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Le assi curve e altre poesie - Yves Bonnefoy



lunedì 22 ottobre 2007 legge Maria Luisa Vezzali 
Mani presto straziate, mani in sangue. Mani che scostavano radici, scavavano la terra, si ristringevano alla roccia che resisteva alla loro presa. E il sangue imporporava anche i nostri volti, ma sempre i nostri occhi si levavano dal suolo devastato verso altri occhi, ed era ancora questo riso... Così canta uno degli ultimi testi di Le assi curve, libro uscito a Parigi nello stesso anno in cui il mondo veniva sconvolto dall’attentato alle Torri gemelle, straordinario capolavoro del più importante poeta francese, all’antitesi di qualsiasi definizione del politico, eppure con la politicissima aspirazione di dare un luogo alla speranza. Speranza che prende il volto dell’esperienza umana, nella sua preziosa “immanente trascendenza”, e del suo legame con il linguaggio, che è la poesia. Percorrere – anche solo a volo d’uccello – i cinquant’anni di poesia di Bonnefoy, traduttore di Shakespeare e di Keats, esperto di arte antica e contemporanea, pensatore debordante rispetto ai minimalismi del secolo, significa confrontarsi con un’opera che ha la potenza classica e la tensione esistenziale di Mario Luzi, suo amico e assiduo compagno di strada. Un’opera che con passione sognante ci insegna a vivere e a morire.

DA IERI DESERTO REGNANTE 

Il ponte di ferro

Esiste forse ancora in fondo a una lunga strada
che percorrevo bambino una gora oleosa
rettangolo di greve morte a cielo nero.

Poi la poesia
separò le sue acque dalle altre,
nessuna bellezza l’attrae, nessun colore,
s’angoscia per il ferro e per la notte.

Nutre una lenta
ambascia di proda morta; un ponte
di ferro, gettato sull’alta sponda ancora più notturna
è sua sola memoria, solo suo vero amore


La bellezza

Tu che distruggi l’essere, bellezza,
sarai suppliziata, messa alla ruota,
disonorata, proclamata colpevole, ridotta
a sangue e grido e notte, d’ogni gioia spodestata.
– Oh, dilaniata su ogni ferro innanzi l’alba,
oh calpestata e trafitta su ogni strada,
nostra disperazione sarà che tu sia viva,
nostro cuore che tu soffra, nostra voce
umiliare le tue lacrime, chiamarti
mentitrice, di cielo nero apportatrice,
ma desiderio nostro essendo il tuo corpo infermo,
nostra pietà il tuo cuore che a ogni fango ci guida.


L’imperfezione è la cima

E’ vero che occorreva distruggere e distruggere e distruggere,
è vero che la salvezza era a quel prezzo.

Devastare il volto nudo che affiora nel marmo,
martellare ogni forma ogni bellezza.

Amare la perfezione in quanto soglia,
ma conosciuta negarla, dimenticarla morta,

l’imperfezione è la cima.
(1958, traduzione di Diana Grange Fiori)



DA NELL’INSIDIA DELLA SOGLIA

Nell’insidia della soglia

Urta,
urta per sempre.

Nell’insidia della soglia.

Contro la porta, sigillata,
contro la frase, vuota.
Nel ferro, ridestando
solo queste parole, il ferro.

Nel linguaggio, nero.

In colui che è qui
immobile, vegliando
sul tavolo carico
di bagliori, di segni. E che tre volte

viene chiamato, ma non si alza.

………………………………..
Nell’adunarsi, cui è mancato
il celebrabile.

Nel grano deformato,
nel vino prosciugato.

Nella mano che trattiene
una mano assente.

Nella inutilità
del rammemorare.

Nello scrivere, frettolosamente
messo al riparo, di notte

e nelle parole spente
ancor prima dell’alba.

………………………………
Nella bocca che vuole
da un’altra bocca
il miele che nessuna estate
può maturare.

Nella nota che, bruscamente,
si fa intensa
fino a essere, glaciale,
quasi lo stretto

poi l’insistenza della
nota taciuta
che disunisce l’onda
nuda, sotto la stella.

In un riflesso di stella
su un po’ di ferro.
Nell’angoscia dei corpi
che non si trovano.

Urta, tardi.

Labbra desideranti
anche se il sangue scorre,

la mano alta in urto
ancora quando
il braccio è ormai
cenere dissipata.

