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Ë que eu gosto de muita coisa, sabe?! - David Mourão-Ferreira




lunedì 05 novembre 2007 legge Franco Tortoreto
David Mourão-Ferreira (Lisbona 1927-1996) è stato il più grande poligrafo del Portogallo: poeta, romanziere, saggista, autore teatrale e cinematografico, conferenziere in patria e all’estero, comunicatore televisivo, tre volte ministro della cultura, vice presidente mondiale dei critici letterari, direttore di giornali, professore universitario amatissimo dalle generazioni del passaggio alla democrazia, per il suo forte e generoso impegno politico. Fra tutte queste attività, svolte secondo l’unanime giudizio critico, con talento ed eleganza non comuni, David non ha disdegnato, anche contro il parere del paludato mondo accademico, un coinvolgimento senza riserve nel mondo del Fado, lasciando una profonda memoria, dall’amicizia privilegiata con Amalia Rodriguez all’affetto e alla stima plebiscitari dell’intero ambiente. Le sue poesie sono infatti fra i testi più utilizzati. A riprova del fatto che “l’aristocratico Principe delle lettere”, come veniva chiamato, sapeva che in quel genere musicale a volte dimesso e spesso triste vive l’anima vera del suo popolo, di cui si sentiva autentica espressione. 
Ce ne offre un vivace profilo il suo traduttore, Franco Tortoreto. 


David Mourão-Ferreira, Gabbiani di terra, Firenze, Vallecchi 1996, trad. F. Tortoreto

