lunedì 22 ottobre 2007 legge Maria Luisa Vezzali | |
Mani presto straziate, mani in sangue. Mani che scostavano radici, scavavano la terra, si ristringevano alla roccia che resisteva alla loro presa. E il sangue imporporava anche i nostri volti, ma sempre i nostri occhi si levavano dal suolo devastato verso altri occhi, ed era ancora questo riso... Così canta uno degli ultimi testi di Le assi curve, libro uscito a Parigi nello stesso anno in cui il mondo veniva sconvolto dall’attentato alle Torri gemelle, straordinario capolavoro del più importante poeta francese, all’antitesi di qualsiasi definizione del politico, eppure con la politicissima aspirazione di dare un luogo alla speranza. Speranza che prende il volto dell’esperienza umana, nella sua preziosa “immanente trascendenza”, e del suo legame con il linguaggio, che è la poesia. Percorrere – anche solo a volo d’uccello – i cinquant’anni di poesia di Bonnefoy, traduttore di Shakespeare e di Keats, esperto di arte antica e contemporanea, pensatore debordante rispetto ai minimalismi del secolo, significa confrontarsi con un’opera che ha la potenza classica e la tensione esistenziale di Mario Luzi, suo amico e assiduo compagno di strada. Un’opera che con passione sognante ci insegna a vivere e a morire.
DA IERI DESERTO REGNANTE Il ponte di ferro Esiste forse ancora in fondo a una lunga strada che percorrevo bambino una gora oleosa rettangolo di greve morte a cielo nero. Poi la poesia separò le sue acque dalle altre, nessuna bellezza l’attrae, nessun colore, s’angoscia per il ferro e per la notte. Nutre una lenta ambascia di proda morta; un ponte di ferro, gettato sull’alta sponda ancora più notturna è sua sola memoria, solo suo vero amore La bellezza Tu che distruggi l’essere, bellezza, sarai suppliziata, messa alla ruota, disonorata, proclamata colpevole, ridotta a sangue e grido e notte, d’ogni gioia spodestata. – Oh, dilaniata su ogni ferro innanzi l’alba, oh calpestata e trafitta su ogni strada, nostra disperazione sarà che tu sia viva, nostro cuore che tu soffra, nostra voce umiliare le tue lacrime, chiamarti mentitrice, di cielo nero apportatrice, ma desiderio nostro essendo il tuo corpo infermo, nostra pietà il tuo cuore che a ogni fango ci guida. L’imperfezione è la cima E’ vero che occorreva distruggere e distruggere e distruggere, è vero che la salvezza era a quel prezzo. Devastare il volto nudo che affiora nel marmo, martellare ogni forma ogni bellezza. Amare la perfezione in quanto soglia, ma conosciuta negarla, dimenticarla morta, l’imperfezione è la cima. (1958, traduzione di Diana Grange Fiori) DA NELL’INSIDIA DELLA SOGLIA Nell’insidia della soglia Urta, urta per sempre. Nell’insidia della soglia. Contro la porta, sigillata, contro la frase, vuota. Nel ferro, ridestando solo queste parole, il ferro. Nel linguaggio, nero. In colui che è qui immobile, vegliando sul tavolo carico di bagliori, di segni. E che tre volte viene chiamato, ma non si alza. ……………………………….. Nell’adunarsi, cui è mancato il celebrabile. Nel grano deformato, nel vino prosciugato. Nella mano che trattiene una mano assente. Nella inutilità del rammemorare. Nello scrivere, frettolosamente messo al riparo, di notte e nelle parole spente ancor prima dell’alba. ……………………………… Nella bocca che vuole da un’altra bocca il miele che nessuna estate può maturare. Nella nota che, bruscamente, si fa intensa fino a essere, glaciale, quasi lo stretto poi l’insistenza della nota taciuta che disunisce l’onda nuda, sotto la stella. In un riflesso di stella su un po’ di ferro. Nell’angoscia dei corpi che non si trovano. Urta, tardi. Labbra desideranti anche se il sangue scorre, la mano alta in urto ancora quando il braccio è ormai cenere dissipata. ………………………………. ………………………………. Più in là del cane entro la terra negra