……………………………….
……………………………….
Più in là del cane
entro la terra negra
urlando si avventa il passatore
verso l’altra riva.
Bocca riempita di fango,
occhi divorati,
sospingi per noi la tua barca
nella materia.
Qual fondo la pertica incontri, non sai,
né qual deriva.
Né ciò che schiariranno, rapprese nel nero,
le parole del libro.

Più in là del cane
mal ricoperto
ti avvolgono, passatore,
nel manto dei segni.
Ti parlano, ti danno
una o due chiavi, la vana
carta di un’altra terra.
Tu ascolti, già volti gli occhi
all’acqua oscura.
Tu ascolti, e ricadono,
le poche palate.

Più in là del cane
morto ieri
vogliono piantare, o passatore,
la tua fosforescenza,
le mani delle giovanette
hanno rimosso la terra
sotto lo stelo che reca
l’oro delle granigioni future.
Potrai distinguerne ancora le braccia
dalle ombre pesanti,
il seno rigonfio
sotto la tunica.
Lassù s’infiamma il ridere,
ma tu, ti allontani.
Sanguinante ti gettarono
dentro la luce.
Hai aperto gli occhi gridando
per nominare il giorno.
Ma il giorno
non è ancor detto
e già ricade
il panneggio del sangue
con grave sordo rumore
sulla luce.
Lassù il rudere s’infiamma,
rosseggia nello spessore
che si va disgregando.
Distogliti, tu,
dai fuochi della nostra riva.

Più in là del fuoco
che non divampa
è il testimonio del fuoco, l’indecifrato,
sopra un letto di foglie.
Visi a noi volti,
lettori di segni,
qual d’altro viso il vento
non udito
le farà stormire?
Quali mani esitando
E come scoprendo
prenderanno, sfoglieranno
l’ombra delle pagine?
Quali mani, meditando,
e quasi
avendo trovato?

………………………………..
Oh chinati, rassicura,
nube
di sorriso movente
in viso chiaro.
Per chi contro la riva
ebbe freddo
sii la figlia del Faraone
e le sue ancelle.

Quelle la cui acqua, ancor
prima dell’alba,
riflette inversa
la stoffa rossa.

……………………………..
E come una mano spartisce,
sul tavolo, il loglio oscuro
dal grano che va germinando

e sull’acqua del legno nero
nell’attecchire si sdoppia
di un riflesso, ove il senso
d’un subito si forma,

accogli, per il sonno
nel tuo dire,
le nostre parole che il vento crivella
di raffiche.

………………………………
< io non ti permetto di berlo.
Sei forse venuto per apprendere questo pane
Oscuro, bruciato a un fuoco di promessa,
io non ti concederò di dargli luce.
Sei forse venuto soltanto
affinché l’acqua ti plachi, un po’ d’acqua tiepida, bevuta
dopo altre labbra nel cuor della notte,
tra il letto sfatto e la terra semplice,
io non ti concedo di toccare il bicchiere.
Sei venuto affinché alto splende l’infante
sulla fiamma che lo suggella
nell’immortalità dell’ora di aprile
in cui può ridere, e tu, dove si posa l’uccello
nell’ora che lo accoglie e non ha nome,
io non ti concedo di innalzare le mani sull’àrola dove regno io, chiaro.

Sei venuto,
io non ti concederò di farti avanti.
Tu chiedi, forse,
io non ti concedo di sapere il nome formulato dalle tue stesse labbra>>.

………………………………………………
Più in là delle pietre
che l’operaio ritto sul muro svelle
tardi, la notte.

Più in là del fianco rugginoso del corvo
che imprime la nebbia
e passa nel sogno dando uno strido
colmo di terra nera.

Più in là dell’estate
spaccata dalla vanga,
più in là del grido
in un altro sogno,

gridando s’avventa colui
che ci rappresenta,
ombra della speranza
sopra l’origine,

e la sola unità, quel movimento
del corpo all’improvviso, quando
buttato con tutto il peso sulla pertica,
di noi si smemora.

…………………………………………
Noi, la voce che il vento di parole
sbaraglia.
Noi, opera lacerata
dal loro mulinare.
Poi che se muovo a te, che hai parlato,
scrosci, macerie,
echi, la sala è vuota.
Un <> dunque è il richiamo
che mi risponde, oppure
io stesso, ancora?
E sotto la volta dell’eco, molteplice
sono io forse nient’altro
che una delle sue frecce, scagliata
contro le cose?

Noi
tra i rumori,
uno di essi,
noi.