MARIA DA LUZ


[…]
Era, effettivamente, brutta. E non sembrava poi neanche tanto tanto giovane, Ah! Eppure se l’avessi vista, dovunque fosse, non mi sarebbe sicuramente passata inosservata! Con grande scandalo delle mie sorelle, io mi ero sempre sentito attratto da un certo tipo di donne – che loro, evidentemente, consideravano uno «sgomento» - , le cui sembianze erano, di solito, se non grossolane, per lo meno irregolari, soprattutto provocanti. Mia nonna, che ne capiva ancora di meno, era solita dire che, fin da piccolo, io ero stato sempre di gusti molto popolari – cosa che, in fin dei conti, non spiegava niente, perché ho incontrato caratteri fisici di questo genere in tutte le classi sociali. Di fatto Maria da Luz corrispondeva, in gran parte, a quel tipo di bruttezza conturbante e provocante. E’ certo che l’avrei preferita con un naso più regolare, meno rincagnato, meno grosso. Ma gli occhi erano quasi stupendi, spettacolarmente verdognoli. E dagli zigomi, molto rilevati, e dalla bocca, anch’essa molto grande, e dalle stesse narici dilatate, sembrava liberarsi una mistura un po’ aspra di mistero, di stupidità e di malizia. Portava i capelli, che erano molto scuri e lunghi, raccolti sulla nuca - «alla profuga», come si diceva all’epoca. 
[…]
C’ era, lì nella strada, una fuga di gas; ma, mescolato a questo cattivo odore, un profumo di sardine alla brace. La mano di Lucilia era umida, umida e morbida, di sudore; il contatto con il braccio – duro, caldo, asciutto – era più gradevole. Anche dopo aver superato quella zona di buche, di travi di legno, di fogne, di mucchi di terra, continuai a guidarla, tenendola con la mia mano sotto il suo braccio, vicino al polso. Lei non si opponeva e neanche si abbandonava. E fu così che entrammo nel giardino di Anjos.
E’ un giardino triste, come tutti sanno. Poche ombre; e quell’ammasso di chiesa lì in mezzo. Ma, là in fondo, dietro la chiesa, in una tranquillità di provincia, sonnecchiano alcune riposanti panchine. Erano tutte libere, quasi tutte al sole: una soltanto era favorita da un’ombra rachitica di un vicino albero. La scelta non fu difficile. E poiché era giusto che tutti e due dividessimo quella debole ombra, ci sedemmo ad un’estremità, molto vicini. Le passai la mano dietro la schiena; sotto la pressione delle mie dita sulla sua spalla ricomparve la Maria da Luz della telefonata del giorno prima: 
-Oh! Enrico…Oh! Enrico… Tutto questo è una pazzia! 
Ma ai baci che io pretendevo darle negava solo le labbra: in compenso, impacciata, allungava il collo, quasi a cedermi, là, una superficie più grande. E io le baciavo il collo, le baciavo la nuca: quanto più davanti il collo si allungava, di più la nuca si contraeva. A volte, mi sembrava che le labbra mi si attaccassero là, assorbite da quel vortice inaspettato. Di tanto in tanto, mi vedevo obbligato a qualche breve sosta – anche perché una ciocca dei suoi capelli, che frattanto si erano scompigliati, mi faceva solletico al naso. Allora approfittavo anche per grattarmi di nascosto. E fu in una di queste occasioni che lei mi afferrò il viso con tutte e due le mani e lo attrasse violentemente verso di sé. Fu un bacio – uno soltanto -, ma così lungo, così morbido e così umido che ebbi la sensazione che tutto, dentro di me e attorno a me, sprofondasse, oscillasse, crollasse: la panchina, il piazzale, il giardino di Anjos. Poi si liberò – o mi liberò – mi si mise in piedi di fronte, aggiustandosi il vestito. – Ah! Così si fa? – chiese, allora, con un 
