di noci, le bocche di piranha, i baffazzi di felce.... Andremo verso la morte? Il sentimento m’invase al salire sul taxi. O al baciare Donita? È l’ultima volta, pensai, o: sarà questa l’ultima volta? Potevo fare marcia indietro, perché nell’aeroporto era già difficile, e ancora di più al avanzare verso l’aereo, impossibile standoci dentro e più impossibile al notare le dimensioni dei mostri che circondavano il mio posto, cortesi e occhieggianti, con facce cartografiche e armi in fondine speciali come se fossimo in Kenya a farla finita con le riserve di animali. O è stato quando mi sono alzato? [...] Da che è dipeso il mio arrivo in questa macchina ronzante? Da quale insignificante, fottuto movimento, decisione, puttanata? Quando si avvicina la fine, assicura Borges che scrisse Cartaphilus, non rimangono più immagini del ricordo; rimangono solo parole... E cerco di non avvolgermi in parole, di cadere in ricordi silenziosi e grati, come la festa acapulqueña nella penthouse degli architetti. PROFESSIONISTA ASSASSINATO DA UNA CADILLAC BIANCA. Però è inutile, né Leticia, né Donají, né le bambine lavandosi senza sapersi spiate, accorrono alla mia mente/[...]
L’aeroporto si precipita verso di noi e l’aereo s’inclina su se stesso con un movimento di girasole...
...e per prima cosa gli misi le braccia intorno sì e me lo tirai addosso in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato sì e il suo cuore batteva come impazzito e sì dissi sì voglio sì... Il finale dell’Ulisse adesso che iniziamo la manovra d’atterraggio. Diavolo, m’è andata via mezz’ora in conversazioni senza senso, scarabocchiando una lettera, ascoltando o attento a quel sole come di latte. O m’è andata via una vita? Palpo la cintura di sicurezza in un ingenuo gesto di conferma e stendo le gambe. [...]
Forse la lettura dell’ultima frase dell’Ulisse, oppure perché l’aereo lascia vedere parte della sua fusoliera argentata, o timori che mi assediano da tutte le parti e che lascio fluttuanti, qui, mentre l’aereo discende rapidamente, mi fanno pensare al finale di un libro, come se i miei giorni fossero un accumulo di citazioni, conversazioni, parole altrui, paragrafi sciolti, preoccupazioni senza senso. Palme selvagge, per esempio... Tra il dolore e il nulla, sceglierò il dolore... O La región más transparente:... e sul ponte di Nonoalco si detiene Gladys García, veloce anche dentro la polvere, e accende l’ultima sigaretta della notte e lascia cadere il cerino sui tetti di lamina e respira l’alba della città, il vapore di treni, la sonnolenza della carne, i tanfi di benzina e alcol e la voce di Ixca Cienfuegos, che corre, col tumulto silenzioso di tutti i ricordi, tra la polvere della città, vorrebbe toccare le dita di Gladus García e dirgli, solo dirgli: Qui ci è toccato. Che ci possiamo fare. Nella regione più trasparente dell’aria...
E il mare, ai piedi, quasi inseguendo la pista d’atterraggio con rugose macchie di vento che non cessano di spostarsi. Non sento nulla, nemmeno la paura d’un incidente: solo calma. Il futuro, allora, può essere Lalka spregiudicata, e umida, o un nuovo impiego, o alcuna certezza, come alla fine di Grande Sertão:... Quel che esiste è l’uomo umano. Traversia... e poi un segno d’infinito, inquietante a pie di pagina. O ne Las furias: So che questa tranquillità è temporale. Sperimenterò ancora l’ossessione dei mostri nella paura di catastrofi astratte che non arriveranno mai e nell’aria sospettosa di un avvenimento in sospeso. Però sento che il mondo assorbe, consuma, dissolve le mie paure, le priva d’ogni verità. Che rimane nel fondo? Non più le mie paure ma l’anima profetica del vasto mondo che sogna le cose future... O in Pedro Páramo: Dopo pochi passi cadde, supplicando dentro di sé, ma senza dire una sola parola. Diede un colpo secco contro la terra e si sgretolò come se fosse un mucchio di pietre...
Contemplo nuovamente il libro, più immortale di Jey jey, non c’è dubbio, se J.J. era un corpo: le pagine cremose, il rientro negli inizi di paragrafo, il capriccioso formato di un capitolo, le linee delle parole, lunghe, consistenti, dure come il lingotto di metallo che le impresse. Yin, dovunque tu sia: ...Questa notte il mio amante sarà un incubo continuo... (José Antonio Arcocha). O Le 120 giornate di Sodoma. Come finiscono Le 120 giornate di Sodoma? O Saint-John Perse: Gli dei ci chiamano a dialogo sulla scala, e tiriamo fuori da sotto i nostri letti le nostre più grandi maschere di famiglia...