Mentre si stacca dalla parete che frana
e s’incava e si svasa
di sé svuotandosi,
imporporandosi,
enfiandosi
d’una lontana plenitudine.

…………………………………………
Guarda il torrente,
gridando si getta nell’estate deserta
eppure, immoto,
è cavalli impennati,
è cieco volto.
Ascolta,
l’eco non è intorno al rumore,
è nel rumore
come suo baratro.
Le scogliere del rumore,
i vortici in cui le acque s’infrangono,
la sassífraga
si strappano dai tuoi occhi
con un grido
finale, d’aquila.
Dove s’urta di petto la voce dell’acqua,
tu non puoi intenderlo,
ma làsciati trasportare, occhio abbagliato,
dall’ala roca.

Noi
alla sorgente del rumore,
noi
portàti.

Noi, sì, quando il torrente
con mani infrante
butta, riprende, rotola
l’assoluto
delle pietre.

All’apice del volo
il predatore, stridendo,
su di sé si ricurva, e si dilania.
Dal seno che il becco oscuro separa
schizza il vuoto.
All’apice del dire è ancora il rumore,
nell’opera
l’ondata di fondo di un rumore secondo.
Ma all’apice del rumore
la luce è mutata.

…………………………………………
Tutto il visibile, infermo,
di sé si cancella,
brace ove passa il richiamo
di altre campagne.

E in pace è la folgore
al di sopra degli alberi,
seno ove in sogno si muovono
sonno e morte,

e <> brucia
la notte del mondo
come si dispiega nell’acqua nera
una stoffa dipinta

quando a un tratto l’immagine
divide il flusso, gridando
il seme, il fuoco,
contro una pertica.

…………………………………….
Ora
sottratta dalla somma, ormai.
Presenza che morte
più non inganna. Lampada
che in silenzio si inginocchia
e brucia
malmenata, deviata
dalla notte senza cima.

Ti ascolto vibrare
nel niente dell’opera
che va faticosamente per il mondo.
Sento lo scalpiccio
dei richiami
che a sola pastura
hanno la lampada accesa.
Afferro a manciate la terra
in questo svasarsi tra pareti lisce
dove fondo non è
innanzi l’alba.
Ti ascolto, prendo tutta la terra
nel tuo paniere di corda. Fuori,
è ancor tempo di dolore
prima dell’immagine.
Nella mano del fuori, chiusa,
comincia a germinare il grano
delle cose del mondo.

……………………………………
……………………………………
Il passatore
che con la pertica, meditante,
tocca la tua spalla
e tu, colui che ormai la notte copre
quando la pertica cerca, ma invano,
il fondo del fiume.

Quale mai è. Qual mai si perderà,
chi può sperare, chi promettere?
Chino sull’acqua, guarda
Come sta affiorando
Tutto un viso, così

Come attecchisce un fuoco, al riflesso
della tua spalla.
(1975, traduzione di Diana Grange Fiori)



DA QUEL CHE FU SENZA LUCE

Lo sparviero

Tanti anni fa,
a V.,
abbiamo visto il tempo giungere dinanzi a noi
che guardavamo dalla finestra aperta
della camera sopra la cappella.
Era uno sparviero,
raggiungeva il nido scavato nel muro.
Stringeva nel becco un serpente morto.
Appena ci vide
gridò di collera e d’angoscia pura
ma senza lasciare la preda e, immobile
nella luce dell’alba,
formò con essa l’emblema stesso
del principio, del centro e della fine.

Ed erano là
nel paese d’estate, vicinissimo al cielo,
numerosi vasi, accostati; e da ognuno
si levava una fiamma; e di ogni fiamma
diverso era il colore, che brusiva,
vapore o sogno, o mondo, sotto la stella.
Si sarebbe detto un affaccendarsi d’anime, attese
A un pontile in capo a un’isola.
Mi sembrava anche di udire parole, o quasi
(quasi, o per difetto, o per eccesso
dell’inferma potenza del linguaggio),
passare, come un fremito del calore
nell’aria fosforescente che fondeva
in uno tutti quei colori: alcuni mi sembravano,
di lontano, sconosciuti.
Li toccavo, non bruciavano.
Vi affondavo la mano, no, non afferravo nulla
Di quei grappoli di un altro frutto, nulla se non la luce.
(1987, traduzione di Davide Bracaglia)



DA INIZIO E FINE DELLA NEVE

Fiocchi

Fiocchi,
abbagli senza conseguenze della luce.
Uno dietro l’altro e altri ancora, come se
il senso non contasse, ma più il riso.