urlando si avventa il passatore verso l’altra riva. Bocca riempita di fango, occhi divorati, sospingi per noi la tua barca nella materia. Qual fondo la pertica incontri, non sai, né qual deriva. Né ciò che schiariranno, rapprese nel nero, le parole del libro. Più in là del cane mal ricoperto ti avvolgono, passatore, nel manto dei segni. Ti parlano, ti danno una o due chiavi, la vana carta di un’altra terra. Tu ascolti, già volti gli occhi all’acqua oscura. Tu ascolti, e ricadono, le poche palate. Più in là del cane morto ieri vogliono piantare, o passatore, la tua fosforescenza, le mani delle giovanette hanno rimosso la terra sotto lo stelo che reca l’oro delle granigioni future. Potrai distinguerne ancora le braccia dalle ombre pesanti, il seno rigonfio sotto la tunica. Lassù s’infiamma il ridere, ma tu, ti allontani. Sanguinante ti gettarono dentro la luce. Hai aperto gli occhi gridando per nominare il giorno. Ma il giorno non è ancor detto e già ricade il panneggio del sangue con grave sordo rumore sulla luce. Lassù il rudere s’infiamma, rosseggia nello spessore che si va disgregando. Distogliti, tu, dai fuochi della nostra riva. Più in là del fuoco che non divampa è il testimonio del fuoco, l’indecifrato, sopra un letto di foglie. Visi a noi volti, lettori di segni, qual d’altro viso il vento non udito le farà stormire? Quali mani esitando E come scoprendo prenderanno, sfoglieranno l’ombra delle pagine? Quali mani, meditando, e quasi avendo trovato? ……………………………….. Oh chinati, rassicura, nube di sorriso movente in viso chiaro. Per chi contro la riva ebbe freddo sii la figlia del Faraone e le sue ancelle. Quelle la cui acqua, ancor prima dell’alba, riflette inversa la stoffa rossa. …………………………….. E come una mano spartisce, sul tavolo, il loglio oscuro dal grano che va germinando e sull’acqua del legno nero nell’attecchire si sdoppia di un riflesso, ove il senso d’un subito si forma, accogli, per il sonno nel tuo dire, le nostre parole che il vento crivella di raffiche. ……………………………… < Sei forse venuto per apprendere questo pane Oscuro, bruciato a un fuoco di promessa, io non ti concederò di dargli luce. Sei forse venuto soltanto affinché l’acqua ti plachi, un po’ d’acqua tiepida, bevuta dopo altre labbra nel cuor della notte, tra il letto sfatto e la terra semplice, io non ti concedo di toccare il bicchiere. Sei venuto affinché alto splende l’infante sulla fiamma che lo suggella nell’immortalità dell’ora di aprile in cui può ridere, e tu, dove si posa l’uccello nell’ora che lo accoglie e non ha nome, io non ti concedo di innalzare le mani sull’àrola dove regno io, chiaro. Sei venuto, io non ti concederò di farti avanti. Tu chiedi, forse, io non ti concedo di sapere il nome formulato dalle tue stesse labbra>>. ……………………………………………… Più in là delle pietre che l’operaio ritto sul muro svelle tardi, la notte. Più in là del fianco rugginoso del corvo che imprime la nebbia e passa nel sogno dando uno strido colmo di terra nera. Più in là dell’estate spaccata dalla vanga, più in là del grido in un altro sogno, gridando s’avventa colui che ci rappresenta, ombra della speranza sopra l’origine, e la sola unità, quel movimento del corpo all’improvviso, quando buttato con tutto il peso sulla pertica, di noi si smemora. ………………………………………… Noi, la voce che il vento di parole sbaraglia. Noi, opera lacerata dal loro mulinare. Poi che se muovo a te, che hai parlato, scrosci, macerie, echi, la sala è vuota. Un < che mi risponde, oppure io stesso, ancora? E sotto la volta dell’eco, molteplice sono io forse nient’altro che una delle sue frecce, scagliata contro le cose? Noi tra i rumori, uno di essi, noi. Mentre si stacca dalla parete che frana e s’incava e si svasa di sé svuotandosi, imporporandosi, enfiandosi d’una lontana plenitudine. ………………………………………… Guarda