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Trascrizioni di testi orali





lunedì 02 dicembre 2002 legge Luca Alessandrini
Come si forma la memoria storica? Quali sono i limiti della sua validità? In che misura una testimonianza riproduce la storia o piuttosto orienta la storia? Quanto la storia in sé influisce sull'identità stessa dell'individuo, attraverso il suo modo particolare di ricordare?
Il rapporto tra storia e memoria può essere affrontato con la registrazione e l'esame delle memorie di singoli che ricordano la propria partecipazione ad avvenimenti rubricati come fatti storici.
Si tratta di persone che ricordano un passato collettivo nel quale propongono la propria memoria individuale e diretta e riconoscono la propria identità.
Tale particolare categoria di memoria è suscettibile di rilevanti variazioni nel corso degli anni, e tuttavia resta saldamente presente nei soggetti pur assumendo forme e colorazioni diverse.
Il soggetto si adatta, ma al tempo stesso si ribella alla diversa considerazione che la società dimostra di avere nel corso degli anni successivi all’evento del quale è stato partecipe.
Il lavoro dello storico di professione deve sicuramente concentrarsi sui complessi rapporti tra storia e memoria; ha a disposizione il particolarissimo e privilegiato osservatorio costituito dal rimemorare individuale, nonché dalla continua rifondazione identitaria.



Testi:

I testi riportano testimonianze o deregistrazioni di interviste. Le interviste sono depositate in archivi e le testimonianze sono pubblicate, e sono accessibili a chi intendesse affrontarne uno studio sistematico, ma, poiché qui sono riportati frammenti di lunghi percorsi narrativi, per una forma di rispetto si è preferito non riportare i nomi degli intervistati.


La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, a cura di ANNA BRAVO e DANIELE JALLA, Franco Angeli Milano, 1992 (la prima edizione è del 1986)

Lettura di alcuni brani, le cui dimensioni sono state scelte dai curatori del libro, di interviste condotta a diversi ex deportati nei campi di sterminio sia perché ebrei sia per motivi politici. I brani scelti sono relativi alla memoria, la lettura di brani relativi alla vita del campo avrebbero inevitabilmente spostato l’attenzione dai testimoni alla denuncia dei crimini nazisti.


Pag. 57
Tanti non capivano, non potevano nemmeno immaginarsi. Perché noi vedevamo gente morire continuamente, tutti i giorni, e i crematori fumavano tutti i giorni con cinquecento, seicento, settecento persone a giorno cremate. E… bambini, vecchi, e gente che erano pieni di vita. Ne ho visti portati via, la notte erano lì, alla mattina erano… per terra. Ma non erano morti quei lì: erano solo assiderati , un po’ dal freddo un po’ dalla fame, e venivano portati nel crematorio. Quei lì erano vivi, non erano morti! Bastava rianimare un po’ il corpo che loro riprendevano a vivere!
E allora quelle robe lì, se uno non c’è stato… Raccontare poco non era giusto, raccontare ilvero non si era creduti. Allora ho evitato di raccontare: “sono stato prigioniero”, e bon.


Pag. 58
Io ne parlavo con mia mamma. E forse gliene parlavo troppo, ma mia mamma mi stava ad ascoltare. Gliene parlavo sovente di sera, mi mettevo a letto e raccontavo, poi lei andava giù e parlava con le mie sorelle… loro erano giovani, studiavano ancora, non avevano tempo di ascoltarmi, e un bel momento mi hanno intimato l’alt. Han detto: “basta. Tu non racconti più niente. Perché guarda che quando la mamma viene giù alla sera non riesce più a dormire, a pensare alle sofferenze che ha patito suo figlio. E vuoi uccidere tua mamma? Non devi più parlare, devi star zitto, devi tenere per te l tue cose”. Di fronte a questo fatto io non ho più parlato… neanche con mia mamma. Nel ’47, primo dicembre ’47, mi sono sposato; e ne parlavo con mia moglie, poi lei è rimasta incinta subito e non ho più potuto perché si spaventava. Poi dopo la prima bambina ha avuto la seconda, poi allattava, poi… non ne ho più parlato con nessuno.
Non ne ho più parlato con nessun e il mio silenzio è durato trent’anni.