sorrisino di scherno e con voce roca; e, con il labbro inferiore stretto fra i denti, gli occhi tanto chiusi che per la vicinanza delle sopracciglia mi sembravano neri, mormorò ancora in un rimprovero compiaciuto: - Questo barbaro! – 
Era un atteggiamento molto generoso! Capii allora, un po’ riconoscente, un po’ spaventato, che lei aveva deciso d’ora innanzi di assumere il comando delle operazioni; ma, magnanima, mi lasciava l’illusione che io ne fossi il responsabile. 
[…]
Proprio grazie alla scusa di essere stata trattenuta dalla “fila” del razionamento aveva potuto fissarmi quell’incontro. Mi parlò di un film che si proiettava al cinema Lis, con Robert Tylor. E di un programma radiofonico che non sempre poteva ascoltare, perché al padre piaceva sentire la BBC…E, nonostante il fard, nonostante il rossetto, il suo aspetto contrastava penosamente con quello delle straniere che venivano lì, tutte già molto abbronzate. Era evidente che non era ancora andata al mare. E questo particolare che nel giardino di Anjos mi era sfuggito, che là non aveva nessuna importanza, rivestiva ora un valore inaspettato. D’altra parte il corpo di Lucilia non era di quelli che ci fa piacere vedere in costume da bagno. Si poteva immaginare una carnagione pallida, casalinga, di pollastra: non era sicuramente un corpo da portare in spiaggia. Ma non per questo metteva minor desiderio di sentirlo completamente nudo. Lo posso assicurare! Camminavamo a braccetto e, siccome era abbastanza più bassa di me, la pressione cadenzata e strisciante della sua anca sulla parte alta della mia coscia rivelava armonie nascoste, maturità, sagge intese. Di tanto in tanto, all’angolo di un viottolo, in un’ombra più complice, ci baciavamo. Poi proseguivamo. Ad una domanda un po’ brusca che le feci rispose di sì, che già c’era stato un uomo nella sua vita.- …Il cadetto? - No, no – esclamò in un sussulto. - Un altro. 
[…]
Poi accese la luce della lampada sul comodino, spense quella centrale, verificò se aveva già chiuso a chiave la porta.
- Finalmente, caro! – E si gettò fra le mie braccia. E fu di nuovo la rovina del giardino di Anjos, la grande pace del Parco Edoardo VII, e allo stesso tempo l’esaltazione, la febbre, la morbosità di certe telefonate! Senza smettere di baciarci la spinsi verso il letto. Cademmo entrambi. Ma, improvvisamente, si liberò e, con una voce molto calma, esclamò:
- Non ti pare che ci sia troppa luce? Si alzò e da un cassetto del comodino andò a prendere un foulard arabescato: con grande perizia ci avvolse l’abat-jour. 
-Perché non ti spogli, caro?
Anche lei si tolse, con un movimento brusco, il vestito e la sottoveste. Piegò, poi, il copriletto, tirò indietro il lenzuolo e la coperta. E tutto questo, la sapiente sicurezza con la quale faceva ogni operazione, la disinvoltura con la quale mi si consegnò, i gridolini rochi, il gesto, nel momento cruciale, di addentare il cuscino – tutto ciò mi diede la quasi repellente sensazione di avere a che fare con una professionista. Aveva, perlomeno, una decisa vocazione da sgualdrina. Ma quando aprii gli occhi e vidi l’espressione dei suoi, il viso che improvvisamente si era fatto molto più giovane e quell’eccitata beatitudine, - mi sentii ingiusto, sentii quanto fosse ingiusto condannarla, chiunque lei fosse. Sembrava che avesse sedici anni. La pettinatura si era disfatta; i capelli le cadevano sulla fronte e su una spalla. Ed aveva difficoltà ad aprire gli occhi. Ma sorrideva.
[…]