il torrente, gridando si getta nell’estate deserta eppure, immoto, è cavalli impennati, è cieco volto. Ascolta, l’eco non è intorno al rumore, è nel rumore come suo baratro. Le scogliere del rumore, i vortici in cui le acque s’infrangono, la sassífraga si strappano dai tuoi occhi con un grido finale, d’aquila. Dove s’urta di petto la voce dell’acqua, tu non puoi intenderlo, ma làsciati trasportare, occhio abbagliato, dall’ala roca. Noi alla sorgente del rumore, noi portàti. Noi, sì, quando il torrente con mani infrante butta, riprende, rotola l’assoluto delle pietre. All’apice del volo il predatore, stridendo, su di sé si ricurva, e si dilania. Dal seno che il becco oscuro separa schizza il vuoto. All’apice del dire è ancora il rumore, nell’opera l’ondata di fondo di un rumore secondo. Ma all’apice del rumore la luce è mutata. ………………………………………… Tutto il visibile, infermo, di sé si cancella, brace ove passa il richiamo di altre campagne. E in pace è la folgore al di sopra degli alberi, seno ove in sogno si muovono sonno e morte, e < la notte del mondo come si dispiega nell’acqua nera una stoffa dipinta quando a un tratto l’immagine divide il flusso, gridando il seme, il fuoco, contro una pertica. ……………………………………. Ora sottratta dalla somma, ormai. Presenza che morte più non inganna. Lampada che in silenzio si inginocchia e brucia malmenata, deviata dalla notte senza cima. Ti ascolto vibrare nel niente dell’opera che va faticosamente per il mondo. Sento lo scalpiccio dei richiami che a sola pastura hanno la lampada accesa. Afferro a manciate la terra in questo svasarsi tra pareti lisce dove fondo non è innanzi l’alba. Ti ascolto, prendo tutta la terra nel tuo paniere di corda. Fuori, è ancor tempo di dolore prima dell’immagine. Nella mano del fuori, chiusa, comincia a germinare il grano delle cose del mondo. …………………………………… …………………………………… Il passatore che con la pertica, meditante, tocca la tua spalla e tu, colui che ormai la notte copre quando la pertica cerca, ma invano, il fondo del fiume. Quale mai è. Qual mai si perderà, chi può sperare, chi promettere? Chino sull’acqua, guarda Come sta affiorando Tutto un viso, così Come attecchisce un fuoco, al riflesso della tua spalla. (1975, traduzione di Diana Grange Fiori) DA QUEL CHE FU SENZA LUCE Lo sparviero Tanti anni fa, a V., abbiamo visto il tempo giungere dinanzi a noi che guardavamo dalla finestra aperta della camera sopra la cappella. Era uno sparviero, raggiungeva il nido scavato nel muro. Stringeva nel becco un serpente morto. Appena ci vide gridò di collera e d’angoscia pura ma senza lasciare la preda e, immobile nella luce dell’alba, formò con essa l’emblema stesso del principio, del centro e della fine. Ed erano là nel paese d’estate, vicinissimo al cielo, numerosi vasi, accostati; e da ognuno si levava una fiamma; e di ogni fiamma diverso era il colore, che brusiva, vapore o sogno, o mondo, sotto la stella. Si sarebbe detto un affaccendarsi d’anime, attese A un pontile in capo a un’isola. Mi sembrava anche di udire parole, o quasi (quasi, o per difetto, o per eccesso dell’inferma potenza del linguaggio), passare, come un fremito del calore nell’aria fosforescente che fondeva in uno tutti quei colori: alcuni mi sembravano, di lontano, sconosciuti. Li toccavo, non bruciavano. Vi affondavo la mano, no, non afferravo nulla Di quei grappoli di un altro frutto, nulla se non la luce. (1987, traduzione di Davide Bracaglia) DA INIZIO E FINE DELLA NEVE Fiocchi Fiocchi, abbagli senza conseguenze della luce. Uno dietro l’altro e altri ancora, come se il senso non contasse, ma più il riso. E Aristotele lo diceva bene, da qualche parte nella Poetica, letta così male, è la trasparenza che conta, in frasi che siano come un brusio d’api, come un’acqua chiara. De natura