Pag. 59
Non ne parlo mai. Cioè ne parlo quando sono con i miei compagni, perché loro possono capirmi. Mica possono capirmi gli altri.


Pag. 59
Non mi va di raccontare tutto, non mi va. Perché guarda, posso dire che io cerco sempre di minimizzare, di non raccontare tutto; perché si può anche pensare che sia… non dico retorica, ma delle cose non vere…


Pag. 59
Quando eravamo in campo dicevo: “quando usciremo di qui, se usciremo, non crederemo neanche noi di aver superato tutto questo… Quindi come si può pensare che gli altri ci cedano, che capiscano la tragedia che è avvenuta qui”.


Pag. 60
Ecco cosa dico io: che… sì, posso spiegare, posso dire cos’è successo, posso anche raccontare le mie disavventure al campo. Ma quelli che non son ritornati, allora? Chi può parlare per loro? Troppi sono morti! Mi diceva sempre un nostro compagno che noi siamo ritornati in troppi, e in troppo pochi. Cioè era meglio che non ritornasse nessuno. Così nessuno sapeva niente… e almeno era finito!


Pag. 60
Io ero abbastanza restìa per questa intervista. Dico: ma io racconto il mio intimo, metto fuori tutto quello che ho fatto – sarà poco, sarà tanto, è servito, non è servito, io ritengo che a qualche cosa è servito – però c’è sempre il dubbio che quella persona non capisca, ecco. E invece non ho fatto male, non ho fatto male…


Pag. 60
E’ difficile parlare, specialmente in famiglia. E’ più facile parlare con lei che non la conoscevo prima, perché in famiglia – è strano, ma io non credo di essere sola, credo che a quasi tutti sia successo così: non sono riusciti a raccontare – quello mi ossessiona – di una ragazza che ho visto ammazzare sbattendole la testa contro il muro. Come facevo a raccontarlo a mia madre…
Adesso tante cose sono cambiate, forse è più facile parlare. Ma sempre con degli estranei, mai in famiglia. Anche mia sorella, che era con me in Lager, parliamo pochissimo, accenniamo… e sono passati tanti e tanti anni. Invece c’è stato chi aveva il desiderio di scrivere; aveva ragione, per fortuna che l’ha fatto. Fosse stato per me forse non si sapeva.


Pag. 61
Oggi forse paliamo di nuovo perché sentiamo il tempo che fugge, per contrastare la fuga del tempo, non so se anche per altre ragioni. Credo soprattutto per contrastare la fuga del tempo. E forse anche perché in questo momento si è divulgata una coscienza contro la guerra, contro le armi atomiche. Per la pace, che tocca tutti gli strati della popolazione.


Pag. 380
Sono nata ebrea, cresciuta ebrea, ma la nostra non è che fosse una famiglia ortodossa, assolutamente. Però questo fatto della deportazione lo ha rafforzato molto. Non abbandonerei la mia religione per nessuna cosa al mondo, mi sento molto più unita alla mia gente – io sono unita con tutti, ma con la mia gente in modo particolare… Adesso sono fiera di essere ebrea, con tutto quello che ho passato. Forse non lo sarei altrettanto se non fosse successa questa ingiustizia tremenda. E con questo non è che io sia né un’ebrea ortodossa nè praticante, però ci tengo.


Pag. 381
Le dico questo: non so se… probabilmente succede in tutti i nostri compagni – sarà una debolezza, sarà una cosa che ritorna in noi – ma più si diventa anziani e più queste cose... le sentiamo più adesso che allora. Forse sarà perché eravamo un po’ spensierati, presi da altre cose, non lo so, non lo so, non lo so. Umanamente ci fa questo effetto… Io rivivo queste cose per… necessità. Ma dovessi dire, mi traumatizzano.

Pag. 384
C’è stato un periodo in cui, particolarmente i giovani ebrei che erano già in Palestina, erano moto stupiti che gli ebrei d’Europa non avessero fatto una resistenza; e ci disprezzavano, dicevano che eravamo un branco di vigliacchi, che dovevamo combattere. Quando poi c’è stato il processo Eichmann hanno cambiato idea, si son resi conto di che cosa era stata la mancata resistenza.