CESALTINA 


… Era più grande di lui di un tre o quattro anni; ma tanto precoce che ancora la ricorda soltanto con forme e gesti di donna. A dodici anni, già amoreggiava con ragazzoni di venti e più. E se è per questo, non disprezzava neanche quelli della famiglia: e neppure i più giovani. Di tutta quella sfilza di cugini e cugine, chi è che di fatto non aveva condiviso la grande vocazione di Cesaltina per la chirurgia, e soprattutto per l’ostetricia? Simulava operazioni alla perfezione: perfino i poveri pazienti maschi si prestavano di buon grado a quell’abilità di Cesaltina nella realizzazione di tagli cesarei e di parti…L’altro passatempo era il teatro. E se la zia Salomè non era in casa (lo zio Antonio, da parte sua, era quasi sempre in mare), allora sì che le rappresentazioni si cesellavano! Il tavolo della sala da pranzo, spostato verso la parete, faceva da palco: e Cesaltina cantava, danzava, faceva il tip tap, e tutto costituiva un pretesto per dipingersi le labbra…per mostrare le gambe, per eccitare quella piccola banda di galletti in rodaggio… Alla fine, esausta, la vedette si ritirava in camerino – che era la camera della madre – e i più giovani avevano addirittura il privilegio di andare a complimentarla, purchè qualcuno restasse sul balcone della sala, di sentinella, che la madre non stesse arrivando da un momento all’altro.
[…]
Ma Cesaltina si era fermata lì e non era più tornata sull’argomento. Intanto erano arrivati all’entrata di Belas. Far merenda? Non farla? C’era stato un piccolo conciliabolo ed avevano finito per rinunciare: era già tardi; era piuttosto scuro. E fino a Queluz avevano ancora molta strada da percorrere a piedi! “Andiamo, bambini!”, aveva comandato la zia Enrichetta. “Lo sapete già. E’ sempre come dico: capra zoppa non ha siesta”. Così, si erano limitati a comprare, sulla porta di uno spaccio, due pugni di castagne arrosto. E il particolare delle castagne arrosto era molto importante: proprio a causa delle castagne Cesaltina, poi, gli aveva ispezionato le tasche. No!, non credeva che lui avesse già mangiato tutte le castagne! Gli aveva tastato la giacca, subito dopo gli aveva rovistato i pantaloni. Ma aveva trovato soltanto, in una delle tasche, la fodera scucita: e le si erano impegolate le dita laggiù in basso. “Ah! Furfante!…”. La prova era stata preceduta da una simulazione di lotta, che l’aveva lasciata eccitata, infiammata. “Ah! Furfante…Non ti vergogni? Non ti vergogni di star così?”. Dopo, senza fretta, aveva ritirato la mano – e gli aveva dato un forte pizzico ad un braccio. Poi, un po’ più avanti, mentre la zia Enrichetta e la vicina scomparivano in una curva, Cesaltina improvvisamente si era fermata, lo aveva fatto girare finchè si erano trovati faccia faccia. “Tu, ora… Quanti anni hai tu?” – “Tredici”- “Soltanto? Già sei più alto di me”. Gli aveva afferrato le mani, tutte e due le mani; e gli occhi di lei gli si erano fermati molto vicini, azzurro scuri, del colore del cielo: “Quando giocavamo…ti ricordi?” - “Mi ricordo” – “Te ne ricordi molto? Spesso ?” - “Sì”. Improvvisamente,la voce era divenuta più grave, ansiosa, più velata: “Se io morissi…Per esempio, se io morissi domani… Ti dispiacerebbe?” – “Mi dispiacerebbe”. E soltanto allora era arrivato il bacio. Tanto differente dagli altri, da quelli di una volta!Sembrava il frutto concentrato di tutti gli amoreggiamenti che aveva avuto, dei film che aveva visto nelle “matinées” del Palatino, ed anche di quella angoscia recente e inspiegabile, subito dopo svanita in un commento malizioso: “Lo sai quello che mi sei diventato? Un grandissimo birbone!”. Ed aveva finito per dargli un altro pizzico nel braccio. Dopo si erano messi di nuovo in cammino. Né la zia Enrichetta né la vicina si erano accorte di quel ritardo. 
[…]