rerum Lucrezio lo sapeva: apri il baule, vedrai, è colmo di neve che turbina. E a volte due fiocchi s’incontrano, unendosi, oppure uno si volta, graziosamente nella sua poca morte. Di dove quel chiarore in alcune parole quando l’una non è che notte, l’altra, solo sogno? Di dove queste due ombre che, ridendo, vanno e l’una raggomitolata in una lana rossa? Il tutto, il nulla 2. Sì, a capire, sì, a fare mia questa fonte, il grido della gioia, che ribollendo sgorga tra le pietre della vita presto, e così forte, poi s’indebolisce e si spegne. Ma scrivere non è avere, non è essere. Perché qui il trasalire della gioia non è che un’ombra, fosse pure la più chiara, in parole che ancora si ricordano di tante e tante cose che il tempo ha duramente lavorato con le grinfie, – E non posso fare altro che dirti quel che non sono, salvo in desiderio. Un modo di prendere, che sarebbe cessare di essere sé nell’atto di prendere, un modo di dire, a far sì di non essere più soli nel linguaggio. 3. Sia per te la grande neve il tutto, il nulla, bambino dai primi passi incerti nell’erba, gli occhi ancora pieni dell’origine, le mani aggrappate solo alla luce. Siano per te quei rami che scintillano la parola che devi ascoltare ma senza capire il senso del loro stagliarsi contro il cielo, o non nominerai che a prezzo di perdere. Ti bastino i due valori, l’uno brillante, della collina nell’incavo degli alberi, ape della vita, quando giungerà a inaridirsi nel tuo sogno di mondo questo stesso mondo. E che l’acqua che scorre nel prato ti mostri che la gioia può sopravvivere al sogno quando la brezza venuta non si sa da dove già sperde i fiori del mandorlo, tuttavia l’altra neve. (1991, traduzione di Davide Bracaglia) DA LE ASSI CURVE Una pietra Non più sentieri per noi, soltanto l’erba alta, non più passaggio a guado, soltanto il fango, non più letto preparato, soltanto l’abbraccio attraverso noi delle ombre e delle pietre. Ma chiara è questa notte come desideravamo che fosse la nostra morte. Essa sbianca gli alberi, si allargano. Il loro fogliame: sabbia, poi schiuma. Anche oltre il tempo spunta il giorno. Che questo mondo rimanga! 1. Rialzo un ramo che si è spezzato. Le foglie grevi d’acqua e d’ombra come questo cielo, di ancor prima del giorno. O terra, segni disarmonici, sentieri sparsi, ma bellezza, assoluta bellezza, bellezza di fiume, che questo mondo rimanga, malgrado la morte! Stretta contro il ramo l’oliva grigia. 2. Che questo mondo rimanga, che perfetta la foglia orli per sempre nell’albero l’imminenza del frutto! Che le upupe, il cielo aprendosi, all’alba, volino via per sempre, da sotto il tetto del fienile vuoto, poi si posino, laggiù nella leggenda, e tutto è immobile ancora per un’ora. 3. Che questo mondo rimanga! Che l’assenza, la parola restino unite, per sempre, nella cosa semplice. L’una per l’altra quel che è il colore per l’ombra, l’oro del frutto maturo per l’oro della foglia secca. Per separarsi solo con la morte come lucentezza e acqua lasciano la mano su cui fonde la neve. Nell’inganno delle parole 2. E potrei fra poco, al sussulto del brusco risveglio dire o tentare di dire il tumulto degli artigli e delle risa che si scontrano con l’avidità senza gioia delle vite primarie al bordo sconnesso della parola. Potrei gridare che ovunque sulla terra ingiustizia e sciagura devastano il senso che lo spirito ha sognato di dare al mondo, insomma, ricordarmi di ciò che è, non essere che la lucidità che dispera e, benché sia ritorta, ai rami del giardino di Armida la chimera che inganna la ragione quanto il sogno, abbandonare le parole a chi cancella, prosa, per evidenza della materia, l’offerta della bellezza nella verità. Ma mi sembra anche che non sia reale che la voce che spera, fosse essa inconsapevole delle leggi che la negano. Reale, solo, il