E Aristotele lo diceva bene,
da qualche parte nella Poetica, letta così male,
è la trasparenza che conta,
in frasi che siano come un brusio d’api, come un’acqua chiara.


De natura rerum

Lucrezio lo sapeva:
apri il baule,
vedrai, è colmo di neve
che turbina.

E a volte due fiocchi
s’incontrano, unendosi,
oppure uno si volta, graziosamente
nella sua poca morte.

Di dove quel chiarore
in alcune parole
quando l’una non è che notte,
l’altra, solo sogno?

Di dove queste due ombre
che, ridendo, vanno
e l’una raggomitolata
in una lana rossa?



Il tutto, il nulla

2. Sì, a capire, sì, a fare mia
questa fonte, il grido della gioia, che ribollendo
sgorga tra le pietre della vita
presto, e così forte, poi s’indebolisce e si spegne.

Ma scrivere non è avere, non è essere.
Perché qui il trasalire della gioia non è
che un’ombra, fosse pure la più chiara,
in parole che ancora si ricordano

di tante e tante cose che il tempo
ha duramente lavorato con le grinfie,
– E non posso fare altro che dirti
quel che non sono, salvo in desiderio.

Un modo di prendere, che sarebbe
cessare di essere sé nell’atto di prendere,
un modo di dire, a far sì
di non essere più soli nel linguaggio.


3. Sia per te la grande neve il tutto, il nulla,
bambino dai primi passi incerti nell’erba,
gli occhi ancora pieni dell’origine,
le mani aggrappate solo alla luce.

Siano per te quei rami che scintillano la parola
che devi ascoltare ma senza capire
il senso del loro stagliarsi contro il cielo,
o non nominerai che a prezzo di perdere.

Ti bastino i due valori, l’uno brillante,
della collina nell’incavo degli alberi,
ape della vita, quando giungerà a inaridirsi
nel tuo sogno di mondo questo stesso mondo.

E che l’acqua che scorre nel prato
ti mostri che la gioia può sopravvivere al sogno
quando la brezza venuta non si sa da dove già sperde
i fiori del mandorlo, tuttavia l’altra neve.
(1991, traduzione di Davide Bracaglia)



DA LE ASSI CURVE

Una pietra

Non più sentieri per noi, soltanto l’erba alta,
non più passaggio a guado, soltanto il fango,
non più letto preparato, soltanto l’abbraccio
attraverso noi delle ombre e delle pietre.

Ma chiara è questa notte
come desideravamo che fosse la nostra morte.
Essa sbianca gli alberi, si allargano.
Il loro fogliame: sabbia, poi schiuma.
Anche oltre il tempo spunta il giorno.


Che questo mondo rimanga!

1. Rialzo un ramo
che si è spezzato. Le foglie
grevi d’acqua e d’ombra
come questo cielo, di ancor

prima del giorno. O terra,
segni disarmonici, sentieri sparsi,
ma bellezza, assoluta bellezza,
bellezza di fiume,

che questo mondo rimanga,
malgrado la morte!
Stretta contro il ramo
l’oliva grigia.

2. Che questo mondo rimanga,
che perfetta la foglia
orli per sempre nell’albero
l’imminenza del frutto!

Che le upupe, il cielo
aprendosi, all’alba,
volino via per sempre, da sotto il tetto
del fienile vuoto,

poi si posino, laggiù
nella leggenda,
e tutto è immobile
ancora per un’ora.

3. Che questo mondo rimanga!
Che l’assenza, la parola
restino unite, per sempre,
nella cosa semplice.

L’una per l’altra quel che è
il colore per l’ombra,
l’oro del frutto maturo per l’oro
della foglia secca.

Per separarsi solo
con la morte
come lucentezza e acqua lasciano la mano
su cui fonde la neve.




Nell’inganno delle parole

2. E potrei
fra poco, al sussulto del brusco risveglio
dire o tentare di dire il tumulto
degli artigli e delle risa che si scontrano
con l’avidità senza gioia delle vite primarie
al bordo sconnesso della parola.
Potrei gridare che ovunque sulla terra
ingiustizia e sciagura devastano il senso
che lo spirito ha sognato di dare al mondo,
insomma, ricordarmi di ciò che è,
non essere che la lucidità che dispera
e, benché sia ritorta,
ai rami del giardino di Armida la chimera
che inganna la ragione quanto il sogno,
abbandonare le parole a chi cancella,
prosa, per evidenza della materia,
l’offerta della bellezza nella verità.