DALILA 

Dalila gli sistema le coperte sul collo: sicuramente lo crede già addormentato. E, girandogli le spalle, anche lei, subito dopo, si rannicchia sotto le lenzuola. Sotto il casco dorato dei capelli ossigenati, tagliati corti, la nuca offre un povero aspetto vulnerabile. In strada, sembra una donna quasi imponente; ma il collo, molto dritto, non è soltanto quello di chi vuole mostrare meno di quarant’anni: è anche quello di chi ha già sofferto non poco. Ma lei non confessa quello che ha sofferto: esibisce, al contrario, in ogni momento, un passato tutto folgorante – come se volesse nascondere, dietro un ventaglio di piume, le rughe e i segni del tempo.
La spallina di pizzo della camicia da notte scende ora, dalla spalla, sul braccio. Ma le risale di nuovo sulla spalla, quando lei, alzando la mano, spegne, sulla testata del letto, la luce della lampada. 
[…] E si era innamorata di lui, proprio nel momento peggiore! Con l’ingegnere si era messo ad andare tutto molto liscio; e anche Maldonado stava diventando sempre più assiduo. Maldonado era stato compagno di bisbocce del fratello Francesco. Che sorpresa, quando l’incontrò, subito i primi giorni, alla porta della Benard1! Era molto grasso; aveva fatto un matrimonio ricco. E fu amabilissimo. Le fece anche da mallevadore per tutti quegli acquisti a rate. Arrivò perfino a parlarle ( a mezza bocca, si capisce) della possibilità di offrirle una “sistemazione”; ma c’era, da parte di entrambi, un certo imbarazzo, forse perché lui era stato compagno di bagordi del fratello Francesco. Nel frattempo, era spuntato l’ingegnere. L’ingegnere era piccolino, magrolino, una figura debole. Era spuntato, tuttavia, con grandi sguardi, grandi tic del mento, in piena sala da tè della pasticceria Imperium. E subito c’erano stati grandi inseguimenti con il taxi, grandi orchidee a casa di lei, grandi inviti a cena fuori e subito, la prima volta, l’ingegnere aveva messo tutto in chiaro: era vedovo, aveva cinquantadue anni, desiderava una “sistemazione”. Ma prima di prendere una qualunque decisione, doveva liberarsi di un vecchio legame che ancora durava: una “cosa ordinaria”, aveva concluso. In quel mentre ( l’ingegnere diceva spesso:”in quel mentre”), avrebbero badato a conoscersi meglio. Con tutta quella sincerità, lei lo trovava simpatico- ma un pochino grossolano. D’altra parte, con Maldonado c’era la questione dell’imbarazzo. E mentre andava accettando i favori di Maldonado e le cene dell’ingegnere, improvvisamente ad una fermata d’autobus, le si era presentato Sartorio. In principio, aveva visto in lui soltanto un candidato in più….poi, una possibilità in più…. Ma tutto era precipitato dopo quella gita alla Costa di Caparica.
[…]
Dunque… Per cominciare, andiamo a pranzo! E se mangiassimo qui in zona? Che ne dici? Forse è più veloce. Dopo…Dopo, andiamo fino alla Baixa.Voglio passare dalla banca, fare una telefonatina al Ministero… E possiamo comprare alcune cose, le più necessarie…
Si accorge, improvvisamente, come è gradevole fare progetti così ad alta voce, avere la certezza di una presenza, di un fine. Anche senza volerlo, si entusiasma: - E se andassimo poi a trovare mia zia? - A trovare…? La zia Enrichetta.- Come vuoi, caro… Come vuoi tu! - Prima o poi, lei ti deve conoscere…..Può già essere oggi, senza problemi! Non credi? – Sta ora abbottonandosi i pantaloni; ma si ferma, nel gesto di infilarsi la cintura: - Ah! E’ vero… Davanti a mia zia, è meglio che non parli di Cesaltina.
Di chi? Di Cesaltina. Quella mia cugina…
-Ah! Stai tranquillo, caro! Perché dovrei parlare della ragazza? - Sai! A volte… Potrebbe succedere! Ma è meglio che non ne parli. Dopo ti spiego. –Hum, hum…Abbiamo allora un’altra storia, eh? – E gli si avvicina, fingendo di andare a tirargli un orecchio. - No mia cara! Non c’è stato niente con me. E’ che Cesaltina…Cesaltina, poi, fuggì con il marito di zia Enrichetta. – Ah! Sì? Hai detto niente! E’ come dicevo io… Era birichina! Era birichina, questa tua cuginetta.
E’ stata una storia infernale.
E le va raccontando alcuni particolari, mentre allo specchio si fa il nodo della cravatta. Altri particolari emergono poi, avulsi, che accompagnano i gesti di allacciarsi le scarpe, di aggiustarsi di nuovo il colletto. Assapora, infine, l’interesse che si è vivacizzato negli occhi di lei. Ma, allo stesso tempo, si accorge che gli occhi sono truccati in modo esagerato– Senti…Non ti dispiacerebbe…? Non ti dispiace di toglierti quella cosa? - Poi, per scusarsi: - E’ per la zia Enrichetta…La zia Enrichetta ha dei pregiudizi… 
Le pone la mano sulla spalla; lei abbassa la testa, annuisce- Va bene, caro…Capisco. -Si dirige, quindi, alla toletta. Lui, intanto, si mette la giacca. Ora le sta di spalle. -E non vale la pena dirle che sei divorziata…Capisci? E’ sufficiente che le parli del primo matrimonio. E che sei rimasta vedova da pochi anni…Il che non è nemmeno una bugia!
- Certo, sì, caro…Capisco. 
Già lui ha finito di mettersi la giacca, e già si trovano di nuovo faccia a faccia: - Sì, signora! – esclama, forzatamente gioviale, e come se pensasse che sarebbe stata molto più lenta l’operazione di togliere il rimmel. – Stai molto bene così! Ed è vero. Sta molto bene così: più semplice, quasi commovente, mentre si pulisce ancora con il fazzoletto gli angoli degli occhi, e tenta di sorridere, tutta presa da una bellezza distaccata di inizio d’autunno. Sta molto bene così. E, soltanto a vederla, forse la zia Enrichetta modificherà la pittoresca opinione – pittoresca ma grossolana - sulle preferenze che in genere gli uomini hanno. 