* * *

Testimonianza di un partigiano gappista bolognese raccolta da Luciano Bergonzini all’inizio degli anni Settanta, pubblicata in La Resistenza a Bologna, Bologna 1969-1980, 5 voll.

Cominciammo con azioni di sabotaggio: facemmo saltare i binari ferroviari, le cabine elettriche, i tralicci per l’energia e più avanti passammo al disarmo dei soldati tedeschi e fascisti. Pian piano cominciammo a crescere per l’inserimento di altri giovani, alcuni dei quali provenienti dal Veneto (…). Alcuni erano stati inviati nei repubblichini per farci avere le armi, ma non resistettero a lungo e allora rientrarono con noi.
La 7a Gap compì moltissime azioni militari tanto che i tedeschi credevano che noi fossimo molti di più di quanti eravamo nella realtà. Asti pensare che con soli dodici uomini facemmo, il 9 agosto 1944, il colpo del carcere di San Giovanni in Monte che ridiede la libertà ai detenuti politici, con altri sei o sette uomini fatto l’attacco all’Hotel Baglioni e con pochi partigiani si disarmò la guardia di Vila Contri, a Casalecchio, prelevando le munizioni che poi servirono a Porta Lame e facendo altare la villa.


Intervista allo stesso partigiano gappista condotta da Luca Alessandrini i19 gennaio 1989.
L’intervista è conservata nell’archivio dell’Istituto regionale Ferruccio Parri.

Il nostro comando di brigata ne dava notizia: questo qui è uno che è una spia, state attenti, bisogna. Da quel lato, cosa facevamo noi? il comando della Gap diceva ecco questo lo facciamo fare a quel gruppo là. La donna o non la donna di un loro servizio di informazioni pedinavano … questa persona, per conoscere tutte le cose eccetera, poi passava l'ordine alla squadra Gap. Noi Gap eravamo numerati: Gap numero uno, Gap tre, il Gap cinque che era poi le squadre… Noi prima di fare le cose andavamo anche noi … Era scegliere la via d'uscita la più difficile, lo sganciamento, non era … l'azione in se stessa, e a volte questo qui, questo durava anche un mese prima di… quando sapevi che era già una spia non è che danneggiasse la l'organizzazione perché dal momento che lo avevi individuato anche gli altri stavano attenti a questa cosa. Si faceva l'azione, è evidente che tu facevi l'azione su una persona che non avevi mai visto e conosciuto in vita tua. E dovevi fidarti ciecamente … che quella fosse veramente una spia, che fosse veramente … che altrimenti era finito tutto. Una volta lo faceva la nostra squadra, una volta faceva l'altra, a seconda il tipo … secondo la zona dov'era da far fuori, eccetera. Per esempio si diceva deve esser fatto fuori in questi ambiti. Non lì perché là poi lo sapevano: là c'era una base, là c'era, vicino c'era una cosa del Cumer, c'era una cosa del Cln, c'era un'altra formazione, allora dovevi anche, tu non lo sapevi ma l'indicazione era: in quella zona non si tocca nessuno. Bisognava scegliere, l'indicazione era di questo tipo.
- E contro i tedeschi?
Contro i tedeschi noi abbiamo per … facciamo solo i sabotaggi inizialmente sui camion, che andavano al fronte pieni di fusti di benzina. Allora noi nel giugno, così ne abbiamo attaccati delle decine, mettendo delle bombe incendiarie dirompenti sopra dei camion, anche mentre andavano. Noi in bicicletta, dietro, accendevamo la bomba così, accendevi la sigaretta poi ci attaccavamo al camion, zac!, buttava dentro la bomba e via. (…)

* * *

Testimonianza di un partigiano bolognese raccolta da Luciano Bergonzini nel 1969, pubblicata in La Resistenza a Bologna, Bologna 1969-1980, 5 voll.

Mio padre, macchinista delle Ferrovie dello Stato, aveva abbandonato il servizio dopo l’8 settembre ed io, della classe 1925, ero stato chiamato alle armi nel novembre dalla repubblica di Salò. Eravamo quindi due “fuorilegge”, anche se in quei mesi di confusione e di caos era ancora sufficiente starsene appartati e non dare nell’occhio ai vicini, non uscire che per ragioni gravi. E così avevamo fatto, ascoltando i consigli e le raccomandazioni dei compagni clandestini. Mi avevano detto di aspettare, che mi avrbbero fatto aver le disposizioni per andare in montagna.