fremito della mano che tocca La promessa di un’altra, reali, sole, queste sbarre che spingiamo nella penombra, quando si fa sera, di un sentiero di ritorno. So tutto quello che occorre cancellare dal libro, una parola comunque resta a bruciarmi le labbra. O poesia, non posso impedirmi di chiamarti col tuo nome che non si ama più tra quelli che errano oggi tra le rovine della parola, oso rivolgermi a te, direttamente, come nell’eloquenza delle epoche in cui si ponevano, alla vigilia dei giorni di festa, in cima alle colonne dei saloni, ghirlande di foglie e di frutti. Lo faccio, confidando che la memoria Insegnando le sue parole semplici a quelli che cercano di far essere il senso malgrado l’enigma farà decifrare loro, nelle sue grandi pagine, il tuo nome uno e molteplice, in cui arderanno in silenzio, fuoco chiaro, i rami dei loro dubbi e delle loro paure. < che si scriva attraverso i secoli, < inazzurrarsi in lontananza, per esservi una terra. Ascoltate la musica che delucida con il flauto sapiente alla vetta delle cose il suono del colore in ciò che è.>> O poesia, io so che ti disprezzano e ti negano, che ti considerano un teatro, perfino una menzogna, che ti gravano degli errori del linguaggio, che dicono infetta l’acqua che tu porti a quelli che tuttavia desiderano bere e delusi si allontanano, verso la morte. Ed è vero che la notte gonfia le parole, venti girano le loro pagine, fuochi sfiancano le loro bestie atterrite fin sotto ai nostri passi. Abbiamo creduto che ci avrebbe condotto lontano il sentiero che si perde nell’evidenza. no, le immagini cozzano contro l’acqua che sale, la loro sintassi è incoerenza, cenere, e presto nemmeno vi è più immagine, più libro, più grande corpo caloroso del mondo Ma so comunque che non esiste altra stella che si muova, misteriosamente, auguralmente nel cielo illusorio degli astri fissi, se non la tua barca sempre oscura, ma dove ombre si raggruppano a prua e perfino cantano, come un tempo quelli che arrivavano, quando s’ingrandiva davanti a loro, alla fine del lungo viaggio, la terra nella schiuma e brillava il faro. E se rimane altro che un vento, uno scoglio, un mare, io so che tu sarai, anche di notte, l’àncora gettata, i passi barcollanti sulla sabbia, e la legna raccolta, e la scintilla sotto i rami umidi, e, nell’inquieta attesa della fiamma che esita, la prima parola dopo il lungo silenzio, il primo fuoco in fondo al mondo morto. La casa natale 5. Ora, nello stesso sogno sono disteso sul fondo di una barca, la fronte, gli occhi poggiati contro le sue assi curve su cui ascolto frangersi l’acqua bassa del fiume. E bruscamente questa prua di solleva, immagino che già qui sia l’estuario, ma mantengo gli occhi rivolti contro il legno che ha odore di catrame e di colla. Troppo vaste le immagini, troppo luminose che ho accumulate nel mio sonno. Perché rivedere, fuori, le cose delle quali le parole mi parlano, ma senza convincere, desidero una riva più alta o meno oscura. Eppure rinuncio a questo suolo che si muove sotto il corpo che si cerca, mi alzo, percorro la casa da una stanza all’altra, ve ne sono adesso innumerevoli, sento gridare voci dietro porte, sono colto da quei dolori che battono alle cornici che si sgretolano, mi affretto, troppo greve è per me la notte che dura, entro spaventato in una sala piena di banchi, vedi, mi dicono, fu la tua classe, vedi sui muri le tue prime immagini, vedi, è l’albero, vedi, qui è il cane che guaisce, e quella carta geografica, alla parete gialla, quello scolorirsi dei nomi e delle forme, quel disfarsi delle montagne, dei fiumi, attraverso il biancore che raggela il linguaggio, vedi, fu il tuo solo libro. L’Iside del gesso del muro di quella sala, che si scrosta, non ha mai avuto, non avrà mai nient’altro da socchiudere per