MARIA ANTONIA

[…]
E’ certo che era amore, amore, hai capito?, con tutto il suo ridicolo corteo di sussulti e di gelosie, quello che io sentivo per Maria Antonia. E Maria Antonia, che mi considerava soltanto un oggetto o uno strumento per sperimentare e per conoscere cose nuove, se ne approfittava e abusava di questa situazione. E “mi ingelosiva” di proposito soltanto per vendicarsi o per punzecchiarmi. 
Ti ricordi di Enrico? Un ragazzo che aveva due sorelle: Marianna e Rita?…Ci fu un momento che venivano molto spesso nelle nostre case; Enrico era un po’ più grande di me: era con lui che Maria Antonia amava “ingelosirmi”. Gli chiese “la corte”, lei a lui, una volta, in mia presenza; questo a otto o nove anni. Enrico, che era veramente un buon ragazzo e piuttosto esperto, rimase per un po’ imbarazzato. Imbarazzato, soprattutto a vedere la mia faccia. E mi chiamò da parte. Lui aveva capito chiaramente che mi piaceva Maria Antonia. Allora mi fece una proposta ridicola e generosa: perché non chiedevo io il “fidanzamento” ad una delle sue sorelle (a Rita, per esempio, che era la più giovane e anche più bella della stessa Maria Antonia)? Lui, come fratello, non poteva”farle la corte”; così si sarebbe tutto risolto. Cose di ragazzi! E che riflettevano sentimenti, difatti, infantili. Non mi ricordo più della risposta che gli diedi; ma sentii, in quel momento, come noi due, Maria Antonia ed io, ci eravamo allontanati, irrimediabilmente, dalla purezza; o, perlomeno, dall’infanzia. 
[…]
Facevamo, di mattina, lunghe passeggiate per la città. Maria Antonia aveva scoperto un grande divertimento: fingersi spagnola!, passare per spagnola agli occhi degli stessi spagnoli! Entrava nei negozi, s’inventava storie, usciva dai negozi, si fermava a parlare con tutti. Lo scherzo era rappresentato con tanta esuberanza, tanto salero che, anche quando non attaccava, le rendeva almeno i più calorosi omaggi e complimenti. Tu non hai idea di quello che Maria Atonia era in quella occasione, di quello che già era a tredici, quattordici anni! 
A me lo scherzo sembrava un po’ frivolo. Ma il successo che lei otteneva, d’altra parte, finiva per rendermi vanitoso. E per eccitarmi! Questa è la verità. Perciò l’accompagnavo docilmente: io sapevo bene che anche lei si eccitava e che dal fatto io stesso avrei tratto profitto. Così era. Finivamo, quasi sempre, per attraversare il ponte e per uscire dalla città. Poi ritornavamo, per il pranzo, all’hotel, con una fame da lupi.
Ma una volta, di ritorno, proprio a metà del ponte, tutto d’un tratto, Maria Antonia mi impose: “Ora ci separiamo. E non venirmi dietro, hai capito? Fra un’ora ci ritroviamo ai piedi della cattedrale”. Ma io non capisco; non capisco perché dobbiamo separarci. E provo a discutere. “Ti ho già detto quello che ti dovevo dire. Voglio andare sola”. Era un capriccio? Soltanto un capriccio? O desiderava assaporare, da sola, quelle galanterie che gli uomini le indirizzavano? Comunque fosse, mi lanciava uno sguardo ostinato che non annunciava niente di buono. “E non fare la stupidaggine di andare a dire che ci siamo separati! Fai conto che siamo andati sempre insieme. Hai capito? Se no…”-Se no…che? Era molto semplice: mi avrebbe denunciato. “Lo sai bene che soltanto che io voglia…Dico che mi hai spinta a forza fuori dalla città, e che dopo… Dopo volevi abusare di me, e farmi cose sconce!”. Rimasi atterrito. Non tanto per la minaccia in sé, che di fatto mi sembrava inconcepibile, ma per la fremente indignazione con la quale lei aveva pronunciato quelle parole sgradevoli. Erano sicuramente cose che aveva sentito dire dalle serve; ma che sporcavano, macchiavano improvvisamente tutto quello che c’era fra noi due. E per di più che indignazione! Chi avrebbe potuto dubitare? Ed ebbi paura; lasciai che se andasse. Restai lì, nemmeno so quanto tempo, stupidamente appoggiato al parapetto.
Ma tu che credi? Le mattine seguenti tornai ad accompagnarla, nella solita convulsione della farsa, ad entrare nei negozi, ad uscirne, ad attaccare discorso con tutti. E poi attraversavamo il ponte ed uscivamo dalla città come se non fosse successo nulla! Semplicemente, a volte, di ritorno, si separava da me, e mi diceva: “Fra un’ora”. Non era necessario neanche indicare il luogo dell’incontro; si sapeva già che era ai piedi della cattedrale.
No! Non sono mai arrivato a sapere come Maria Antonia “utilizzava” quel tempo. Non era questa proprio la cosa che mi interessava di più, capisci? Non appena lei mi diceva “Fra un’ora” mi sentivo tutto preso dal panico. E le restavo dietro, mi spegnevo, nel terrore che lei ripetesse la minaccia. 
[…]
Dobbiamo dimenticare tutto il male che lei ci ha fatto;e dobbiamo anche ricordarci che non è stato soltanto male quello che ci ha fatto. La vita di noi tutti sarebbe stata molto più povera e più noiosa, eh sì, molto di più! senza i continui turbamenti che Maria Antonia ci procurava. In fin dei conti, abbiamo sempre preteso che fosse un’altra persona – e lì stava il nostro errore. Ora, ecco! Possiamo rassicurarci. Ora è un’altra persona. Ma non era questo che noi volevamo, non è vero? 


