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Può la cultura arginare la corruzione della società? - Umberto Saba, Elio Vittorini, Italo Calvino




lunedì 09 dicembre 2002 leggono Paolo Bollini e Andrea Grillini
Cosa dire di fronte alla barbarie? Di fronte ai lager, ci fu chi sostenne che non bisognava più scrivere poesia. Ma i poeti e gli scrittori continuarono a parlare, sia per testimoniare che per ricostruire. In Italia, fra le macerie della guerra, alcuni scrittori guardarono nell'abisso morale del fascismo e del nazismo. Ognuno ce ne ha consegnato un'idea diversa: chi facendo delle analisi e tentando interpretazioni, chi dando forma romanzesca a quello che era avvenuto, per distinguere gli "uomini" e i "no", chi solamente per cercare di capire meglio, chi per incitare a una rivoluzione democratica.
Umberto Saba mobilita tutta la sua alta sensibilità per interrogarsi sul meccanismo stesso della perversione ideologica. Vittorini pone la domanda più provocatoria: cosa vale dunque la cultura, se non ha saputo combattere ed evitare l'orrore dalla barbarie? Perché la cultura è impotente? Forse vuole esserlo? Dal '45 a oggi, è mai stata data una risposta a questa tremenda domanda di Vittorini?
Italo Calvino è lo scrittore che fa da ponte da quegli anni e fino a noi. Forse nelle sue pagine c'è qualche risposta importante, rivolta al passato, ma anche al presente. Le domande angosciose infatti non finiscono qui, se è vero (come diceva Carlo Levi nel finale di Cristo si è fermato a Eboli, ancora nel '43) che il fascismo sarà sempre capace di assumere nuove forme, "sotto nuovi nomi e nuove bandiere".
La lettura di questi scrittori e poeti può essere davvero attuale, se si pensa che di recente anche la voce di Mario Luzi si è levata per "svegliare i nostri connazionali dal loro letargo, dal sonno della loro ragione".


Testi:

Può la cultura arginare la barbarie sociale e politica?

Umberto Saba La metafora della "rigenerazione" del fascismo (1945)

TUBERCOLOSI, CANCRO, FASCISMO. Ogni epoca ha la sua malattia, alla quale risponde un'altra (ma probabilmente è la stessa) nel campo morale. L'Ottocento ebbe la tubercolosi e gli sdilinquimenti sentimentali; il Novecento ha il cancro e il fascismo. Tutto il processo del fascismo – manifestarsi della sua vera natura quando è già tardi per un efficace intervento chirurgico; sua impossibilità di morire se non assieme alla vittima alla quale si è abbarbicato; tendenza a riprodursi in luoghi lontani dalla sua prima sede; disperate sofferenze che genera in quelli che ne sono colpiti; guasti profondi che si rivelano all'esame necroscopico dei corpi (o paesi) sui quali abbia totalitariamente imperato – tutto, dico, il suo processo ha sorprendenti somiglianze con quello del cancro. Ma in un'altra cosa gli assomiglia ancora.
Nessuno ignora oggi che la tubercolosi è, molte volte, uno dei mezzi che i giovani impiegano per suicidarsi. Azzardo l'ipotesi che il cancro (malattia degli anziani) abbia le sue radici psichiche in un tentativo sbagliato dell'organismo per ringiovanire. La formazione di un neoplasma potrebbe significare il desiderio di rifarsi un nuovo organo; p. es. un nuovo stomaco. (Ho comunicata questa mia ipotesi ad alcuni medici intelligenti, i quali ne hanno tutt'altro che riso). Ebbene: che cosa è stata, in fondo, l'adesione al fascismo – in Italia e altrove – se non un tentativo sbagliato della borghesia di rifarsi una nuova vita, di ringiovanire? Troppo tardi si è accorta poi dell'errore; e allora… non c'è più rimedio; la buona cosa, la cosa provvidenziale, che si presentava apportatrice di un "ordine nuovo" recava invece inumane sofferenze; e, a più o meno lunga scadenza, la morte.
L'"Impero Romano" (nel secolo XX!) ebbe – purtroppo per noi – la genesi, i caratteri e le conseguenze di un neoplasma.
(Umberto Saba, Scorciatoie, 1953 – questa, la n. 43, è scritta nel 1945, in Saba U., Poesie e prose scelte, Milano, Mondadori 1976, vol. II, pp.86-87)