te, richiudere su di te. (2001, traduzione di Fabio Scotto) DA IL DISORDINE Ma se muoio egli morrà, lui l’eterno, bisogna che io non muoia, se mi decompongo nella luce lui si decomporrà. Le nostre nubi, i nostri colori andranno alla deriva, irresistibilmente i venti dell’alto del cielo li sposteranno, bisogna che io non muoia. Oh, ho tanto dispiacere da essere pura e non ho più nome e quasi canto. Io non sono più, io cado, la mia testa si disfa da un estremo all’alto del cielo. Come sono sola! Si bruceranno per me rami umidi, si avvolgerà la mia vita in un lenzuolo. Si parla distrattamente di me in questo giorno grigio il cui vento talvolta s’infuria, e turbina. Sono io che ho presa, intatta come il cielo che passa in fretta, questa cosa incomprensibile, la rivoltella? Come pesa il ferro quando gli occhi si chiudono, che dio ha sorretto le mie povere dita? Ma ora ho di nuovo le mie mani di ragazzina. Dio, dio degli altri, guarda nella mia lunga giornata, guarda nella mia fatica cui nessuno viene a sottrarmi, guarda in questo sangue del quale mi sono macchiata fino a morirne. Guarda nel palmo della mia mano sinistra, guarda nella mia mano destra, guarda nelle mie dita che per te gioco ad allargare e poi a richiudere. (2004, traduzione di Fabio Scotto) DA UR-ANTI-PLATONE Siamo di uno stesso paese sulla bocca della terra Tu di un’unica gettata di ghisa con la complicità del fogliame E quello che si chiama io quando il giorno declina E le porte si aprono e si parla di morte. (1947, traduzione di Feliciano Paoli)
Yves Bonnefoy nasce il 24 giugno 1923 a Tours da padre meccanico in ferrovia e madre insegnante elementare, entrambi d’origini contadina. Dopo aver conseguito la laurea in Matematica alla Sorbona, inizia a frequentare esponenti del gruppo surrealista, fonda la rivista “La Révolution la nuit” e pubblica il Traité du Pianiste. Nel 1947 rompe con Breton e nel 1948 si laurea in Filosofia su Baudelaire e Kierkegaard. Tra il 1949 e il 1953 compie viaggi in Europa, in particolare in Italia, la cui produzione artistica, dall’arte romana a Piero della Francesca, dal Palladio a Michelangelo, dal Barocco a Caravaggio, sarà – insieme con Poussin e Giacometti – al centro dei suoi studi di storia dell’arte. Nel 1953 esce, con straordinario successo di pubblico, la sua prima raccolta Du mouvement e de l’immobilité de Douve. Si lega d’amicizia con Starobinsky, Celan, Jaccottet, Dupin e Leiris, con i quali fonda negli anni Sessanta la rivista “L’Éphémere”. Riceve incarichi d’insegnamento in varie università, tra le quali quelle di Ginevra, Vincennes e Nizza, per poi diventare dal 1981 al 1993 professore di Studi comparati della funzione poetica al Collège de France. Di Yves Bonnefoy sono disponibili in italiano: Goya, le pitture nere, Donzelli 2007, Le assi curve, Mondadori 2007, Poesia e università, Manni 2006, Terre intraviste, Edizioni del Leone 2006, La civiltà delle immagini. Pittori e poeti d'Italia, Donzelli 2005, La comunità dei traduttori, Sellerio di Giorgianni 2005, Ieri deserto regnante-Pietra scritta, Guanda 2005, Alberto Giacometti, Abscondita 2004, Il disordine. Frammenti, San Marco dei Giustiniani 2004, L'entroterra, Donzelli 2004, Osservazioni sullo sguardo. Picasso, Giacometti, Morandi, Donzelli 2003, Seguendo un fuoco. Poesie scelte 1953-2001, Crocetti 2003, Quel che fu senza luce. Inizio e fine della neve, Einaudi, Trattato sul pianista, Archinto 2000, Nell'insidia della soglia, Einaudi 1990, Dizionario delle mitologie e delle religioni, BUR 1989.
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I testi di tutte le letture fatte dall'associazione ogni lunedì sera dal 2001 al 2013, prima presso l'Arci Villone di via Bastia, poi al Circolo Pavese di via del Pratello. A Bologna. Su ideazione di Paolo Bollini e Isa Speroni.