Si vede già la pista dell’aeroporto, fermamente diagrammata nel paesaggio brumoso. Magari incontro Leticia, o Yin, se bazzica con l’architetto e il mio compito non è seccante... Loro mi proporranno qualcosa di gradevole e io accetterò: è da anni che non godo una relazione extraconiugale e la linea dell’amore, nelle mie mani, è attraversata da migliaia di righette. Mendizábal tiene sbottonata la cintura di sicurezza e guarda ipnotizzato le lettere che proibiscono fumare. Ho fiducia, fede in una sorte che mi ha preservato sempiternamente da qualsiasi male, nonostante adesso s’inizi un formicolio nel petto. Per vincerlo, lascio che la mia mente si perda in un vecchio film messicano, con Cantinflas, nei dialoghi più che nelle immagini, in una frase anzi, detta colla sua peculiare tiritera: Di generazione in generazione le generazioni si degenerano con maggiore degenerazione. Di generazione in generazione le generazioni si degenerano con maggiore degenerazione. Di generazione in generazione le generazioni si degenerano con maggiore degenerazione. Di gener[...]

GUSTAVO SAINZ, Obsesivos días circulares (1969)

Me atacó dice uno de los tipos de pie en el pasillo, como rumbo al baño, y saqué la pistola para golpearlo en la cabeza y me lo escabecheé por aquí y por aquí... ¿Se te disparó? Sí, ya sabes que éstas tienen el seguro muy flojo, je. Y risas de compromiso, como en el cine nacional, donde sustituyen innumerables réplicas con carcajadas de escenario... La película Obsesivos días circulares (Años fantasmas), editada en México, contenida, con títulos explicativos en, con, producida y dirigida por, distribuida y exportada por, con domicilio en, supervisada por/ La acción se desarrolla en un avión que vuela sobre la Republica Mexicana. ¿Quién puede sintetizar algo sin pies ni cabeza? Todos los pasajeros participan en un secreto común, excepto el narrador, quien lo intuye. Son bandoleros, pistoleros o policías y desarrollan conversaciones circunstanciales. El protagonista pretende intervenir, convencido de que jamás podrá embeberse en un libro que carga sobre las rodillas, o en una carta a medio escribir que ya se ha guardado en el bolsillo. ¿Conocen a Sarro? inquiere, como para exponer sus relaciones. ¡Este conoce al gordo! grita un tipo a su derecha, dirigiéndose a los demás, que se burlan. Hacen gritos guturales, guácara, por ejemplo, y baten palmas. Breves close-ups que muestran la vanidad de una serie de rostros maltratados. A los cuarenta todos son responsables de sus propias caras dice una voz en off. ¿y cómo sigue el panzón? preguntan entre estereofónicas carcajadas. Timbón reza alguien no muy lejos del grupo principal y otro hace tropezar a la azafata, zancadilla mediante. [...]
[...]¿De qué dependió mi arribo a esta maquina ronroneante? ¿De qué insignificante, pinche movimiento, decisión, chingadera? Cuando se acerca el fin, asegura Borges que escribió Cartaphilus, ya no quedan imágenes del recuerdo; sólo quedan palabras... Y trato de no envolverme en palabras, de caer en recuerdos silenciosos y gratos, como la fiesta acapulqueña en el penthouse de los arquitectos. PROFESIONISTA ASESINADO DESDE UN CADILLAC BLANCO. Pero es inútil, ni Leticia, ni Donají, ni las niñas bañándose sin saberse observadas, acuden a mi mente/ [...]
Se ve ya la pista del aeropuerto, firmemente diagramada en el paisaje brumoso. A lo mejor encuentro a Leticia, o a Yin, si es que anda con el arquitecto y mi tarea no es muy engorrosa... Ellas me propondrán algo agradable y yo aceptaré: hace años que no gozo una relación extramarital y la línea del amor, en mis manos, está cruzada por miles de rayitas. Mendizábal tiene desabrochado el cinturón de seguridad y mira hipnotizado las letras que prohíben fumar. Tengo confianza, fe en una suerte que me ha preservado sempiternamente de todo mal, aunque ahora se inicia un hormigueo en mi pecho. Para vencerlo, dejo que mi mente se pierda en una vieja película mexicana, con Cantinflas, en los diálogos más que en las imágenes, en una frase más bien, dicha con su peculiar sonsonete: De generación en generación las generaciones se degeneran con mayor degeneración.De generación en generación las generaciones se degeneran con mayor de[...]