Elio Vittorini Contro una cultura impotente (1945)

Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno o qualcosa abbia vinto in questa guerra. Ma certo vi è tanto che ha perduto, e che si vede come abbia perduto. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che di soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita; di case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le quali è passato il progresso civile dell'uomo; e i campi su cui si è sparso più sangue si chiamano Mauthausen, Maidanek, Buchenwald, Dakau [Dachau].
Di chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene qualcosa che, attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l'esistenza dei bambini. Anche di ogni conquista civile dell'uomo ci aveva insegnato ch'era sacra; lo stesso del pane; lo stesso del lavoro. E se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa "cosa" che c'insegnava l'inviolabilità loro?
Questa "cosa" voglio subito dirlo, non è altro che la cultura: lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo latino, cristianesimo medievale, umanesimo, riforma, illuminismo, liberalismo, ecc., e che oggi fa massa intorno ai nomi di Thomas Mann e Benedetto Croce, Benda, Huizinga, Dewey, Maritain […]
Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo. E se il fascismo ha avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha potuto commetterli? […] Questa cultura non ha avuto che scarsa, forse nessuna, influenza civile sugli uomini. Pure, ripetiamo, c'è Platone in questa cultura. E c'è Cristo. Dico: c'è Cristo. Non ha avuto che scarsa influenza Gesù Cristo? Tutt'altro. Egli molta ne ha avuta. Ma è stata influenza, la sua, e di tutta la cultura fino ad oggi, che ha generato mutamenti solo nell'intelletto degli uomini, che ha generato e rigenerato dunque se stessa, e mai, o quasi mai, rigenerato, dentro alle possibilità di fare, anche l'uomo. Pensiero greco, pensiero latino, pensiero cristiano di ogni tempo, sembra non abbiano dato agli uomini che il modo di travestire e giustificare, o addirittura di render tecnica, la barbarie dei fatti loro. E' qualità naturale della cultura di non poter influire sui fatti degli uomini? […]
Potremo mai avere una cultura che sappia protegger l'uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti ad eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno – questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura.

(Elio Vittorini, Una nuova cultura. Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini, editoriale nel primo numero de Il Politecnico, rivista di cultura contemporanea, 29 settembre 1945, in "Il Politecnico", antologia a cura di Marco Forti e Sergio Pautasso, Milano, Rizzoli 1973, pp.55-56)

Italo Calvino L'ultima città (1972)

Chiese a Marco Kublai: - Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quale di questi futuri ci spingono i venti propizi.
- Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell'approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s'apre nel bel mezzo d'un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s'incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme i pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d'istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t'ho detto.
Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.
Dice: - Tutto è inutile, se l'ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.
E Polo: - L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

(Italo Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi 1972, explicit pp. 169 – 170)



Italo Calvino La cura dell'esattezza (1985)


Cercherò prima di tutto di definire il mio tema. Esattezza vuol dire per me soprattutto tre cose:
1) un disegno dell'opera ben definito e ben calcolato;
2) l'evocazione d'immagini visuali nitide, incisive, memorabili; in italiano abbiamo un aggettivo che non esiste in inglese, "icastico", dal greco eikastikòs;
3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell'immaginazione.
Perché sento il bisogno di difendere dei valori che a molti potranno sembrare ovvii? Credo che la mia prima spinta venga da una mia ipersensibilità o allergia: mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un'intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d'insoddisfazione di cui posso rendermi conto. La letteratura - dico la letteratura che risponde a queste esigenze - è la Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe essere.
Alle volte mi sembra che un'epidemia pestilenziale abbia colpito l'umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l'uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l'espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze.
Non m'interessa qui chiedermi se le origini di quest'epidemia siano da ricercare nella politica, nell'ideologia, nell'uniformità burocratica, nell'omogeneizzazione dei mass-media, nella diffusione scolastica della media cultura. Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l'espandersi della peste del linguaggio.
Vorrei agiungere che non è soltanto il linguaggio che mi sembra colpito da questa peste. Anche le immagini, per esempio. Viviamo sotto una pioggia ininterrotta d'immagini; i più potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e come significato, come forza d'imporsi all'attenzione, come ricchezza di significati possibili. Gran parte di questa nuvola d'immagini si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria; ma non si dissolve una sensazione d'estraneità e di disagio.
Ma forse l'inconsistenza non è nelle immegini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine. Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco d'opporre l'unica difesa che riesco a concepire: un'idea della letteratura.