Intervista allo stesso partigiano bolognese condotta da Fausto Schiavetto dell’Università di Padova il 16 dicembre 1993.
L’intervista è conservata nell’archivio dell’Istituto regionale Ferruccio Parri.

Mio padre era un antifascista passivo, non ha mai parlato molto in famiglia, però mugugnava. Insomma era chiaro per i figli, eravamo due fratelli, che nostro padre era antifascista, anche se con noi non è che si sia aperto molto, non ha avuto cioè una funzione attiva nei nostri confronti. Questo dunque fu l’ambiente in cui crescemmo, un primo dato. Il secondo è questo. Dalla fine del 1942 – io frequentavo allora un istituto tecnico commerciale, il Pier Crescenzi dove studiavo ragioneria – ero affiatato con un gruppo di studenti suppergiù diciassettenni del mio istituto e del liceo scientifico Righi. Era un gruppo di studenti, come si direbbe oggi, interessati alle cose che avvenivano. Ecco, non è che avessimo delle precise posizioni politiche. Si giocava un po’ a fare io cospiratori. Si parlava di letteratura. Leggevamo, ci passavamo alcuni libri che allora erano all’indice e che erano dei classici di letteratura inglese o americana, come Le stelle stanno a guardare di Cronin, libri che, comunque, raccontavano delle cose, per esempio sulla storia dei minatori.
Era un istituto tecnico commerciale. C’era un gruppetto di studenti giovanissimi, ma che prestavano attenzione agli avvenimenti, che leggevano, discutevano anche le notizie della guerra, gli orrori della guerra i sacrifici della guerra. Aggiungi a questo il tenue retroterra famigliare e puoi capire che avevo una certa sensibilità culturale. La caduta del fascismo fu un grosso trauma. Io non posso dire che allora ero un antifascista, però vissi intensamente quel momento, mi colpirono le manifestazioni a Bologna, mi colpì la commozione di mio padre. Soprattutto ci fu un fatto che credo fu determinante, ci fu la scintilla che accese la paglia che era stata sparsa, uscì dal carcere – era incarcerato come antifascista – un cugino di mio padre Wlater Nerozzi, un personaggio che fu per anni il segretario della prima Associazione nazionale dei partigiani italiani. Durante la guerra di liberazione fu il comandante dei Gap da Torino, un personaggio. Io ebbi contatto con lui.
Era stato sei, sette anni in carcere, ci era andato giovanissimo. Era della generazione di “Boretti”, Benfenati Modesto. Lo conobbi, mi diede da leggere alcuni libri. Mi ricordo ancora un libro di storia, Napoleone di Eugenio Tarlé e anche La madre di Gorki. Non erano letture politiche dirette. E poi mi presentò nell’estate del 1943 in un ambiente che appresi poi essere l’ambiente dell’organizzazione clandestina comunista. Partecipai anche a una, due riunioni. Si ascoltava, erano quasi tutti operai in una zona alla periferia di Bologna. Nell’autunno, dopo il grande bombardamento del 25 settembre, io decisi. Il mio antifascismo generico diventò un po’ più preciso. Comunque decisi dopo l’8 settembre. Io abitavo a porta San Mamolo. Vicino c’erano grandi caserme – è una zona dove sono concentrate tante caserme. Vidi i tedeschi, in pochi, ma efficientissimi, armatissimi, catturare centinaia di soldati italiani. Noi ne facemmo scappare un mucchio, dandogli gli abiti civili. Quello che è successo un po’ dappertutto. Con alcuni giovani andai dentro alle caserme e portammo via delle armi, che però portammo subito a nascondere da qualche parte. Noi non sapevamo neanche adoperarle. Mi colpì molto questo fatto, e decisi. Si cominciava a parlare d partigiani, di andar in montagna. E allora io questo gruppo di persone che avevo conosciuto, che, imparai poi, erano l’organizzazione clandestina del partito comunista, dissi: “Voglio andare in montagna”.
(…)
Quello che mi colpì furono i comunisti che avevano fatto la guerra di Spagna e un mucchio di anni di galera e, invece di farsi una bella riposata a casa, cosa della quale avrebbero tutti i diritti, sono ancora lassù. Loro erano naturalmente preparati, parlavano, ci insegnavano. Questo mi colpì molto, tant’è vero che io chiesi subito di entrare. Allora si chiedeva di fare parte del partito comunista italiano. Malgrado fossi già col fucile sulle spalle, mi fecero fare la candidatura e io venni accettato formalmente nel partito comunista italiano solo il primo maggio del 1944 (…) Quando mi iscrissero al partito comunista, nel distaccamento moltissimi erano gli operai, io sono uno dei pochi studenti. Fisicamente ero un ragazzino, una faccia da bambino molto delicato, pallido, magro. Mi ricordo che si diceva che bisognava proletarizzarmi. C’erano questi modi di fare che oggi guardiamo con distacco, ma io guardo ancora con simpatia, perché allora avevano un senso. Per maturarmi, per farmi conoscere le durezze della vita, mi ricordo che, nel primo periodo, mi fecero fare delle cose pesanti della vita del campo. Capii che me le facevano fare volutamente, perché mi mettevano alla prova non tanto il fisico, quanto lo spirito e la capacità di adattamento. Non c’è dubbio che questo venne fatto e me ne resi conto Però non durò molto, l’apprendistato ebbe un tempo breve. Fu un apprendistato che durò un paio di mesi e poi venni accettato a pieno titolo in questa comunità e quindi non ci fu più nessuna volontà di mettermi alla prova in una qualche maniera. La vita era molto dura e questo fu veramente un impatto. Però c’era anche questa vita di comunità. In questa situazione terribile, quando il cibo e la sopravvivenza erano l’esigenza di ogni minuto, si trovava il tempo per discutere. Io l’ho scritto da qualche parte, lo ricordo e lo dico sempre, avevamo istituzionalizzato questo tempo per discutere, si facevano le cosiddette ore politiche. Magari dopo una giornata terribile, ma la sera, attorno al fuoco, c’era sempre qualcuno che parlava. Un argomento, un dibattito o un vecchio che ne sapeva i più e raccontava le cose e i giovani che ponevano le domande e loro rispondevano e quindi c’era una formazione.