****
David Mourão-Ferreira, Discorso diretto, inedito in Italia, traduzione di Franco Tortoreto per la Bottega dell’Elefante


da: Settembre in Italia

In poco più di tre anni questa è la quarta volta che vengo in Italia. E’ stata tardiva la scoperta, ma definitiva l’attrazione.
Nessun altro paese, al di fuori del mio, mi si è attaccato in questo modo alla pelle. E nessun altro mi appare con tanta frequenza all’orizzonte della memoria, dei miei progetti, dell’immaginazione.
[…]



Temporale a Ravenna, nebbia a Ferrara.


E’ stato Cesare Pavese, nel diario pubblicato postumo col titolo Il mestiere di vivere a scrivere queste parole: “segno certo d’amore è desiderare di conoscere, di rivivere l’infanzia dell’altro”. Mi accorgo di verificare ancora una volta che questo succede non solo per le persone: anche alcune città ci sollecitano un identico desiderio di conoscere, di rivivere la loro infanzia; e quando questo succede, non c’è dubbio, allo stesso modo siamo di fronte a un sicuro segno d’amore. Importa poco che un’esperienza così mi sia toccata in due giornate diverse per due diverse città; già da molto mi sono adattato alla parte volubile del mio carattere; a volte addirittura mi ripeto quanto l’Abate Galliani diceva a M.me D’Êpinay: “l’importante non è guarire, ma vivere bene con i propri mali”. E in qualche misura trasferire dalle persone alle città la propria incostanza si può già considerare una piccola prova di saggezza, o forse l’inizio della guarigione.... Senza giri di parole, la cruda verità è questa: mi sono innamorato l’altro ieri di Ravenna, e oggi lo sono di Ferrara; ed ho anche trovato il tempo, nell’intervallo, per un breve flirt con Bologna, ma l’amore – quello che si chiama amore – soltanto per le prime due. Solo loro, perlomeno, mi hanno acceso il desiderio di conoscerne l’infanzia; e soltanto loro, in momenti di magico privilegio mi hanno dato l’illusione di farmi rivivere quello che sono state.... La cosa più probabile in fin dei conti é che entrambe abbiano un’infanzia più visibile di quanto non sia per Bologna. E’ sicuro che Bologna oggi è nel pieno delle sue forze: ha l’aspetto prospero e indipendente di quelle donne a cui tutto va bene, felici per tutti gli affari che intraprendono, ma senza mai smettere di pensare a se stesse; anzi ricercatissime sia nelle cure del corpo e del viso, sia nell’eleganza dell’abbigliamento. Delle sue tante boutiques molte non temono il confronto con le migliori di Milano o di Monaco, di Parigi o di Roma, così come sarebbe degno di una qualsiasi grande capitale un ristorante come Al Pappagallo dove ieri abbiamo mangiato degli ottimi tortellini alla bolognese e un divino ossobuco, innaffiati da un lambrusco di eccellente vitigno... Tuttavia chi ci si presenta in questo modo e in questo modo ci riceve si condanna ad ispirarci, a prima vista, più ammirazione e desiderio che vero amore. E’ chiaro che l’amore potrà nascere più tardi, con la rivelazione di quanto c’è di fragile e di indifeso sotto l’armatura: negli altri amiamo solamente quello che hanno di vulnerabile e d’altra parte siamo amati solo per quello che abbiamo di vulnerabile. Ravenna e Ferrara, al contrario di Bologna, mostrano subito la loro estrema fragilità. Ma in maniera diversa: Ravenna come una grande attrice nella decadenza, ritiratasi non volontariamente dal teatro del mondo, che conserva comunque, con molto zelo, i ricordi più importanti dei suoi passati successi; Ferrara, invece, come una di quelle donne divorziate di cui ci parla Vinicius de Moares, nelle quali si rinnova misteriosamente la verginità. Così si trovano entrambe, ognuno a suo modo, molto vicino alla loro infanzia e alla loro adolescenza.


****



David Mourão-Ferreira Gioco di specchi, in ? que eu gosto de muita coisa, sabe?!, Comune di Civitanova Marche, 2003, trad. F. Tortoreto.



Nacque, sotto il segno dei pesci,
in una casa da dove si vedeva, 
fino alla bocca, tutto l’estuario del Tago.
Negli occhi gli è rimasto soprattutto
Lo spettacolo delle navi che partivano.