(Italo Calvino, Esattezza, in Lezioni americane, Torino, Einaudi 1988, pp. 65 – 67)


Luca Canali Un popolo guastato da mali secolari.

La Commissione Quadri (vigilanza e scuole) della Direzione del PCI mi incaricò una volta di esaminare alcune casse di documenti, circolari, corrispondenza, oggetti indeterminati che nessuno aveva avuto il tempo di selezionare. Era materiale di provenienza varia: parti di archivi, reperti di perquisizioni in casa di spie e di collaborazionisti, fogli d'ordini d'epoca clandestina. Bisognava distruggere l'inutile, scegliere e riconsegnare il necessario. Feci trasportare le casse nel negozio d'un compagno mobiliere; giornalmente prelevavo e mettevo in borsa una cartella da esaminare. Bruciai tre quarti del materiale. Riconsegnai il resto. Anche, purtroppo (si saranno poi perdute), tre lettere di Pietro Koch, il capo della banda di SS italiane, fucilato in seguito per atrocità contro antifascisti e partigiani, indirizzate alla sorella in momenti decisivi della sua scelta.
La prima lettera era di una svogliata tristezza. Koch, sottotenente dei granatieri, scriveva del caos, del disorientamento, dei reparti in fuga, dei fucili abbandonati contro i muri dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 e la fuga del re e dei suoi generali. Non so che fare, scriveva con frasi da adolescente smarrito. S'intuivano intorno a lui l'apatia e l'ansia febbrile, gli ordini, i contrordini, gli abiti borghesi sostituiti in fretta alle divise militari. V'è chi raggiunge i tedeschi, continuava, chi torna a casa come può, chi prende la via della montagna e organizza bande partigiane; io non capisco più niente, non so cosa fare.
Forse sarebbe bastato un caso fortunato, un commilitone con le idee più chiare, l'esempio di un gesto deciso, ad avviarlo su una strada diversa, a salvare lui e le sue future vittime. O forse covava già in lui un'antica infezione dell'animo.
La seconda lettera documentava con cupa allegria la scelta compiuta, la formazione di un reparto speciale antipartigiano e anticomunista. La decisione sembrava ferma, il tono infantile. Vi apparivano i segni di una realizzazione turpe: presupposto ne era la coagulazione di brandelli ideologici preesistenti, orecchiati, ma congeniali a un'intima inclinazione. In una fragile psicologia s'innestava l'orgoglio per privilegi mai goduti: facciamo quello che vogliamo, scriveva, non ubbidiamo a nessuno, non ci manca niente, caffè, sigarette, divertimenti.
La ferocia e il vile anarchismo piccolo-borghese potevano finalmente esplicarsi, sublimati nell'ideologia del riscatto del tradimento monarchico-badogliano e comunista.
La terza lettera proveniva da Firenze (il comando tedesco aveva trasferito la banda Koch da Roma per i suoi eccessi che avevano superato persino i limiti della brutalità nazista): il tripudio allucinato, divistico, provinciale, era documentato da una terminologia goliardica, più che da un fosco arsenale semantico. Disponiamo di automobili e di armi, scriveva, diamo la caccia ai comunisti e canaglie simili, scorrazziamo per la città proprio come nei film di gangster americani, e – ritornello della fame e inibizione ancestrali – non ci manca proprio nulla, pane bianco, prosciutto, liquori, sigarette, caffè, cioccolata, donne. Seguivano distratte ma sincere frasi d'affetto per la famiglia.
Non si esprimeva, in quelle lettere, un genio del male, un superuomo distruttore, ma l'esemplare italiano medio diseducato da secoli di servitù e di ignoranza e da decenni di brutale demagogia abilmente esemplata su regressivi archetipi di aggressività e di rivincita. Nella retorica del fascismo morente si innestavano, non a caso, le suggestioni "esotiche" di una cinematografia della violenza.
La cronaca registra che Pietro Koch, seduto sulla sedia davanti al plotone d'esecuzione, prima di esservi legato, si riassettò accuratamente la piega dei pantaloni: era un debole, e voleva apparire un vincitore, o almeno un criminale senza paura.
Anche la sua personale sventura, oltre che le sevizie inferte alle sue vittime, vanno messe sul conto dei suoi corruttori. (Canali L., Quel punto di luce, Milano, Vangelista 1977, pp. 7 – 12)