Ma mi sembra anche che non sia reale
che la voce che spera, fosse essa
inconsapevole delle leggi che la negano.
Reale, solo, il fremito della mano che tocca
La promessa di un’altra, reali, sole,
queste sbarre che spingiamo nella penombra,
quando si fa sera, di un sentiero di ritorno.
So tutto quello che occorre cancellare dal libro,
una parola comunque resta a bruciarmi le labbra.

O poesia,
non posso impedirmi di chiamarti
col tuo nome che non si ama più tra quelli che errano
oggi tra le rovine della parola,
oso rivolgermi a te, direttamente,
come nell’eloquenza delle epoche
in cui si ponevano, alla vigilia dei giorni di festa,
in cima alle colonne dei saloni,
ghirlande di foglie e di frutti.

Lo faccio, confidando che la memoria
Insegnando le sue parole semplici a quelli che cercano
di far essere il senso malgrado l’enigma
farà decifrare loro, nelle sue grandi pagine,
il tuo nome uno e molteplice, in cui arderanno
in silenzio, fuoco chiaro,
i rami dei loro dubbi e delle loro paure.
<> lei dirà, nel solo libro
che si scriva attraverso i secoli, < i segni nelle immagini. E le montagne
inazzurrarsi in lontananza, per esservi una terra.
Ascoltate la musica che delucida
con il flauto sapiente alla vetta delle cose
il suono del colore in ciò che è.>>

O poesia,
io so che ti disprezzano e ti negano,
che ti considerano un teatro, perfino una menzogna,
che ti gravano degli errori del linguaggio,
che dicono infetta l’acqua che tu porti
a quelli che tuttavia desiderano bere
e delusi si allontanano, verso la morte.

Ed è vero che la notte gonfia le parole,
venti girano le loro pagine, fuochi sfiancano
le loro bestie atterrite fin sotto ai nostri passi.
Abbiamo creduto che ci avrebbe condotto lontano
il sentiero che si perde nell’evidenza.
no, le immagini cozzano contro l’acqua che sale,
la loro sintassi è incoerenza, cenere,
e presto nemmeno vi è più immagine,
più libro, più grande corpo caloroso del mondo
con le braccia del desiderio.

Ma so comunque che non esiste altra stella
che si muova, misteriosamente, auguralmente
nel cielo illusorio degli astri fissi,
se non la tua barca sempre oscura, ma dove ombre
si raggruppano a prua e perfino cantano,
come un tempo quelli che arrivavano, quando s’ingrandiva
davanti a loro, alla fine del lungo viaggio,
la terra nella schiuma e brillava il faro.

E se rimane
altro che un vento, uno scoglio, un mare,
io so che tu sarai, anche di notte,
l’àncora gettata, i passi barcollanti sulla sabbia,
e la legna raccolta, e la scintilla
sotto i rami umidi, e, nell’inquieta
attesa della fiamma che esita,
la prima parola dopo il lungo silenzio,
il primo fuoco in fondo al mondo morto.


La casa natale

5. Ora, nello stesso sogno
sono disteso sul fondo di una barca,
la fronte, gli occhi poggiati contro le sue assi curve
su cui ascolto frangersi l’acqua bassa del fiume.
E bruscamente questa prua di solleva,
immagino che già qui sia l’estuario,
ma mantengo gli occhi rivolti contro il legno
che ha odore di catrame e di colla.
Troppo vaste le immagini, troppo luminose
che ho accumulate nel mio sonno.
Perché rivedere, fuori,
le cose delle quali le parole mi parlano, ma senza convincere,
desidero una riva più alta o meno oscura.

Eppure rinuncio a questo suolo che si muove
sotto il corpo che si cerca, mi alzo,
percorro la casa da una stanza all’altra,
ve ne sono adesso innumerevoli,
sento gridare voci dietro porte,
sono colto da quei dolori che battono
alle cornici che si sgretolano, mi affretto,
troppo greve è per me la notte che dura, entro spaventato
in una sala piena di banchi,
vedi, mi dicono, fu la tua classe,
vedi sui muri le tue prime immagini,
vedi, è l’albero, vedi, qui è il cane che guaisce,
e quella carta geografica, alla parete
gialla, quello scolorirsi dei nomi e delle forme,
quel disfarsi delle montagne, dei fiumi,
attraverso il biancore che raggela il linguaggio,
vedi, fu il tuo solo libro. L’Iside del gesso
del muro di quella sala, che si scrosta,
non ha mai avuto, non avrà mai nient’altro
da socchiudere per te, richiudere su di te.
(2001, traduzione di Fabio Scotto)

DA IL DISORDINE 

Ma se muoio egli morrà, lui l’eterno,
bisogna che io non muoia,
se mi decompongo nella luce lui si decomporrà.
Le nostre nubi, i nostri colori andranno alla deriva,
irresistibilmente i venti dell’alto del cielo li sposteranno,
bisogna che io non muoia.