* * *
Intervista condotta da Luca Alessandrini dal 18 dicembre 2000 al 6 febbraio 2001. L’intervistato è stato un militante comunista arrestato nel 1930, ha subito il carcere a Castelfranco e a Volterra, poi il confino, pressoché ininterrottamente fino all’agosto 1943, quando fu liberato con gli altri detenuti politici, fu poi un comandante partigiano nella Resistenza. Si è sempre rifiutato di scrivere le proprie memorie o di concedere interviste fino al 2000.
L’intervista è conservata nell’archivio dell’Istituto regionale Ferruccio Parri.

Il tratto dominante di questa intervista è la modestia, scelta anticamente come unica cifra da parte di chi riteneva che dovesse esistere un solo eroe collettivo, il proletariato, per il quale sarebbe stato colpevole indulgere a personalismi. Per anni l’intervista è stata rifiutata con frasi gentili ma irremovibili come “Non ho niente da raccontare, ho fatto quello che si doveva”. Deciso a raccontare alla fine della sua vita, l’intervistato ha continuato ad avere la tendenza a sminuire i propri meriti e a ridimensionare il proprio ruolo, anche attraverso l’esercizio di una spietata autoironia. Per questo, per tutta la vita si era rifiutato di raccontare degli interrogatori ai quali si riferisce il brano seguente. Per pudore, non voleva che apparisse come una forma di vanità raccontare che era riuscito a non rivelare nulla dell’organizzazione clandestina durante gli interrogatori. Il brano che segue si riferisce all’anno 1930, quando fu arrestato insieme ad altri appartenenti all’organizzazione comunista clandestina. In una precedente operazione di polizia uno dei fermati aveva fatto il suo nome.