Carlo Levi Il fascismo è destinato a tornare (1943)

Noi non possiamo oggi prevedere quali forme politiche si preparino per il futuro: ma in un paese di piccola borghesia come l'Italia, e nel quale le ideologie piccolo-borghesi sono andate contagiando anche le classi popolari cittadine, purtroppo è probabile che le nuove istituzioni che seguiranno al fascismo, per evoluzione lenta o per opera di violenza, e anche le più estreme e apparentemente rivoluzionarie fra esse, saranno riportate a riaffermare, in modi diversi, quelle ideologie; ricreeranno uno Stato altrettanto, e forse più, lontano dalla mvita, idolatrico e astratto, perpetueranno e peggioreranno, sotto nuovi nomi e nuove bandiere, l'eterno fascismo italiano. (Levi C., Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi 197533, [I ed. 1945], p. 222)

Dibattito :
Può la cultura arginare la barbarie? Può la razionalità fornire un senso morale? Ma se la cultura non è altro che passatempo per eruditi, allora cosa può e potrà insegnare all’uomo ad essere uomo ? Con questa urgenza, davanti ai perversi effetti della violenza della guerra appena finita, si poneva e poneva scomode domande Elio Vittorini, sulla rivista il Politecnico .Ma davvero la cultura è stata completamente impotente? Oppure ha agito nelle coscienze degli uomini? Anche Umberto Saba nel primo Dopoguerra cerca dei motivi, si interroga. E allora trova un’ ingegnosa ancorché pessimista metafora sul senso dell’accaduto. Il fascismo è stato come un neoplasma. Il cancro potrebbe essere un tentativo sbagliato di ringiovanire. Non ci fu forse un mito di giovinezza unitamente a un’ansia irrazionale di modernizzazione? Questa giovinezza era riportata addirittura ai fasti dell’Impero romano… Probabilmente un’immagine di questo tipo relega la storia nell’ambito della Natura e toglie responsabilità ai protagonisti di questa cruenta stagione. Inoltre forse questa figura della malattia caratterizzante i periodi storici presuppone fasi di infezione e fasi di salute, o meglio di patologia alternate a quelle di normalità. Ma si potrà poi stabilire come per un organismo –e la metafora biologica era tanto cara a chi la salute voleva riportarla con il manganello…- si manifestino sintomi, si propaghi un progressivo contagio e arrivi infine il successivo decadimento dei tessuti? Saba e Vittorini scrivevano con grande sfiducia, pessimismo e sconforto a causa di quella storia con cui ancora fatichiamo a fare i conti. Addirittura Horkheimer e Adorno rilevano nella stessa razionalità occidentale le premesse della barbarie. Ma è possibile un atteggiamento propositivo? Calvino nella celebre chiusa de Le città invisibili invece parla di un inferno diffuso, quotidiano che va contrastato con un costante esercizio di attenzione. Non potrebbe essere un invito per i posteri questo consiglio a non abbassare mai la guardia, a rendersi conto di quello che non è inferno? In tanto ci sembra più vicino alla contemporaneità questo appello, in quanto è umile, ma privo di rassegnazione. Un’altra prospettiva che viene accostata a questa è quella delle più recenti Lezioni americane , una sorta di testamento che ci ha lasciato il grande scrittore. In queste pagine Calvino vuole trasmettere i valori per il nuovo millennio.Leggiamo dalla definizione di esattezza . Essa si contrappone alla perdita di forma, come perdita di senso. In quest’ottica la letteratura ha una precisa funzione cognitiva. Serve a dare i contorni agli oggetti, agli eventi del mondo e quindi della storia. In questo si avvicina di più a uno strumento di conoscenza che fornisce delle chiavi di interpretazione. La sciatteria delle parole diventa un segno della confusione, di quel mondo del caos dove la violenza e l’intolleranza soprafanno la parola e l’intelletto. Nel saggio Il midollo del leone contenuto nella raccolta Una pietra sopra Calvino propone la letteratura come apprendimento del modo di guardare se stessi e gli altri: la letteratura come educazione… Lo scrittore – come scrisse Pasolini nel 1974 – ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.