Le sue più remote immagini
di Lisbona: case rosa, accese dal Sole;
terrazze sparse; lucidi scalini;
fari di tram; al crepuscolo,
che facevano danzar la nebbia
sulle rotaie bagnate.


Una delle rare donne
Nelle cui braccia
Ancora accorre senza esitazione: l’Italia.



La certezza più grande che ha oggi: 
quella che stiamo al mondo
a prestito: 
Ma non per caso. 


****


David Mourão-Ferreira, Labirinto illuminato, Adriatica editrice, Bari, 1997, traduzione e cura di Fernanda Toriello


Sapere come è il tuo sesso

Sapere come è il tuo sesso
Al centro della tua anima

e come dentro al tuo sesso
continui ad essere anima.


Questa la sete del mio sesso
La fame della mia anima.


Su di me cavalchi

Su di me cavalchi
Cingendomi i fianchi
Al volo catturi
La luce dell’attimo

A denti serrati
Ondeggi avanzi
Distendi le braccia
Comprimi le anche

E poi in avanti
Ti chini a guardare
Quanto avviene frattanto
Tra i nostri due ventri

Ed anche il galoppo
In cui sei lanciata
Che luna ti avvince
Che sole ti inebria

Luna e sole tu sei
Nel mentre cavalchi
Cavalla e amazzone
Gli sproni piantati

Al centro del corpo.
Alata centaura
Dai seni discinti
Quasi fossero acqua

Che voglia di berli
Quando più ti chini
I capelli quelli
Succhiarmeli ora

Ma ogni qualvolta
Il viso avvicini
È altra la sete
Che m’arde la lingua

Poter nei tuoi occhi
Accanto ai miei
Scoprire il modo
Di bere il cielo.


Chi narrerà le leggende

Chi narrerà le leggende
Di questi caffè di Lisbona
Timidi sopravvissuti
Superstiti di tanti altri
Sui ripiani di quei tavoli
Quanti versi ammonticchiati
Di Cesário e di Nemésio
Di Bocage e di Pessoa
Che ricordano sconfitte
Ma sempre figli diletti
Di questi caffè di Lisbona
Dover versi versi versi
Nella notte volano ancora



Equinozio



S’arriva a questo punto che si resta in attesa
Che vorremmo una spalla la tela di un teatro
Un giretto la sera da soli in bicicletta
Il riso che nessuno ha colto in un ritratto

Si consulta in un bar l’orario della Morte
E si ordina un gin finchè lei non arriva
E’ stata solo una follia non dare fuoco al bosco
Non so più in che mese avvenne quella scena

S’arriva a questo punto Tornar sui propri passi
Sillabare al passato il volto del futuro
Aprire una finestra Accendere la pipa
Per consegnare al mondo un retaggio di fumo

Rimbomba un altro tuono. S’arriva a questo punto
Che vorremmo una spalla e ci chiedono un’arma
Che la rotta del Sole è la ruota del sonno
S’arriva a questo punto che non si sa più niente. 



Maria Lisbona


Vende pesce, usa pianelle,
ha movimenti da gatta.
Nel canestro, la caravella,
nel suo cuore, la fregata.

Non ha corvi sullo scialle:
vi i posano i gabbiani.
Se col vento va al ballo,
balla al ballo con il mare.

Di conchiglie è il suo vestito;
tra i capelli porta alghe;
nelle vene pulsa il battito
del motor di un peschereccio.

Vende sogni e odor di mare
Ed annuncia le tempeste.
Il suo nome è Maria.
Il cognome è Lisbona.


Maria Lisboa


E’ varina, usa chinela,
tem movimentos de gata.
Na canastra, a caravela;
no coração, a fregata.

Em vez de corvos, no xaile
Gaivotas vêm pousar.
Quando p vento a leva ao baile,
baila no baile co’o mar.

E’ de conchas o vestido;
tem algas na cabeleira;
e nas veias o latido
do motor de uma trineira.

Vende snoho e maresia, 
tempestades apregoa.
Seu nome próprio, Maria, 
Seu apelido, Lisboa.

1 Benard è una notissima pasticceria dello Chiado, zona centrale di Lisbona.