(…) Allora lui mi disse che c’era questo. Non so fino a che punto fosse vero, non fosse vero. Lui però mi disse che aveva fatto anche il mio nome quello di C. e altri, eccetera, capisci ? E io invece quando, ho avuto anche la fortuna – che non so se è fortuna o no – che lì quando m’arrestarono che mi hanno portato su, nell’anticamera, qui facevano tutto, c’era tutto preparato, eh una corda là con un pezzo, un legame, quella corda lì da impiccare, un pugnale tutto rosso insanguinato, tutto così eccetera. E qui c’era il coso che interrogava, eh, e lì quell’altro che diceva: dai, fai, fai. E io di fuori con la porta aperta: bussi boem! boem! ah boia! E urli, là urlare, urlare che era qualcosa di tremendo. Sentii che sopra, prima di me c’era un compagno che era – bisogna che ripesca – di … di Santa Viola il quale [Comincia a parlare in dialetto] era un giovane più alto di te, grosso, che uno dice: beh. Dopo due ore che gli avevan fatto le torture eccetera l’hanno portato fuori preso per le braccia e le gambe e portato fuori così. [Ricomincia a parlare in italiano] E io l’ho ascoltato, da lì si sentiva tutto, le botte, eeh, uuh, eeh, uuh. Perché anch’io urlavo, imprecavo, non so cosa dicevano, però così, eccetera. [in dialetto] Sono andato dentro … [in italiano] che ero terrorizzato di fronte a Della Peruta, a Pastore, eccetera, che erano gente che erano pieni di cocaina a quell’epoca. Loro erano proprio dei cocainomani. Quel che mi ha salvato cosa è stato? Come ti chiami eh, ehe, eh Allora io bla bla bla. Boem! [in dialetto] Mi dà un colpo qui che senti mò, non so se mi ha sbattuto via i denti. Se mi prende bene un lavoro così mi sbatte via… [In italiano] mi sono risvegliato, allora ho capito. “Come non conosci? È il tuo amico! [a gesti evoca le percosse] abiti lì, come no! Tu qui e tu là” Però le botte e bla bla bla, e le botte. Io me la son levata con i bla bla bla che non conoscevo niente. Però avevo già uno stato fisico tale, deteriorato da, da sentir tutte queste botte per un’ora o due non so quanto, a quell’altro che era lo stesso che le dessero a me, capisci, avendo assistito a questa scena. E poi dopo poi mi misero via eccetera. [In dialetto] No lui qui ha resistito e dopo aver resistito così mandalo mò via perché altrimenti lui qui, adesso stando qui in San Giovanni in Monte può darsi che riesca a prendere dei contatti e mi spedirono …
– Ti hanno ridotto molto male?
Eh sì, sì. Però capisco che dal primo interrogatorio, perché non ne ho mica fatto uno eh, cioè non hanno detto bene questo qui non …, m’hanno tenuto isolato eccetera, e poi dopo poi mi hanno visto che non facevano in tempo non so per gli arresti eccetera, e poi quelli di Anzola, anche là dei compagni, ohi dei compagni [di nuovo in dialetto] che non sapevano niente che non erano neanche dei compagni, li hanno arrestati perché in una borgata ci stava anche lui. Gli han dato tante di quelle botte finché non ha fatto cinque o sei nomi. Purtroppo che erano, erano compagni sul serio quelli là [sorride] è che lui non lo sapeva mica. “Chi è il tuo amico? Ma come ?” qui e là. Allora sai aveva diciannove, vent’anni, [in italiano] capisci, a quell’epoca là, che non sono vent’anni del giorno d’oggi, di esperienza, eccetera. Lì è stata dura. Però affrontata con una grinta tale che, sì, [in dialetto] me la sono cavata con poco Perché un interrogatorio solo è un conto, e poi se dura due o