Oh, ho tanto dispiacere
da essere pura e non ho più nome e quasi canto.
Io non sono più, io cado,
la mia testa si disfa da un estremo all’alto del cielo.

Come sono sola!
Si bruceranno per me rami umidi,
si avvolgerà la mia vita in un lenzuolo.
Si parla distrattamente di me in questo giorno grigio
il cui vento talvolta s’infuria, e turbina.

Sono io che ho presa,
intatta come il cielo che passa in fretta,
questa cosa incomprensibile, la rivoltella?
Come pesa il ferro quando gli occhi si chiudono,
che dio ha sorretto le mie povere dita?
Ma ora ho di nuovo le mie mani di ragazzina.

Dio,
dio degli altri,
guarda nella mia lunga giornata,
guarda nella mia fatica cui nessuno viene a sottrarmi,

guarda in questo sangue
del quale mi sono macchiata fino a morirne.
Guarda nel palmo della mia mano sinistra,
guarda nella mia mano destra,
guarda nelle mie dita che per te gioco ad allargare e poi a richiudere.
(2004, traduzione di Fabio Scotto)



DA UR-ANTI-PLATONE

Siamo di uno stesso paese sulla bocca della terra
Tu di un’unica gettata di ghisa con la complicità del fogliame
E quello che si chiama io quando il giorno declina
E le porte si aprono e si parla di morte.

(1947, traduzione di Feliciano Paoli)
Yves Bonnefoy nasce il 24 giugno 1923 a Tours da padre meccanico in ferrovia e madre insegnante elementare, entrambi d’origini contadina. Dopo aver conseguito la laurea in Matematica alla Sorbona, inizia a frequentare esponenti del gruppo surrealista, fonda la rivista “La Révolution la nuit” e pubblica il Traité du Pianiste. Nel 1947 rompe con Breton e nel 1948 si laurea in Filosofia su Baudelaire e Kierkegaard. Tra il 1949 e il 1953 compie viaggi in Europa, in particolare in Italia, la cui produzione artistica, dall’arte romana a Piero della Francesca, dal Palladio a Michelangelo, dal Barocco a Caravaggio, sarà – insieme con Poussin e Giacometti – al centro dei suoi studi di storia dell’arte. Nel 1953 esce, con straordinario successo di pubblico, la sua prima raccolta Du mouvement e de l’immobilité de Douve. Si lega d’amicizia con Starobinsky, Celan, Jaccottet, Dupin e Leiris, con i quali fonda negli anni Sessanta la rivista “L’Éphémere”. Riceve incarichi d’insegnamento in varie università, tra le quali quelle di Ginevra, Vincennes e Nizza, per poi diventare dal 1981 al 1993 professore di Studi comparati della funzione poetica al Collège de France. Di Yves Bonnefoy sono disponibili in italiano: Goya, le pitture nere, Donzelli 2007, Le assi curve, Mondadori 2007, Poesia e università, Manni 2006, Terre intraviste, Edizioni del Leone 2006, La civiltà delle immagini. Pittori e poeti d'Italia, Donzelli 2005, La comunità dei traduttori, Sellerio di Giorgianni 2005, Ieri deserto regnante-Pietra scritta, Guanda 2005, Alberto Giacometti, Abscondita 2004, Il disordine. Frammenti, San Marco dei Giustiniani 2004, L'entroterra, Donzelli 2004, Osservazioni sullo sguardo. Picasso, Giacometti, Morandi, Donzelli 2003, Seguendo un fuoco. Poesie scelte 1953-2001, Crocetti 2003, Quel che fu senza luce. Inizio e fine della neve, Einaudi, Trattato sul pianista, Archinto 2000, Nell'insidia della soglia, Einaudi 1990, Dizionario delle mitologie e delle religioni, BUR 1989.