tre ore è un conto se dura solo mezz’ora o un’ora è un altro. E poi loro erano bell’e dissanguati anche loro, perché erano già le due della notte che avevano fatto quegli interrogatori lì proprio a fondo a fondo, perché li avevano, la cocaina, l’alcool, ogni cosa. Tanto più, ti dico questo episodio, presero uno che abitava a C., sai un poveretto, lo presero con sei poliziotti, lo misero nell’edificio della milizia e lo misero nella milizia a fare da testimone per torturare gli antifascisti. E lui qui da coso, veniva, veniva, veniva a torturare noi. A sua volta è andato casa per casa: “Oh, sapete, vostro figlio…” e si faceva dare della roba da mangiare, eccetera. E gli davano qualche cosa. [In italiano] Quel tipo lì, perché gli altri lì, non so come sia, perché per torturare proprio così a sangue freddo eccetera, ci voleva anche del coraggio, eh. (una breve frase che non si capisce) Sai L. si chiamava, che è morto di tbc dietro un fosso, è morto come un cane. Ma non è morto come antifascista, è morto come fascista, intendiamoci bene, sai… screditato perché sai quelle cose lì…
(…)
Perché in quel periodo ne sono morti parecchi. Mio cugino, che ci rimise un polmone. Perché, ecco anche quella tortura lì, avevano un sacchetto, un sacco con sabbia e ti picchiavano proprio la schiena qui. La sabbia, tac!, non ti fa male come coso, ma ti stacca il polmone, ti stacca un qualche cosa che è dentro, tac! E ti picchiavano con quella cosa lì, capisci. E allora noi altri lo sapevamo, i familiari, e allora sì sì mi han fatto questo mi han fatto quest’altro, capisci?
(…) Poi dopo tutte le notizie. Con me a quell’epoca c’erano dei gruppi di famiglie, [in dialetto] che facevano le sarte… Allora quando hanno arrestato me, me l’hanno raccontato dopo: “Beh, lo hanno arrestato”. “Sì sì”. Allora salta su la figlia, che era un po’ mezzo benestante, insomma che andava fare la sarta, perché, capisci, andava a lavorare per imparare, allora non la pagavano mica. “Ma io l’ho conosciuto. Sì un ragazzo che… sì insomma, parla di politica. Sarà un chiacchierone, però serio, onesto eccetera” [In italiano] Capisci? Allora queste cose qui influivano sulla gente …
– Quanti interrogatori hai subito?
Eh, qui me ne hanno fatto due e uno tre, tre mi sembra. Perché dopo anche alla sera. Dopo poi mi hanno spedito là. Là, sai, a Castelfranco. Perché ero alle celle quinte, son le celle senz’aria diretta, hai l’aria da un finestrino sul corridoio che a sua volta il corridoio ha una piccola finestra che guarda fuori… Allora era dura, dura, dura. Lì è dura. Lì è tutta un’altra cosa, insomma perché là poi, avevano preso queste celle proprio per noi, che a sua volta l’interrogatorio lo subivi là, eh. Venivano come milizia staccata e malgrado che anche i giudici e gli avvocati : “Non può essere perché non era permesso legalmente, eccetera”. Venirti a fare l’interrogatorio là non era permesso, eccetera, eccetera. Invece, io sono stato portato là, sono stato interrogato là, ho fatto interrogatori là.
(…) Però, sta attento, qui anche a Bologna ho avuto una bella fortuna (…) [tra gli arrestati incontra un compagno più anziano] mentre ero lì che, [in dialetto] mi torturavano, bada bene, quelli che erano lì. Allora, cosa succede, questo compagno dice: “Se resisti bene, altrimenti dì qualcosa, dì: Tizio ha…”. Cioè mi suggeriva di dire qualcosa, dire solo una piccola cosa qui, un pezzetto là, eccetera.

[L’intervistato spiega che è stato “fortunato” perché, avendo resistito alle prime sevizie nel 1930 e avendo resistito allora, ha potuto subire interrogatori durante la guerra senza rivelare nulla]

A quell’epoca là, tu capisci, anche se avevo già bell’e diciannove anni ero già stato, a quell’epoca là, illuminato, mistico, guai a chi tocca un compagno, immaginavo tutta una cosa teorica, bella, capisci? Infatti, quando dico le cose, dico io non conosco la vita di fuori, conosco solo la vita di dentro, e perciò io non ce l’ho quella di fuori, e quindi ho un mucchio di ingenuità, dal punto di vista generale, e cose che io… così.

Perché vedi, questo è il fatto. Quando sono venuto fuori dopo aver fatto la galera, gli interrogatori sotto alle Brigate Nere è già un’altra cosa, che quando arriverò a questo forse ti dà un’idea più esatta… della mia personalità. [in dialetto] Come mi vedo io, beninteso, mica che sia vero. Cioè, sono vero, però quello che penso di essere, perché è un conto quello che penso di essere e un altro conto quello che veramente sono. Ecco, questo io lo so benissimo, però ci passa differenza. Allora là, mi son misurato bene. [In italiano] E mi son misurato a un punto tale che cambiavo facilmente, [in dialetto] io sono questa figura qui, non si spostava niente se non ero questa persona qui, con gli stessi metodi, lo stesso linguaggio, le stesse cose. Cioè era proprio questo: imitare quello che si era, non quello che si era veramente, ma quello che diceva la carta d’identità. Durante la guerra. Però lì avevo tutt’un’altra esperienza. Ecco, allora io l’ho affrontato tutto bene, le torture delle Brigate Nere e così via, miei compagni che erano bravi come me, e sono stati bravi, non l’hanno affrontata bene. Perché? Perché un conto è affrontarla in un modo e un altro conto… dopo, come?


Dibattito:

Luca Alessandrini è uno storico contemporaneo. Già ospite della bottega dell’elefante l’anno scorso, è tornato per leggere testi di memoria. Si occupa della relazione tra il processo di formazione della storia e il meccanismo della memoria, come atto creativo, operazione attiva. In passato Alessandrini aveva letto da brani di storici che trattavano della memoria collettiva. Questa sera l’argomento è la memoria individuale all’interno del fluire storico, o meglio i dati storici visti nell’ottica della singola persona.
E’ possibile conoscere la memoria individuale attraverso testimonianze scritte per così dire ingenue, non filtrate da una consapevolezza intellettuale -quindi non attraverso la letteratura di genere memorialistico. Oppure si può direttamente venire a contatto con i singoli protagonisti con l’intervista. Fu uno storico della classe operaia inglese, Thomson, a inaugurare un metodo che in Italia arrivò relativamente tardi: l’intervista orale. Il testimone racconta allo studioso tutta la sua vita o una tranche de vie. Le testimonianze non servono per la ricostruzione dei fatti, bensì per le emozioni di un’epoca, di un evento.
Talvolta la ricostruzione della memoria diventa una terapia, con il recupero del rimosso. Così è successo ai sopravissuti dei Lager nazisti, per i quali l’esperienza nei campi di sterminio e di prigionia era il non raccontabile.
Sono due gli eventi storici da cui sono tratte le interviste scelte da Alessandrini questa sera, l’Olocausto e la Resistenza italiana.
Nel primo caso, non è importante che le parole dei testimoni siano una denuncia dei crimini di guerra, i brani sono relativi alla memoria. Quello che emerge è l’insormontabile difficoltà a parlare, ad essere creduti dai parenti, dagli amici. E quindi questa reticenza sembra interrompersi d solo a tratti dopo anni. Questo dolore è il fondamento di un forte senso d’identità.
Nel caso della memoria della Resistenza, occorre riflettere su quali ragioni hanno motivato la ricostruzione storica. Prima degli anni Settanta la memoria storica era politica, le versioni ideologiche, la guerra infatti era ancora qualcosa di troppo vicino al presente. Poi alla fine degli anni Sessanta cominciò la stagione delle contestazioni, la cui cifra significativa era la partecipazione. Allora fu avvertita viva l’esigenza di una pluralità di soggetti. Spesso –come nel caso dell’intervista allo stesso partigiano condotta da Alessandrini a distanza di quindici anni- i protagonisti della Resistenza tendevano parlare di sé con grande modestia, sminuendosi per rimanere nell’ombra di quel soggetto collettivo che è stato il proletariato. Dopo la caduta del muro di Berlino, la memoria viene riconsiderata alla luce di nuove motivazioni e si riscontra una diffusa tendenza a ricercare le ragioni profonde dell’esperienza resistenziale. Questo conferma l’essenza attiva della memoria come processo che comincia e si sviluppa sullo sfondo di un contesto storico. Si decide di interrogare il passato non perché esso sia suscettibile di trasformazioni, ma perché può e deve fornire delle risposte al presente. Il passato appartiene al regno della morte, la memoria a quello della vita.